Per una civiltà delle buone maniere al di là delle contingenze e prima dei programmi
Una questione di stile
di Franco Rositi
In un ipotetico itinerario di formazione politica
potrebbe molto giovare leggere, in contempora-
nea, da una parte volumi di analisi del funziona-
mento del sistema politico in situazioni altamente
specifiche e dall'altra testi-programma di leader po-
litici. Per questa via il discente apprenderebbe in
breve tempo come la politica sia, almeno oggi, pro-
blematicamente e perfino drammaticamente com-
posta, allo stesso tempo, di programmi e di struttu-
re inerziali: non solo inerzia dal lato della società
(composizione e insediamento degli interessi, cultu-
re diffuse e solidamente ottuse, perfino vincoli si-
stemici al tasso di conflittualità politica), ma anche
inerzia dal lato delle tradizioni politiche, delle calci-
ficazioni ideologiche e degli interessi consolidati dei
gruppi politici organizzati e del personale che li fre-
quenta. Continua giustamente a gravare sul ceto po-
litico la pretesa che lo stesso sia capace di decisioni
razionali, cioè, in breve, programmate sulla base sia
di qualche parametro di valore, sia di qualche cal-
colo efficiente delle conseguenze, ma la catena degli
aggiustamenti e delle mediazioni cui deve sottostare
qualsiasi processo decisionale è così fitta (anche se
spesso ignota al grande pubblico) che il programma
a malapena si fa alla fine riconoscere (su problemi
di questo tipo, imputati però alla mancanza di pre-
supposti normativi e considerati come fatale condi-
zione umana della modernità, dunque non da risol-
vere ma da affrontare volta a volta, quotidianamen-
te, insiste 0 recente Hamletica di Massimo Cacciari,
Adelphi, 2009).
Ecco dunque tre libri, scelti un po' a caso, due di
leader del Partito democratico, il terzo di analisti
politici, i quali potrebbero, letti appunto in con-
temporanea, fornire esempi chiari di questo dilem-
ma fra l'orientamento programmatico e la contin-
genza che caratterizza gli aggiustamenti alla fitta
incalcolabile rete delle inerzie di sistema (ovviamen-
te questi tre libri potrebbero anche essere letti in
modo del tutto contingente, in vista di qualcuno dei
mille crucci della politica italiana, non ultimo il con-
gresso-primarie del Pd; ma qui non seguiremo que-
sta strada, anche se dovremo incrociarla).
Cominciamo dal lato dei tortuosi processi delibe-
rativi. In Politica in Italia (è il 23° di una serie che il
Mulino ha iniziato nel 1986, Craxi trionfante, che
racconta la politica italiana anno per anno e che ha
avuto come collaboratori i migliori nomi della poli-
tologia contemporanea, italiana e di altre nazioni,
componendo negli anni un archivio indispensabile
per gli studiosi) si vedano innanzitutto le analisi a
riguardo della catastrofe campana dei rifiuti, del
sistema sanitario, delle politiche di sicurezza sul
lavoro, dell'affare Alitalia, dei "provvedimenti" per
la scuola del ministro Gelmini, dell'immigrazione e
del trionfo della Lega nord in Veneto, una regione
che la ricerca comparativa del Cnel qualifica, con
nostra sorpresa, come quella a maggiore integrazio-
ne degli immigrati in Italia. Nessuno dei processi
deliberativi che hanno riguardato tali ambiti ha
seguito logiche lineari (neppure l'affare Alitalia). Si
vedano anche, in questo volume, i capitoli più stret-
tamente attinenti al cosiddetto "quadro politico"
(alleanze, propaganda elettorale, risultati elettorali,
funzionamento dei partiti). E si immagini infine
quali avrebbero potuto essere altri capitoli mancan-
ti, come la narrazione delle politiche fiscali che resta-
no il migliore vanto del secondo breve governo
Prodi (e non si comprende come dalle parti del Pd
non si sia di esse, appunto, menato vanto), oppure i
provvedimenti antimonopolistici, oppure l'ostilità
