Che cosa è stata la stagione minimalista L'età dell'oro Francesco Guglieri Se mai vi capitasse tra le mani un vecchio numero del "New Yorker", per l'esattezza quello del 27 giugno 1994, trovereste un interessante portfolio fotografico: Richard Avedon ha fatto riunire un piccolo ma folto gruppo di scrittori che, per un motivo o per l'altro, sono legati alle pagine di Eustace Tilley (si chiama così il dandy che osserva la farfalla attraverso il monocolo, simbolo da sempre del giornale) per una serie di ritratti montati in modo da dare l'effetto di un'unica ininterrotta sequenza - quasi una genealogia. C'è un giovane Michael Chabon a braccetto di William Maxwell, Alice Munto a fianco di Ann Beattie, Updike, Gallant e una dozzina di altri autori che al "New Yorker" devono qualcosa. Inutile ricordare qui il ruolo che il settimanale ha rivestito per la narrativa statunitense dal 1925, anno della sua fondazione, a oggi: i suoi fiction editor sono stati degli autentici "guardiani delia soglia", in grado con un loro giudizio di far passare un esordiente sul tappeto rosso del bel mondo letterario o di influenzare con i loro interventi un'intera stagione della short story in lingua inglese. Un'influenza riconoscibile non tanto in una qualche continuità tematica o poetica, quanto, piuttosto, nell'attenzione alla qualità della scrittura, una tensione che nasce dalla consapevolezza di approdare a ciò che di più simile a un'istituzione (allo stesso tempo elitaria e di larga diffusione) ci sia tra le riviste americane. Tra i grandi del "New Yorker" c'è anche uno degli scrittori presenti nella foto di Avedon: William Maxwell fu editor della narrativa dal 1936 al 1975. Per quanto in Italia sia poco conosciuto (il suo unico romanzo tradotto, finora, era Ciao a domani, Bompiani, 1988 e poi Marsilio, 1998; cfr. "L'Indice", 1998, n. 9), Maxwell è stato (e tutt'ora viene considerato, a dieci anni dalla morte) una specie di monumento. La stima di cui godeva come scrittore non gli veniva dall'essere stato l'editor di Singer, Nabokov, Salinger, Mary McCarthy, Mavis Gallant, Shirley Hazzard o dei "tre John" O'Hara, Updike e Cheever: al contrario, era il suo riconosciuto talento di scrittore che gli conferiva l'autorità di intervenire nei racconti altrui. Come un volo di rondini è il romanzo che nel 1937 gli fece guadagnare i primi riconoscimenti. Racconto delicato - e a tratti un po' stucchevole - della morte di una giovane madre per l'influenza spagnola del 1918, narrato a turno dai tre "uomini di casa". Ampiamente basato sull'esperienza autobiografica di Maxwell, che perse la madre nelle medesime circostanze quando lui era piccolo (un'ombra che torna spesso nei suoi romanzi): trauma originario che pure appare costantemente eluso, come se la scrittura potesse in qualche modo risarcire e lenire la perdita. C'è un che di rassicurante, di lutto elaborato, di memoria recuperata che silenzia il dolore: il conflitto, tanto individuale quanto collettivo, sopravvive solo in qualche tensione sotterranea, in qualche silenzio sospetto, rimane ai margini, tenuto sottotraccia di una scrittura stilisticamente controllatissima e capace di notevoli raffinatezze. Una scrittura altrettanto controllata ma in cui i conflitti non vengono trascesi - anzi, sono l'autentico motore della narrazione - è quella di un autore su cui Maxwell ha lavorato e di cui era amico: John Cheever ha pubblicato, dal 1931 fino a un anno prima della morte (avvenuta nel 1982), centoventuno racconti sul "New Yorker", arrivando nei periodi più prolifici a fame uscire molti nello stesso anno. Da questa sua vasta produzione (a cui vanno aggiunti, ovviamente, quelli pubblicati in altre riviste, "Esqui-re" soprattutto, e in antologie) Fandango seleziona ora una scelta dei suoi Racconti italiani in uno smilzo libretto. Per quanto non siano i migliori racconti di Cheever, lo stesso permettono al lettore di farsi un'idea dei temi e della scrittura di quello che veniva definito il "Cechov suburbano". Gli sfondi di questi racconti, però, non sono le tipiche aree residenziali teatro d'elezione di quelli più celebri, ma l'Italia, paese in cui lo scrittore americano si trasferì con grandi aspettative nel 1956. La speranza, con questo viaggio, era quella di riuscire a penetrare una cultura che, benché estranea, Cheever sentiva vicina. Al suo