Business, blocchi e paura: la politica estera dell'instabilità Abbiamo sbagliato, dunque sono anche affari nostri Intervista a Riccardo Noury di Daniele Scaglione Quanto quello che sta accadendo in Tunisia, Egitto e Libia può sorprendere? Chi legge i rapporti di Amnesty International sa che in questi paesi da tanti anni vi sono persone che finiscono in galera, o peggio, perché hanno cercato di esprime le proprie opinioni, fare attività politica... Questo fermento però non ha mai trovato né supporto internazionale, a parte le organizzazioni internazionali, né è riuscito a organizzarsi in modo sufficiente. Cosa è cambiato secondo te? Si tratta, come anche in Bahrein, Siria, Yemen e ancora altrove, di rivolte che nascono da gravi problemi di diritti umani e che vengono promosse da movimenti per i diritti umani. Non dimentichiamo qual è stata la scintilla della rivolta in Libia: l'arresto dell'avvocato che era a capo dei familiari dei 1200 detenuti politici che, nel carcere di Abu Salim, a Tripoli, la notte del 29 giugno 1996 vennero uccisi in tre ore di mitragliate. Il fermento c'era, ma era quasi invisibile a occhi disattenti: da anni, piccoli gruppi per i diritti umani manifestavano ogni settimana, nelle capitali nordafricane, per chiedere verità e giustizia, circondati da forze di sicurezza in rapporto di cento agenti per un manifestante. A poco a poco, la proporzione è cambiata. I manifestanti hanno resistito, hanno trovato coraggio e accanto a loro si è sviluppato un movimento di massa, favorito anche dall'uso dei social network. A quel punto, anche per i più distratti, è stato impossibile non accorgersi di cosa stava accadendo. C9 è chi si chiede se questa ondata di proteste potrà portare cambiamenti in altre zone limitrofe, in quei paesi mediorientali e anche africani dove la democrazia sembra ancora non sufficientemente sviluppata. Secondo me la domanda più interessante è invece un'altra e riguarda i cambiamenti da questa parte del Mediterraneo: Mubarak, Ben Ali, Gheddafi hanno sempre goduto di solidi appoggi in Europa. E possibile, a seguito di questi fatti, che gli stati europei la smettano di praticare queste politiche di basso profilo e, come hanno dichiarato più volte di voler fare, inizino veramente a mettere i diritti umani al centro della loro politica estera? Lo spero davvero. Abbiamo visto, in questi decenni, a quali risultati hanno portato politiche estere e di cooperazione che hanno trascurano i diritti umani e che hanno avuto un così preponderante obiettivo di sicurezza da essere praticamente gestite dai ministeri degli Interni dei paesi europei. Sono state politiche che si è cercato di far apprezzare dalle opinioni pubbliche attraverso la "paura": paura del fondamentalismo islamico, paura degli "esodi biblici" di migranti. Per placarla, abbiamo contribuito a mettere paura, quella vera (anche attraverso irresponsabili vendite di armi), a milioni e milioni di libici, tunisini, egiziani, algerini ecc. Mi chiedo cos'altro debba succedere per rendersi conto che investire nei diritti umani crea stabilità, mentre investire nelle violazioni dei diritti umani produce ciò che stiamo vedendo da tre mesi a questa parte. L5 Italia sembra preoccuparsi essenzialmente di due cose: il danno alle relazioni economiche e l'arrivo di profughi. In tutta franchezza, io non vedo distinzioni significative tra le grandi forze politiche, nella gestione di questi due temi (non la vedo neanche a livello europeo, in verità: il governo più feroce contro la cosiddetta "immigrazione clandestina" è senz'altro quello spagnolo di Zapatero). Secondo te quello che sta accadendo sarà un'opportunità per cambiare le cose, oppure l'Italia non farà altro che continuare a perseguire da un lato la politica del "business prima di tutto", dall'altro quella dei blocchi, cercando il più possibile di commissionare il lavoro sporco ai governi dei paesi che si affacciano sulla sponda sud del Mediterraneo, ammesso che lo voglia- no ancora fare, dopo i cambiamenti a cui stiamo assistendo? Dopo anni di iniezioni di paura, politiche si-curitarie adottate con grandi maggioranze, linguaggio discriminatorio e xenofobo, raccogliamo nel nostro paese ciò che è stato seminato: lo sgretolamento dei principi del diritto d'asilo e una grande indisponibilità all'accoglienza. Temo che ci aspettino anni d'impegno e fatica, da parte delle organizzazioni per i diritti umani, per riaffermare quei principi: andrà fatto sul territorio, prima ancora che nelle istituzioni. Spero, e ho abbastanza fiducia, che una stagione come quella dei respingimenti in blocco verso la Libia (quale che sìa la Libia di domani) non accadrà più. Ma credo che cambiare il linguaggio sicuritario, quello per cui i flussi di mi- granti, richiedenti asilo e rifugiati, sono etichettati come "emergenza clandestini", richiederà più tempo. Tante volte si è parlato dell'assenza di una cultura, condivisa e diffusa, dei diritti umani in Italia. E questa che va alimentata, valorizzando quanto di buono in questi anni è stato fatto dall'associazionismo e dalla generosità di centinaia di migliaia di italiani, pure questa passata abbastanza inosservata. Sulla vicenda libica il Consiglio di sicurezza dell'Onu ha in sostanza approvato l'uso della forza e alcuni paesi occidentali sono passati ai fatti. Questo ha fatto ripartire il dibattito, in Italia, su "intervento sì intervento no". E un dibattito bizzarro, non fosse altro perché si assiste a una convergenza di movimenti di