N. 1 ^ rflLa rivisitazione mediatica ed editoriale dell'anno che riplasmò l'Europa ---—— Se le banche aprono, lo stato continua di Demetrio Volcic Negli ultimi mesi sono usciti una quindicina di volumi, con ricordi, analisi, raccolte di vecchi articoli intorno al socialismo realizzato, e bisogna riandare a Gorbaciov per trovare un simile attivismo editoriale: in quel tempo, pure gli esperti dei canti gregoriani abbandonarono le toghe per darsi alla cremlinologia. La frequentazione mediatica del 9 novembre è stata impressionante, con pianti, emozioni, mito e leggenda. Solo una rete televisiva tedesca ha sfidato l'audience del Muro e ha avuto più ascolto di una puntata del Grande fratello, con il caso di un contadino in cerca di moglie. Il ventennale era comodo, l'estate aveva esaurito le riserve delle escort, sulla crisi economica si conoscevano a memoria i ruoli sostenuti dagli addetti ai lavori. Nella questione del muro si poteva intervenire in un qualsiasi giorno di magra per raccontare storie su un paese che, proprio venti anni fa e in quel momento, cambiava il suo destino. Ma non si deve scherzare troppo. Esistono molti drammi e morti intorno a quel Muro, raro concentrato di simboli. Poteva scapparci una terza guerra mondiale: la gente dell'Est ha scavato gallerie, sorvolato la muraglia con mongolfiere, per molti la fuga in Occidente è stata il solo programma per il futuro, i Vopos, "poliziotti del popolo", sparavano sui "cinghiali" -così venivano chiamati i candidati alla fuga -spesso morti intrappolati tra le due barriere di cemento armato. Gli ultimi giorni di Paolo Macry (pp. 274, € 14,40, il Mulino, Bologna 2009) prende spunto dal Muro, ma poi si allarga agli Stati che crollano nell'Europa del Novecento, come recita il sottotitolo. Il secolo passato è stato un momento senza precedenti per riplasmare l'Europa. Entrati nella prima guerra mondiale con sei imperi e qualche contorno, ci attestiamo oggi a una cinquantina di stati, compresi quelli candidati a diventarlo (per questo ci sono molti riti d'ingresso e parecchi muri). Qualcuno dei siparietti sul finale della partita è stato visto in un'altra ottica, tuttavia la leggenda rende veritieri non solo i fatti, ma anche le loro varie interpretazioni. Nicola II in un treno fermo a causa di uno sciopero a trecento chilometri dalla sua capitale, Guglielmo II che abbandona il palazzo a Berlino dalla porta di servizio, Carlo che riceve a Vienna, davanti a Schoenbrunn, l'ultimo saluto dei cadetti. Ognuno dei tre era in attesa di notizie salvifiche, presenti pochi cortigiani, che nei racconti sono sempre pallidi. I tre, lo zar e i due imperatori cercavano invano l'ispirazione per qualche parola icastica da tramandare alle future generazioni, ma alla fine farà notizia la quotidianità del gesto e la loro faccia senza espressione, nel liquidare secoli di storia. Le rispettive capitali erano avvolte in un silenzio abbastanza sinistro e piovoso. Solo al mattino successivo, come ogni giorno, aprirono gli sportelli delle banche e gli uffici amministrativi, a segnalare al cittadino che, se il massimo reggitore può cambiare, lo stato continua. All'incirca questa la sensazione anche il 9 novembre di venti anni fa. Il vertice politico non era raggiungibile. La riunione del comitato centrale comunista, mentre nella notte era successo di tutto, continuava e finiva: alle nove, quando il segretario generale aprì la riunione, si discusse l'ordine del giorno approvato una settimana prima. L'unico a non aver abbandonato il suo posto di lavoro nelle ore precedenti era un tenente colonnello delle guardie confinarie. Fu lui ad alzare una delle tante sbarre per centellinare, con ordine e a piccoli scaglioni, la gente verso l'Occidente. Si chiama Harald Jaeger, più tardi si è cimentato in molti mestieri di tipo manuale, come liquidazione dall'esercito ha avuto 8.000 marchi, e oggi vive da pensionato a Berlino. Senza la sua decisione, nel momento in cui altri