arri- vo trovò, inutile dirlo, un'Italia molto diversa da quella sognata: tanto povera e poco sviluppata quanto indifferente alla propria storia e avida, invece, di quella modernità da cui l'americano scappava. In L'età dell'oro, non senza una buona dose di consapevole autoironia, racconta di uno sceneggiatore di sitcom che si allontana dalla mediocrità del suo ambiente per rifugiarsi in una Toscana più immaginaria che reale (con castelli spagnoli, avamposti saraceni sull'Appennino e vasi greci in riva al mare...) per la classica immersione nella primitiva età aurea, nell'ancestrale originario, nell'agognata "natura". Con il risultato di trovare degli indigeni più interessanti alle sue storielle televisive che alla loro tradizione. Al di là del classicissimo tema del "viaggio in Italia", in questi racconti c'è anche qualcosa che è tipico di Cheever: un senso di sradicamento e un conseguente desiderio di confondersi in un nuovo ambiente. Da qui il tema del "doppio malvagio" o della maschera ipocrita che camuffa chissà quale nefandezza, della facciata rispettabile dietro cui si nasconde il male e il peccato, che danno a questi racconti un retrogusto quasi neogotico. E da qui anche l'angoscia di essere scoperti, smascherati per ciò che non si è: ad esempio rispettabili borghesi e mariti devoti - una I libri Ann Beattie, Gelide scene d'inverno, ed. orig. 1976, trad. dall'inglese di Martina Testa, pp. 414, € 13,50, minimum fax, Roma 2009. Raymond Carver, Vuoi star zitta, per favore?, ed. orig. 1976, trad. dall'inglese di Riccardo Duranti, pp. 242, € 17, Einaudi, Torino 2009. John Cheever, Racconti italiani, trad. dall'inglese di Leonardo Giovanni Luccone, pp. 94, € 14, Fandango, Roma 2009. Amy Hempel, Ragioni per vivere, ed. orig. 2007, trad. dall'inglese di Silvia Pareschi, pp. 378, € 20, Mondadori, Milano 2009. William Maxwell, Come un volo di rondini, ed. orig. 1937, trad. dall'inglese di Giovanna Scoccherà, pp. 222, € 9,80, Rizzoli, Milano 2009. paura che il Cheever bisessuale e alcolizzato conosceva bene. L'alcool fu una costante anche nella vita di Raymond Carver di cui Einaudi prosegue la ripubblicazione delle opere. Qualche mese fa è uscito Principianti, ovvero Di cosa parliamo quando parliamo d'amore senza i discussi interventi dell'editor, Gordon Lish. Ora è il turno della prima raccolta pubblicata da Carver nel 1976, Vuoi star zitta, per favore? che riappare nella sua forma tradizionale (quindi ancora con gli interventi di Lish), ma in una traduzione rivista rispetto a quella di minimum fax. Lish ai tempi lavorava come editor per la narrativa di un altro magazine dalla lunga tradizione letteraria, "Esquire", dove fece pubblicare autori come DeLillo, Mary Robison, Richard Ford e appunto Carver. Tra quest'ultimo e Lish, che nell'ambiente chiamavano "Capitan Fiction", i rapporti erano anche umanamente molto stretti, per quanto mai facili. Quando Lish abbandona il posto all'"Esquire", Carver gli scriverà: "Il solo sapere che tu eri lì, seduto alla tua scrivania, era per me un buon motivo per mettersi a scrivere. Tu, amico mio, eri la mia idea di lettore ideale, sempre lo sei stato e sempre lo sarai". Quanto pesante fosse stato il suo editing su Carver venne fuori solo alcuni anni dopo la morte dell'autore, quando giornalisti e curiosi ebbero accesso alle carte dell'archivio. Gli interventi non solo erano notevoli come quantità - ci sono alcuni racconti tagliati anche del settanta per cento - ma erano significativi per la qualità e la profondità con cui andavano a incidere sulla resa finale del racconto, lo stile, la "voce" dell'autore. Più difficile dire se questi tagli intaccassero in qualche modo l'integrità dello scrittore o, piuttosto, non contribuissero a far emergere le potenzialità che altrimenti sarebbero rimaste inesplose. In Grasso, ad esempio, il racconto che apre Vuoi star zitta, non solo Lish consigliò a Carver di usare il presente e tagliare i pensieri della protagoni- sta — lasciando così che il lettore creasse un legame emotivo con il personaggio solo attraverso le sue azioni - ma, con l'aggiunta di poche righe, sottolinea un legame, quello tra grassezza e potenza sessuale, che nella versione originale si perdeva. Fatto sta che Carver accettò sempre gli interventi di Lish, vuoi per debolezza ("rifuggiva dai conflitti perché lo spingevano a bere" dirà