N. 10 |dei libri del mese| i so ? », Ce •fr*«',A 'fi' Debitori e creditori ai tempi della crisi H capitalismo finanziario si rifa il trucco di Mario Cedrini Mario Cedrini Il capitalismo finanziario si rifà il trucco Nicola Cacace Marchionne tra Pomigliano e Detroit Marco Dotti Lo stereotipo del pirata Gian Giacomo Migone Larsson e la letteratura svedese Valentino Cecchetti Un ritratto di Anna Banfi Franco Pezzini Vampiri da un penny Luca Crescenzi Il secolo tedesco secondo Kempowski Uno dei più noti libri di testo di ma- croeconomia adottati in Italia, scrit- to da due fervidi ortodossi come Gregory Mankiw e Mark Taylor, (Macroeconomia, Zanichelli, 2009, pubblicato originaria- mente nel 2008), conteneva opinioni scettiche sulla possibilità di un nuovo 1929. Gli economisti hanno imparato la lezione, assicuravano i due autori, e le lo- ro conoscenze sul sistema economico so- no sufficientemente approfondite, ormai, da scongiurare il ripetersi di un simile collasso. L'attuale crisi fa apparire ironi- che simili affermazioni, ma i critici del- l'approccio neoclassico, e in particolare gli economisti postkeynesiani, hanno sempre insistito sulla loro criticità, non- ché, da ultimo, sui rischi che una simile hybris comporta ai tempi dell'impetuosa finanziarizzazione dell'economia e del- l'allegro aggravarsi di squilibri strutturali nelle relazioni economiche internaziona- li. Se vi è una differenza di rilie- vo, fra il dramma dei primi anni trenta e quello attuale, è nelle loro ripercussioni sulle modalità di gestione delle economie na- zionali e internazionali: la Gran- de Depressione (ma il riarmo e la guerra ebbero un ruolo im- portante) ci consegnava la Ge- neral Theory di Keynes e i "glo- riosi" trent'anni di Bretton Woods, quella corrente il disa- stro di una teoria economica che non consente l'alternanza con approcci alternativi e una difficile transizione a un nuovo ordine internazionale ancora tutto da in- ventare, se non altro perché non sem- briamo ancora aver compreso le dinami- che del nostro "Bretton Woods 2". Belle le analisi della crisi comparse ne- gli ultimi tempi: gli studenti vittime del- l'ottimismo schietto del manuale di Mankiw e Taylor rimarranno colpiti dal- la sicura condanna dell'agenda neolibe- rale pronunciata da Ronald Dorè in un volumetto (Finanza pigliatutto. Atten- dendo la rivincita dell'economia reale, Il Mulino, 2009) che aiuta efficacemente a comprendere "la lenta, tettonica, evolu- zione al terremoto attuale", e non po- tranno che domandarsi se, come sostiene Christian Marazzi (Finanza bruciata, Ca- sagrande, 2009, prefaz. di Silvano Topi), invocare una rivincita dell'economia rea- le su quella finanziaria sia di fatto illuso- rio. La finanziarizzazione potrebbe esse- re il modus operandi di un nuovo capita- lismo, che estrae valore non più e sem- plicemente nei luoghi di produzione, ma anche nella sfera degli scambi dei beni, e che sfrutta la capacità del consumatore di divenire egli stesso, in misura sempre maggiore, produttore. Le conclusioni di questi saggi hanno toni pessimistici, e of- frono la sensazione che in fondo tutto sia già stato provato, che l'unica possibilità rimasta sia quella di una (ennesima) ter- za via fra stato e mercato, fra l'economia reale del capitalismo davvero industria- le, che allo stato si rivolgeva non solo per correggere i fallimenti di mercato, e quella finanziarizzata di oggi, che asse- gna al mercato stesso il compito di cor- reggerli; fra il compromesso di Bretton Woods (multilateralismo e autonomia di policy nazionale) e la disciplina del mer- cato e della finanza del non-sistema ret- to dal Washington Consensus. Se, come argomenta Alessandro Ronca- glia (Economisti che sbagliano. Le radici culturali della crisi, pp. 117, € 12, Later- za, Roma-Bari 2010) contro i neoclassici, la crisi non è una benefica cura per i gua- sti che impediscono il corretto funziona- mento del mercato, qualche effetto posi- tivo, a differenza di altri disastri, sembra averlo. I dati relativi agli effetti leva degli strumenti finanziari che hanno supporta- to, negli anni precrisi, la privatizzazione del deficit spending (così Marazzi), parti- colarmente in America, appaiono talmen- te strabilianti da chiedersi come sia stato possibile cadere vittime di una colossale illusione collettiva, quella di una crescita continua, alimentata, argomentano bril- lantemente Massimo Amato e Luca Fan- tacci (Fine della finanza. Da dove viene la crisi e come si può pensare di uscirne, Don- zelli, 2009), dall'altrettanto illusoria cre- denza nella possibilità di posticipare in- definitamente la chiusura dei conti. Per giungere a una piena consapevolezza del- l'illusione, è necessario ripensare, pensare cioè in modalità nuove, le categorie (non solo) economiche letteralmente travolte dalla crisi stessa, come quelle relative