devastante delle alte gerarchie cattoliche verso il
governo Prodi (come anche ricorda la cronologia
che apre Politica in Italia, il 29 maggio 2008, dopo
un mezzo mese dall'insediamento di Berlusconi al
governo, all'assemblea della Cei, il papa parlerà di
"gioia per il clima nuovo" della politica italiana, e
chiederà contestualmente maggiore sostegno alle
scuole cattoliche). Dappertutto, in queste anse della
nostra difficile democrazia, si costata una straordi-
naria complessità. Complessità è un termine divenu-
to triviale, buono a coprire qualsiasi difficoltà oggi si
incontri, ma è l'unico termine avalutativo di cui
disponiamo per segnare l'intreccio, nel nostro paese,
fra arretratezze economiche e aspirazioni di ricchez-
za, molteplicità degli interessi, residui ideologici,
male affare, corruzione diffusa, calcoli di propagan-
da politica, corporazioni e lobbies. In un paese così
complesso, verrebbe da pensare, forse la migliore via
alla politica è la tattica senza programma di quel
"camaleonte" (secondo un termine di Vannino
Chiti) che è Berlusconi e che sono gran parte dei
suoi ministri (ovviamente eccettuati i punti fissi della
politica giudiziaria e della politica sui media: corri-
spondendo a interessi "particolari" o più semplice-
mente individuali, qui finalmente i campioni dell'ef-
fimero contingente possono esibire qualcosa come
una durata, una consistenza).
Sinistra e centrosinistra non possono, ovviamen-
te, non continuare invece a giustamente affannarsi
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intorno a una idea di programma. Anche lo testi-
moniano questi due brevi libri di Chiti e di Enrico
Letta (come molti altri che negli anni, da questo
versante politico, sono stati prodotti). Lo stesso
scrivere libri è una fedeltà implicita all'idea di pro-
gramma. Trattandosi di testi personali non può
che trattarsi di pezzi di programmi, Chiti più dal
lato delle riforme istituzionali, Letta più dal lato
delle riforme economiche. Ma il titolo del libro di
Letta, mettendo in campo cattedrali (come costru-
zioni di popolo) e l'ideale del "pensare in grande",
annuncia un'intenzione da "grande programma"
che non c'è nel titolo né nel libro di Chiti (entram-
bi i testi hanno invece in comune quello stile
"omnibus", quel passare velocemente da una que-
stione all'altra, che è tipico della retorica politica).
Si può, in questo mondo politico, "pensare in
grande"? Recentemente, nell'articolo sul
"Messaggero" del 15 agosto, Romano Prodi ha
dichiarato che una ragione della debolezza del suo
governo è consistita nel limitarsi a un ideale di
"buon governo" e nel non aver saputo affrontare i
I libri
Politica in Italia. I fatti dell'anno e le interpre-
tazioni. Edizione 2009, a cura di Gianfranco
Baldini e Anna Cento Bull, pp. 390, € 28, il
Mulino, Bologna 2009.
Vannino Chiti, La sinistra possibile. Il Partito
democratico alle prese con il futuro, pp. 184,
€ 15, Donzelli, Roma 2009.
Enrico Letta, Costruire una cattedrale. Perché
l'Italia deve tornare a pensare in grande,
pp. 124, € 16,50, Mondadori, Milano 2009.
grandi temi di un'agenda riformista, i nodi struttu-
rali di questo passaggio di civiltà capitalista, per
esempio il rapporto fra stato e mercato. Questa
dichiarazione è interessante, ma non si può non
ricordare come, con parole certo più stereotipate e
senza la nobiltà dell'autocritica, molti commentato-
ri che intendono il ruolo bipartisan come critica
della sinistra e come acquiescente descrizione avalu-
tativa delle tattiche e dei fini del governo Berlusconi,
rimproverino alla sinistra, con toni saccenti e con
ottusa tenacia, di non possedere una visione di sin-
tesi, di non avere una (sintetica!) proposta politica,
di non lanciare una idea di società (che sia proprio
una, ci si raccomanda, una soltanto!).