anni dopo Tess Gallagher, la moglie di Carver, che mal sopportava gli interventi dell'editor), vuoi perché ne riconosceva l'efficacia e il contributo che sapevano dare alla riuscita dei racconti. Tensioni sociali che si riverberano nel privato, come scosse concentriche di cui è difficile individuare l'epicentro, sono le faglie su cui si muovono - disorientati e un po' storditi - anche i giovani personaggi di Gelide scene d'inverno di Ann Beattie, altra scrittrice decisamente trascurata da noi. Gelide scene è il suo romanzo di esordio (uscì nel 1976), quando Beattie aveva all'attivo solo un racconto sul "New Yorker". Charles, trentenne impiegato statale, passa le sue giornate in uno stato semicatatonico nel ricordo ossessivo del grande amore, Laura, con cui è stato un po' di tempo prima che lei decidesse di tornare dal marito. Accanto a lui i suoi amici, altrettanto disillusi e bloccati in lavori al di sotto delle loro possibilità. Nei pochi giorni in cui è ambientata la vicenda non succede molto, più che altro i personaggi parlano, parlano, parlano, ma ne escono dialoghi brillanti, spesso divertenti, ironici. Il protagonista rimpiange e sogna la sua Laura, così come rimpiange e sogna gli anni sessanta, la mitica estate contrapposta al gelido inverno dei settanta. Charles assomiglia così a un Holden sopravvissuto a se stesso e disilluso, depresso, aggressivo, a volte addirittura rabbioso. Beattie fa quello che ogni generazione di scrittori americani ha fatto e continua ciclicamente a fare: racconta la sua personale generazione perduta. E lo fa risalendo a uno dei testi fondativi del mito: per quanto "in minore", e traslate in un ambiente poco più che proletario, ci sono le stesse atmosfere romanticamente disperate, da beautiful loser, e la stessa corrosiva destrutturazione del mito americano che sono nel Grande Gatsby. Altra autrice poco conosciuta in Italia (due raccolte pubblicate da Serra e Riva negli anni novanta), altra scrittrice di racconti (e anche qui molti sono usciti sul "New Yorker"), altro nome legato a Carver, al minimalismo, ma soprattutto a Gordon Lish, di cui è stata allieva quando lui ha iniziato a insegnare alla Columbia, Amy Hempel ha raccolto in Ragioni per vivere le sue quattro raccolte precedenti, in quella che è di fatto la sua opera omnia. Il mero dato volumetrico basta a rendere l'idea: una produzione narrativa di vent'anni concentrata in meno di quattrocento pagine che sono il precipitato di una scrittura tersa, tesa, a tratti contratta. Come se la lezione carveriana - ma forse ancora di più quella di Lish - fosse portata alle estreme e radicali conseguenze. I racconti sono attraversati da una tensione che non è esagerato definire mistica, scossi dalla loro algida compiutezza dalla ricerca di un'ineffabile rivelazione, per lo più mancata. Non c'è praticamente pagina che non abbia a che fare con la morte, la mortalità, la malattia, la perdita: alla fine l'effetto è di ammirazione per una tecnica sopraffina e perfettamente padroneggiata capace di dare "vita" a pagine di grande forza, dall'altra rischia di mancare il bersaglio dando l'impressione dell'esercizio un po' sterile e a cui manca l'ironia che attraversa le pagine migliori di Carver. La rilettura oggi di questi testi permette una riconsiderazione più lucida di ciò che è stato il minimalismo. Lungi dall'essere una giustificazione per parlare di "storie minime", come spesso è stato travisato, non può neanche essere ridotto a una questione unicamente formale (la reticenza, l'elisione, l'asciuttezza) o a un'invenzione di Lish. Letture simili si lasciano scappare quello che è forse la dimensione più importante di Carver e soci (almeno dei migliori): quella simbolica, quando non allegorica, diracconti che sono prima di tutto apologhi morali. L vero, per dire, che Carver e Hempel sono uniti da Lish: ma ancora di più, e Cheever prima di loro, sono uniti da Hawthorne, Questo per quanto riguarda la critica. Volendo invece una definizione più poetica di ciò che è stato il minimalismo, forse la più bella è in Gelide scene di inverno, quando uno dei personaggi racconta questo aneddoto: "Mio figlio conosce un ragazzo che ha avuto mal di gola per due mesi di fila. Alla fine lo strizzacervelli gli ha detto che la gola gli faceva male perché la contraeva deliberatamente per evitare di urlare". ■