N. 1 Storie linguistiche tra fratture e ricomposizioni possibili Tra sudici e nordici connessioni e strade percorribili di Massimo Arcangeli 0 so co •io a ? 1 • K> f-O Cj tuo CQ In un articolo del 12 febbraio 2009 per il "Cor- riere della Sera", dal titolo Da Montecristo a Marco Polo, Beppe Severgnini ha classificato gli italiani in sette categorie abbinandole ad altrettan- te personalità, fra reali e immaginarie: il fuggitivo Montecristo, l'innamorato Ulisse, l'altruista Schweitzer, l'esploratore (o il colonizzatore) Con- rad e il suo "lato oscuro" Kurtz, l'avventuroso Marco Polo, il naufrago Robinson. Duri a morire, gli stereotipi. Sul "Daily Telegraph", in un'apposi- ta sezione dell'edizione online dedicata ai "profili culturali nazionali" (http://www.telegraph.co.uk), ce n'è abbondantemente per l'Italia e gli italiani: inaffidabili in materia di puntualità, il che significa arrivare di norma a un appuntamento con venti minuti di ritardo a Milano, con mezz'ora a Roma, con tre quarti d'ora al Sud; leggendariamente tol- leranti ma con un senso dell'onore, specialmente in Sicilia e nel Meridione, che raggiunge punte considerevoli di maschilismo e una gelosia che può rivelarsi eccessiva; pron- tissimi a ripresentare un'offerta o ad af- frontare una certa questione da una nuo- va angolazione se devono superare osta- coli o risolvere un'impasse; capaci di sfruttare abilmente ai loro fini, per otte- nere quel che vogliono dai loro dipenden- ti o collaboratori, l'eleganza e la musica- lità, la duttilità e il fascino della lingua ita- liana; amabili ascoltatori, anticipano però spesso i propri interlocutori per l'impa- zienza di partecipare al dialogo; predispo- sti per natura alla conversazione a voce al- ta, e persuasori irresistibili nel faccia a faccia, a rivelar loro particolari della pro- pria vita privata se ne ha in contraccam- bio molto più di quel che si riceve. Nel soddisfare, con il ricorso agli ste- reotipi nazionali, il bisogno di fissare ti- pi collettivi in un'immagine quintessen- ziale e ben riconoscibile siamo in buona compagnia (la precisione dei tedeschi, la flemma degli inglesi, la mania di gran- deur dei francesi, il calore degli spagno- li, la spilorceria degli scozzesi, la capa- cità di "infiltrarsi" dei portoghesi, la propensione al fumo dei turchi...), ma nessuno è bravo quanto l'italiano a di- chiarare guerra ai suoi connazionali. Ne dà sapido conto Pietro Trifone nel suo ultimo libro, Storia linguistica dell'Italia disunita, (pp. 205, € 16, il Mulino, Bo- logna 2010), che ha però poco da sparti- re con la benemerita Storia linguistica dell'Italia unita di Tullio De Mauro. A esserne consapevole l'autore stesso, im- pegnato già nella premessa a "fugare su- bito qualsiasi sospetto di irriverenza" nei confronti di una pietra miliare nella storia linguistica italiana dell'ultimo secolo e mezzo. L'opera è soprattutto un viaggio attraverso il lessico stereotipico e volgare, regionale e dialetta- le delle difformità e delle divergenze; il lessico di un'Italia della disunione, cialtrona e rissaiola, un po' spaccona e un po' plebea. Terroni e polento- ni, napoletani e genovesi, cafoni e baluba l'un con- tro l'altro armati: i nordici e i sudici. Le due Italie dei nazionalisti Prezzolini e Corradini d'una ap- passita e indolente, l'altra attiva e rigogliosa), del- l'antinazionalista Eduardo Cimbali (la prima "eu- ropea" e la seconda "africana"), di Giuseppe Fortunato e Palmiro Togliatti. Per aggiungere qualche altro tassello al mosaico, traggo ancora dal libro di Trifone, "da una parte il Nord affida- bile e operoso dei rusconi, ovvero degli sgobboni magari non tanto furbi, anzi un po'' gnucchi o be- sughi, e anche perciò ineluttabilmente destinati a sgomellare, cioè a 'lavorare sodo'; dall'altra parte il Sud arretrato dei mangiasapone e quello crimi- nale dei mafiosi, un'irredimibile gomorra pullu- lante di femminielli, muschilli e stiddari". Con l'appressarsi delle celebrazioni per il cento- cinquantenario dell'Unità d'Italia la vegetazione in tema di lingua e identità, storia e cultura naziona- le - né poteva essere diversamente - si è infittita. A contendersi il mercato, a suon di comunicati stam- pa d'effetto e profittando di più o meno prestigio- se vetrine, grandi opere, poderosi volumi, brevi saggi. Per dividere, come nell'abbozzo di storia linguistica di Trifone, ma più spesso per unire. Un'occasione per allentare la morsa dei tormento- ni su una nazione irrimediabilmente o costituzio- nalmente divisa, mai stata davvero tale o, nella mi- gliore delle ipotesi, sempre meno degna di questo nome; l'Italia impietosamente (e sia pure fondata- mente) ritratta da storici, intellettuali, giornalisti il- lustri - Aurelio Lepre o Aldo Schiavone, Gian En- rico Rusconi o Emilio Gentile - o dei tanti