Chi scrive si augura che questo defatigante (ma
forse utile) esercizio di democrazia interna del Pd
non si concluda con il trionfo di una qualche gran-
de idea, ma con molte idee e con un diffuso alle-
namento alle molte questioni della società italiana.
I tre contendenti (per tralasciare il vivace panora-
ma delle contese locali-regionali) non hanno posi-
zioni molto difformi, anche se le accentuazioni
sono diverse: certo, accentuando accentuando si
può diventare irreparabilmente difformi, ma per-
chè farlo? Perchè non promuovere, tutti e tre,
anche solo il giorno precedente delle primarie, un
manifesto di ciò che essi hanno in comune?
In un mondo così contingente, ciò che può essere
comune a molti, avvertito da molti come un fonda-
mento, è non un programma analitico, ma innanzi-
tutto uno stile. Si intende per stile qualcosa che non
pregiudica opzioni particolari, e che tuttavia identi-
fica. Oggi come oggi, nel nostro paese, è per esem-
pio stile essere democratici (la democrazia essendo
seriamente minacciata), è per esempio stile liberare
la politica dal potere quotidiano (sulle Asl, sulla Rai,
sulle banche, sulle scuole, perfino, in un certo
senso, sull'amministrazione pubblica), è ancora stile
non tollerare corruzione e corrotti (non è stile quel
che si sente dire in Sicilia a proposito di possibili
alleanze con quote irrequiete di ceto politico di
destra, alla fin fine prossime a Dell'Utri: "Meglio
male accompagnati che soli" - una frase che si è
letta senza smentite e che è di quelle che lo stile Pd
dovrebbe considerare inurbane), è infine stile non
giovarsi di alcuno che faccia sopravanzare i suoi
interessi privati sugli interessi pubblici, la sua car-
riera politica sugli ideali politici che professa.
Ciascuna di tali questioni richiede in realtà atti nor-
mativi (dello stato o intrapartitici) molto complessi,
"tecnici" nel senso più arduo del termine, ma è evi-
dente che si potrebbero trovare soluzioni ampia-
mente condivise se a cercarle fossero persone e
gruppi stilisticamente omogenei.
Così anche per le grandi questioni socioecono-
miche che è sbagliato considerare preliminari (solo
democrazia, legalità, virtù pubblica possono farle
affrontare nella direzione dell'eguaglianza e della
giustizia). Oggi, invece, non essendosi ancora rea-
lizzata nel centrosinistra una civiltà delle buone
maniere, di cui del resto l'intero paese avrebbe
bisogno, accade che una qualsiasi proposta suoni
innanzitutto come ricerca di un merito differenzia-
le del suo o dei suoi portatori (Letta parla di "pre-
sentismo", essere sempre presenti con qualcosa di
nuovo, in realtà mettendo sempre tutto in discus-
sione), si inscrive dunque non in un progetto col-
lettivo ma in una carriera personale.
Il governo Prodi non è caduto per l'umiltà del
suo buon governo, ma per le tensioni umane e
troppo umane fra i suoi protagonisti (nonché per
la debolezza del suo successo elettorale, danneg-
giato di certo da una campagna politica non orche-
strata o con molti direttori di orchestra). Lo sanno
tutti. Se lo si è dimenticato si leggano, in molte
pagine del libro di Chiti, i resoconti di certi pro-
cessi deliberativi di quel governo, dove la voce di
un qualsiasi notabile poteva annullare di colpo
intese faticosamente raggiunte.	■
rositiSunipv.it
F. Rositi insegna teoria sociologica
all'Università di Pavia