fuggivano e le ore passavano, forse la gente avrebbe perso la pazienza e forse gli odiati guardiani del Muro avrebbero sparato: avremmo avuto un altro finale. L'attacco della folla e la distruzione del Muro sono elementi televisivi successivi: un'invenzione da regista per rendere più evidente il fatto. Si sono fatti sentire persino i sostenitori delle congiure per i quali tutto sarebbe stato previsto e preordinato, ma c'è stata anche una catena di infortuni e di incomprensioni: molta gente, ad esempio, si è diretta verso il Muro solo perché un commentatore della televisione occidentale tedesca, alla fine di una partita di calcio, disse che anche lui voleva andare sul Muro che pareva fosse stato aperto quella sera. Già prima centinaia di persone gironzolavano non lontano dal confine, ma ci volle la tv di Colonia per spingerle in strada. Che grandi eventi non fossero previsti risulta dal fatto che Gorbaciov non rispondeva alle chiamate da Berlino, perché stava smaltendo ancora i postumi delle feste del 7 novembre, anniversario della rivoluzione sovietica: il Cremlino informò il reggente dell'ambasciata che poteva essere svegliato solo in caso di pericolo di guerra. Il cancelliere Kohl si trovava a Varsavia in una visita di stato che non voleva interrompere. Il presidente americano, grazie al fuso orario, lavorava ancora e pronunciava parole irripetibili contro i capi della Cia, ignari di tutto. Al tenente colonnello del Kgb Vladimir Putin che da Dresda, dove era in servizio, chiedeva istruzioni a Mosca (sarebbe toccato a lui bruciare i documenti compromettenti), dalla casa madre rispondevano che nessuno era più al lavoro. Nell'altro libro sul muro, Angelo d'Orsi ci spiega come per lui la storia sia cambiata in peggio (1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio, pp. 316, € 16, Ponte alle Grazie, Milano 2009), anteponendo il suo schema preciso a quelle che potrebbero essere situazioni spettinate e meno sistemabili. Mi sembra che sfugga con difficoltà alla tentazione di scegliere una dialettica riduttiva, in bianco e nero, e quel che scrive serve soprattutto per denunciare le malefatte americane. D'Orsi parte da una frase di Zygmunt Bauman: "Coloro che festeggiavano la caduta del Muro si battevano affinché il cambio di regime, nel mondo già sovietico, fosse radicale, assoluto, spazzando via tutto quel che il socialismo aveva costruito, nel male, ma anche nel bene, immettendo dosi massicce, quotidiane, dei valori e, soprattutto dei vizi, della libertà liberale e capitalistica. Con la libertà giungevano anche mafia e prostituzione, là dove non c'erano, o erano fenomeni marginali. La facilità con cui, peraltro, milioni di individui passarono dalla fede nell'economia pubblica all'adorazione del Dio Mercato obbliga a riflettere sui limiti del socialismo reale, le sue inefficienze, e il vero e proprio tradimento dei suoi intenti dichiarati. Ma siamo sicuri che quello che accadde 'dopo', fu meglio di quel che c'era 'prima'? E, soprattutto, non era pensabile una terza via?". Per quanto io possa conoscere quel mondo, non c'è mai stata un'adorazione del dio mercato, ma solo il desiderio di avere livelli di consumo europei. Una terza via è stata tentata nel 1956 in Ungheria, nel 1968 in Cecoslovacchia nel 1980 in Polonia e con le riforme di Gorbaciov. Proprio nei giorni in cui cadeva il Muro si dimetteva il ministro degli Esteri sovietico She-vardnadze. In una dichiarazione al parlamento sovietico affermava che il regime che aveva servito tutta la vita non era riformabile ed era particolarmente severo nel denunciare come, presto, le organizzazioni mafiose si sarebbero impadronite dello stato. Si può parlare solo di tradimento degli intenti, in un sistema in cui ogni atto della vita è controllato dalla polizia segreta? Credo si possa con tranquillità sostenere che nell'impero sovietico, nella sua interezza, mancava il consenso e che il 1989 fu percepito come una liberazione. L'autore si chiede