alle relazioni di credito e debito. Si scoprirà allora, con Margaret Atwood (Dare e ave- re. Il debito e il lato oscuro della ricchezza, Ponte alle Grazie, 2009), che uno dei pre- ziosi lasciti della crisi è nel rilancio di una tematica sulla quale il mainstream della scienza economica aveva fatto calare il ve- lo (finance is a veil, d'altronde...). Nello splendido affresco storico-letterario di Atwood, emergono tutti gli aspetti mora- li e le regole coinvolte nella "simbiosi tra debitore e creditore". Q obbha kuei tratti - la simbiosi stessa; l'idea "di giustizia e di equilibrio; quelle di obbligo e di libertà; quella di fiducia, per- sino quelle di peccato e di riscatto - che i modelli matematico-finanziari dei fautori della finanziarizzazione hanno voluta- mente sacrificato, in nome di quell'illu- sione, l'immortalità di debiti e crediti, che consente a debitori subprime e creditori irresponsabili un folle benign neglect per il rischio sistemico, in barba alle intuizio- ni di Minsky, e per l'assurda distribuzione inegualitaria del reddito che la finanzia- rizzazione incautamente promuove. Torniamo allora al già citato studio di Amato e Fantacci, eccellente ricostruzio- ne della storia del sistema monetario in- ternazionale e dell'uso che le nazioni e i mercati hanno fatto della finanza stessa. Storia che nel saggio è ripercorsa al con- trario, dalla crisi attuale fino alle cinque- centesche fiere dei cambi di Lione, al fi- ne di mostrare che l'approdo alla crisi at- tuale, quella di un sistema, spiegano gli autori richiamando Marc Bloch, che "morirebbe" (ed effettivamente muore) "della chiusura simultanea di tutti i con- ti", non giunge al termine di un "proces- so evolutivo inevitabile". L'alternativa c'è: e consiste nel trasformare la moneta. Dalla moneta-merce (si ricordi Polanyi), moneta come riserva di valore e moneta come liquidità, attributo indebito che consente alla finanza di procrastinare in- definitamente (fino al collasso, cioè) la chiusura dei conti, per eliminazione dunque tanto del fine della finanza (anti- cipare in vista di un pagamento) quanto della sua fine (che avviene quando il cre- dito sia stato riscosso); alla moneta come unità di conto e mezzo di pagamento, al servizio del pagamento dei debiti, una moneta i cui valori in termini di potere d'acquisto, di cambio e di tempo non siano dettati dal mercato, ma oggetto di decisione politica all'interno di uno spa- zio economico-politico ben definito, de- cisione che ogni banca centrale vorrebbe poter prendere senza possedere gli stru- menti per farlo. Un'altra illusione, questa vol- ta positiva? No, perché la logi- ca della proposta è la stessa di quella del clearing multilaterale assicurato a livello internazio- nale dall'International Clearing Union (leu) ideata da Keynes per, e sconfitta a, Bretton Woods nel 1944. La proposta di Keynes era volta a distrugge- re strutturalmente il potere dei rentiers internazionali; propo- sta radicale (ma i suoi principi furono accolti dall'Unione Eu- ropea dei Pagamenti, e di fatto regnavano nella stessa fiera dei cambi di Lione) e per questo oggi in vo- ga (cfr. Paul Davidson, The Keynes Solu- tion: The Path to Global Economie Pro- sperity, Palgrave Macmillan, 2009; Ro- bert Skidelsky, Keynes. The Return of the Master, PublicAffairs, 2009). E perché, come ricordano Amato e Fantacci, l'o- biettivo di Keynes era anche morale: creare una "buona regola", più che indi- care un "comportamento buono" (il rici- clo anziché l'accumulazione del sur- plus); assicurare la "bontà del sistema" (libertà di scelta nazionale anziché le gol- den fetters del regime aureo e del suo pessimo successore tra le due guerre) an- ziché far leva sulla bontà del singolo (creditore; gli Stati Uniti). Se l'unica, fortissima regola del non-si- stema attuale è quella che impedisce ap- punto la formazione di regole, giustifi- candosi con l'estrema complessità del si- stema finanziario, è giusto tornare a Key- nes, al Keynes nemico del laissez-faire (si apprezzi l'attualità del suo Laissez faire e comunismo, a cura di Giorgio Lunghini e Luigi Cavallaro, pp. 810, € 10, Deri- veApprodi, Roma 2010) e dei rentiers, dei quali invocava l'eutanasia, all'interno delle singole economie nazionali come a livello internazionale. E dura ammetter- lo, ma il primo passo per tornare a con- siderare l'economia come "l'incontro fra tutti i debitori e tutti i creditori", secon- do la definizione che ne diede Jacques Rueff, l'ha compiuto il governatore della banca centrale cinese, con un richiamo forte all'Icu in una recente dichiarazione sulla riforma del sistema internazionale. E, per la gioia di Keynes, per la prima volta è un paese creditore ad invocare il suo piano. ■ mario.cedrinigeco.unipmn.it M. Cedrini è dottore di ricerca in Economia Politica all'Università del Piemonte Orientale