sinistra e forze politiche di governo che, per vari motivi, si trovano d'accordo nel dire che l'intervento sarebbe stato meglio evitarlo. Ma a me sembra soprattutto un dibattito astratto: non sarebbe meglio concentrarsi sul "come" l'intervento viene eseguito, e cioè chiedere che l'obiettivo sia davvero la tutela dei civili, quindi che le decisioni siano prese in modo trasparente, che i principi del diritto umanitario vengano rispettati... E come se il Kosovo non ci avesse insegnato niente. Che ne pensi? La cosa che più trovo bizzarra è che, siccome Gheddafi l'abbiamo creato noi, ora non dovremmo intervenire: come dire ai civili libici: "Abbiamo sbagliato, adesso sono affari vostri, scusateci". Invece, siccome abbiamo sbagliato, ora sono anche affari nostri. Non trovo scandaloso che, in una risoluzione del Consiglio di sicurezza che pone enfasi sulla "protezione dei civili", sia previsto l'uso della forza. La storia dei mancati interventi per proteggere i civili è lunga, lo sappiamo bene. Ma a chi, dopo ventiquattr'ore di intervento militare, già aveva dimenticato quarantadue anni di violazioni dei diritti umani in Libia, ha senso rammentare il Rwanda? Come dici giustamente, ci sono regole da rispettare in questo intervento militare: per essere coerenti con l'obiettivo di proteggere i civili, non vanno colpiti obiettivi civili, questo mi pare elementare. Poi, ci sono corridoi umanitari in entrata da creare per far arrivare gli aiuti umanitari e percorsi sicuri in uscita per chi vuole lasciare la Libia. Ci sono, mentre scrivo, molte centinaia di migranti, richiedenti asilo, rifugiati già riconosciuti del Corno d'Africa che vivono nel terrore a Tripoli e Bengasi: il regime di Gheddafi li ha torturati nelle carceri, i ribelli li considerano "mercenari" per via della loro origine. Vanno evacuati subito. E poi vanno aperte le frontiere, tutte, compresa quella marittima. Se arriveranno persone in fuga dalla Libia, sarà indispensabile rispettare le norme del diritto internazionale, accertare chi ha necessità di specifica protezione, garantire accoglienza degna. E a quel punto sì, scusarsi. ■ D. Scaglione lavora per ActionAid Italia R. Noury è portavoce della sezione italiana di Amnesty International < manzi (Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani, Feltrinelli, 2007; L'esatta sequenza dei gesti, Instar, 2008; e ora il più recente La bellezza nonostante, Transeuropa, 2011) sempre legati ai temi dell'adolescenza e della marginalità, cui lo ha reso sensibile la sua attività di educatore. Rimasto solo, Enaiat intraprende la sua avventurosa odissea che dal Pakistan lo porterà in Iran, in Turchia, e di lì in Grecia e in Italia, peregrinando senza meta prefissata per quasi cinque lunghi anni. Fa i lavori più svariati, venditore di strada, muratore, operaio tagliapietre. Si muove nel mondo parallelo dei reclutatoti di braccia e dei trafficanti di esseri umani. Trova amici e compagni di lavoro e di viaggio. Osserva incantato altri coetanei che possono ancora far volare gli aquiloni o dedicarsi al suo gioco preferito del Bu-zul-bazi, con un osso di pecora bitorzoluto lanciato come un dado. Dorme nei cantieri, nei parchi, nelle stalle, tra le rocce. Si mantiene fedele ai precetti della madre, che trasgredisce solo in un caso, tra la neve e il vento della micidiale scalata delle montagne iraniane verso la Turchia, quando gli compaiono d'un tratto di fronte "le persone sedute. Erano sedute per sempre. Erano congelate. Erano morte. Erano lì da chissà quanto tempo". A uno ruba le scarpe, "molto meglio delle mie. Ho fatto un cenno della mano per ringraziarlo. Ogni tanto lo sogno". Erano partiti in settantasette. Alla fine della traversata, durata ventisei giorni, ne mancavano dodici, morti nel silenzio lungo il cammino. È una moderna epica narrata in modo asciutto da Enaiat, sempre con leggerezza, persino autoironia, mai vittimismo. Prende atto di come va il mondo, anche quando è duro e violento, con naturalezza. Attraverso gli occhi del bambino "alto come una capra" diventano visioni fiabesche quelle delle "mucche selvagge", basse e tozze, che "correvano come diavoli" in un bosco della Turchia, ma non erano che cinghiali mai visti prima. O la fantasticata presenza nel mare dei coccodrilli, che continua a far paura a uno degli amici con cui prende il largo su un gommone per la Grecia, dove non tutti arriveranno. Ci sono anche gli incontri quasi miracolosi con qualche figura inaspettata di "angelo", che gli offre un pasto, dei vestiti, un biglietto di viaggio, gesti solidali preziosi. Ed è con sguardo sociologico che ci racconta delle reti di afghani sparsi nel mondo, di come si debba andare a cercarli nei parchi delle città, ricavarne informazioni, far scattare un contatto attraverso la catena dei cellulari. E arrivare a Roma già sapendo che si trovano alla piramide dell'Qstiense, e il numero dell'autobus per arrivarci. Enaiat approda infine a Torino, e la sua è una storia a lieto fine. Vi trova una nuova famiglia con due fratelli. Comincia la sua seconda vita. Frequenta la scuola e vuole lavorare nei servizi sociali, come l'accogliente funzionaria del Comune che l'ha preso in affidamento in casa sua. Ha ventuno anni (forse) quando finisce il suo racconto degli anni vissuti "più al buio che alla luce" in terre sconosciute, cercando di rendersi "invisibile" nei doppifondi dei tir. E uno dei tanti nuovi cittadini del mondo. Che li chiama clandestini. Commenta sul sito www.lindiceonline.com