anche: "È questo il mondo in cui i berlinesi d'entrambe le parti, e con loro miliardi di uomini, sperarono quando cadde il Muro, il 9 novembre 1989?". Allora esultava la maggioranza dei paesi dell'Est e i tedeschi occidentali che ambivano a riavere uno stato ancora più potente. Le sinistre in Occidente non avevano riserve sull'obiettivo finale della riunificazione, ma per prudenza avrebbero preferito un passaggio intermedio. Avevano paura della nuova e forte Germania i conservatori inglesi e i socialisti francesi. L'Europa avvertiva la fine del pericolo nucleare e salutava con sollievo gli accordi antinucleari. Molte speranze non si sono avverate. Tuttavia, secondo inchieste qualificate, una buona maggioranza dell'opinione pubblica dei cittadini dell'ex Europa orientale preferisce il sistema attuale, con le sue crisi e delusioni: non sembra si tratti soltanto di coscienze deviate e tanto meno acquistate, in mancanza di compratori. Uno dei politici della sinistra moderata polacca, Michnik, ha spiegato ai propri colleghi perplessi del parlamento europeo che l'atteggiamento filoamericano dei nuovi paesi dell'Unione è un riflesso naturale che durerà ancora decenni, così come l'opinione pubblica qualificata in molti paesi dell'America Latina sarà naturalmente anti-americana. Secondo Bauman, citato da d'Orsi, gli intellettuali sono stati incoraggiati a condurre le loro analisi in modo distaccato, tecnico: sono diventati esperti e non più pensatori critici. Questo sarebbe il destino e il ruolo che il potere auspica per gli intellettuali, e questa la strada su cui molti di loro si sono lasciati docilmente indirizzare, diventando tecnici del consenso. La stessa fine dell'intellighenzia russa divenuta struttura portante nella creazione dell'Unione Sovietica. Non si tratta di paragonare due totalitarismi, si può dire tuttavia che l'ammodernamento (scolarizzazione, costruzione dall'industria pesante paramilitare, militari) aveva richiesto un tributo troppo alto di vite umane e di sofferenze per essere giustificato. Secondo gli storici russi (non i tecnici del regime di Putin), nel bilancio del XX secolo non si può parlare di successo, anche se ovviamente si ragiona in termini di una grande potenza. D'Orsi è giustamente sensibile al rispetto dei confini nazionali, tuttavia parla di "rivoluzione nazionale afghana", senza dire che si trattava di occupazione militare sovietica ed esprime un parere molto negativo sulla decisione di ritirare da Kabul le truppe del Cremlino anche quando il suo fantoccio non reggeva più. Meraviglia pure la simpatia per Milosevic, uno dei personaggi più citati nell'indice del libro. D'Orsi considera un delirante abuso della storia trattare Milosevic come il piccolo Hitler dei Balcani, mentre era fascista il croato Tudjman (ricordo che, nel suo caso, si tratta sempre di un generale comunista dell'esercito partigiano jugoslavo). Nei Balcani i paragoni e le similitudini non hanno molto senso. Il capo di Belgrado fu nazionalista e xenofobo nei confronti dell'islam e della nazione albanese, trattata come gruppo etnico minore. Voler vedere in Milosevic il dirigente di un nucleo duro postsocialista jugoslavo e non il portavoce della grande Serbia è un'immagine buffa per chi abbia bazzicato la regione. Sei, sette anni fa chiedeva l'appoggio di Putin, in quanto protettore di tutti i paesi slavi ortodossi: parliamo dunque di equilibri strategici regionali, non di ideologie. Nessuno è entusiasta dell'intervento della Nato in Serbia, ma non è paragonabile per gravità al lungo assedio di Sarajevo. D'Orsi ricorda che il paese oggi è da tutti chiamato "ex Jugoslavia", ma anche su questo punto si può con tranquillità eliminare la prospettiva di veder ripristinata l'unità del paese, e non a causa degli americani, ma perché Slovenia, Croazia, Macedonia, tre Bosnie e Serbia non hanno più alcuna voglia di stare insieme. ■ d.volcic@email.it D. Volcic è saggista e giornalista e •Kà k o io co •io e co