anoni- mi disfattisti e catastrofisti, profeti (ed esegeti) di sventura che rendono un prezioso servizio all'en- nesimo, inveterato luogo comune italico: un mici- diale cocktail di inguaribile autolesionismo e radi- cato senso d'inferiorità. La bella introduzione di Gian Luigi Beccaria al secondo volume (Lingue e linguaggi) di una ponderosa enciclopedia della cul- tura italiana, diretta da Luigi Luca Cavalli Sforza per la Utet (La cultura italiana, 12 voli.; 20092010), va proprio nella direzione del riconoscimento di prossimità e ricomposizioni piuttosto che di lonta- nanze e fratture: testimoni a favore la continuità temporale ("Voci antiche si proiettano sul presen- te, e le presenti, poggiando su delle rovine storiche mai cancellate, lasciano sopravvivere il passato an- che là dove il parlante non ne riconosce la presen- za"), la continuità sociale ("Nel nostro lessico spe- cialistico [...] nomi tecnici convivono con nomi di ambito sacro-religioso, scienza mito e cultura po- polare sono compresenti"), la continuità cognitiva, antropologica, geografica ("'Tipi' e 'motivi' sono simili anche in aree lontanissime. Hanno dapper- tutto gli stessi contenuti mentali, lo stesso punto di vista, trovano corrispondenza in un numero infini- to di altre simili formulazioni appartenenti ad altre aree diverse e lontane"). All'indomani della proclamazione del Regno d'Italia uno dei grandi problemi del paese era rappresentato dalla piaga dell'analfabetismo, di drammatica consistenza nel Meridione. In coda la regione lucana, terra di pastori. Alessandro Romano, discendente del leggendario Pasquale Domenico omonimo (passato alla storia come il "Sergente Romano"), è uno dei tanti studiosi, appassionati o semplici amateurs impegnati da diversi anni nell'impresa di ristabilire (e far co- noscere al mondo) la verità sul traumatico, drammatico, sanguinoso processo risorgimentale di acquisizione al territorio della nazione delle regioni del Mezzogiorno. Interpellato ultima- mente sull'argomento, riandando con il pensiero alle sue frequentazioni di biblioteche e archivi più arretrate nel tempo, ha ricordato un episodio scioccante e al contempo struggente. Frutto del reperimento del verbale di uno dei tanti casi di giustizia sommaria, mascherati da procedimenti penali, do- cumentati all'indomani della "conqui- sta" del Sud, è la storia di uno balordo ufficiale pedemontano e degli effetti mortali dell'assenza di dialogo (per l'impermeabilità dei rispettivi sistemi linguistici) su un diciassettenne "pasto- rello lucano": "L'ufficiale piemontese [gli] chiedeva [...] come mai avesse quelle scarpe. Il ragazzo non capiva, quello parlava un'altra lingua. L'ufficiale gli comunicò che lo condannava per brigantaggio, perché erano scarpe in dotazione all'e- sercito 'italiano'. E il poveraccio ancora non capiva di dover spiegare che ne era entrato in possesso senza ammazzare nessuno. Immaginai il suo sperdimento, la paura, la rabbia di non rendersi nem- meno conto di cosa volesse da lui quel- la gente e perché lo trattassero male. Poi comprese: gli fecero cenno di girar- si dinanzi al plotone d'esecuzione schierato. Udì che caricavano le armi. Fucilato alle spalle" (Pino Aprile, Ter- roni. Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero "meri- dionali" , pp. 305, € 17,50, Piemme, Milano 2010). Un motivo in più per provare a con- trapporre a un'Italia disunita, appena acclarata in tutta la sua belluina ferocia, un'idea almeno un po' diversa. Per evi- tare di intonare il solito ritornello sulle anomalie del Bel paese, certo, ma anche per accarezzare una tenera speranza: l'ottimismo dell'illusione contro il pes- simismo della ragione. Saluto perciò con piacere l'ultimo ar- rivato nel campo dei dizionari analogici, l'opera in due volumi progettata e diretta da Raffaele Si- mone e pubblicata ancora dalla UTET (Grande dizionario analogico della Lingua italiana, 2010, 2 voli, con CD Rom). Le "parole di una lingua - leggo nella premessa - sono connesse da strade, come le città di un paese: formano così una rete in cui da qualunque punto si può raggiungere qualunque altro punto - in alcuni casi con pochi passi, in altri con deviazioni più o meno lunghe. Un dizionario analogico è il tentativo di rico- struire la rete di questi collegamenti, in modo che chi lo consulta possa ritrovare, alla fine di una passerella, la parola che cerca". Cerco disu- nione. Il lemma è assente. C'è invece unione, con i suoi bravi sinonimi: aggregazione, appaiamento, collegamento, combinazione, congiungimento, congiunzione, coniugazione, connubio, fusione, unificazione. I contrari non li leggo. E dimentico, una volta tanto, di essere un bastian contrario quasi per vocazione. ■ maxarcangeli@tin.it M. Arcangeli insegna linguistica italiana all'Università di Cagliari