I cordoli delle strade calabresi non arginano il dilagare degli abusi La terra delle regole futili (e finte) di Mauro Francesco Minervino Perdo molto del mio tempo in macchina. Guido e giro da anni sulle strade di questa regione, e anche oltre. Macino chilometri ogni santo giorno. Lo faccio per star dietro al mio lavoro, per capire come cambiano i luoghi, per incontrare le persone, per osservare certe posture, le espressioni degli sco- nosciuti, le facce della mia gente. I finestrini di un'auto stanno più o meno alla stessa altezza dell'o- biettivo montato sul carrello-camera del cinema. Il mondo scorre ai lati. Guardi e non sei guardato. Io guido anche per ruminare sensazioni e ricordi, per pensare in pace ai fatti miei. Strade e superstrade, città provinciali, paesi, spiagge, montagne, suburbi non finiti, centri commerciali, stazioni di servizio, semafori e incroci, intervalli opachi e senza nome, cantieri, palazzi, altre strade. La Calabria è una ma- teria liquefatta, in rotazione continua, in cui tutto è sempre più mobile, esterno, instabile, sottosopra. Giorni fa ero in macchina da solo. In macchina si pensa meglio. I ricordi incontrano le occasioni fila- te dalla strada, arrivano da soli a getti involontari. A un certo punto della strada i miei pensieri si inter- rompono. Ecco, pure qua, mi sono detto. Te ne ac- corgi così. Siamo in città, Cosenza, una qualsiasi strada laterale, imboccata distrattamente in mezzo a un'ansa dei palazzoni del centro, neanche troppo trafficata. I soliti idioti: dichiaro tutta la mia insoffe- renza per gli odiosi cordoli stradali. Li hanno messi ovunque, rastremati, in linea o di traverso. Quelle grosse verruche di plastica gialla, quegli stupidi binari di gomma scivolosa. Intralci. Arrivano sotto le ruote senza avviso, come la car- cassa di un cane sbandato che taglia la corsia. Sob- balzi, frenate brusche, stri- dori e rumoracci, scarti del traffico, tamponamen- ti, bestemmie. Creano più pericoli che ordine. Io che rispetto i limiti e il codice della strada, ho sempre pensato che i dossi artifi- ciali siano l'espressione stradale di una mentalità anticivica, illiberale e re- pressiva. Una segnaletica brutale, da vecchio regime sovietico, che ti obbliga a stare su una porzione di carreggiata sollevata e resa sconnessa apposta per ral- lentare il traffico. Cioè per renderti la vita più diffici- le. Adesso i cordoli, come le rotonde, spuntano a sproposito, pure dove non servono. Ogni strada è un percorso a ostacoli. Sarà un altro dei business marci di malaffare venuto di moda in questa regione dove niente serve per il suo scopo e nulla è come appare. Per il resto normal- mente le vie di comunicazione della Calabria, dalle strade comunali all'autostrada, sembrano accurata- mente bombardate, i crateri sulla crosta della luna. E poi che senso hanno i dossi artificiali a Catanzaro, nel centro asfissiato di Catanzaro, la città più para- litica e rallentata di auto del mondo? E i cordoli a Rende sulle rampe che portano all'università sem- pre incasinata di traffico? E i dissuasori piazzati nel- le stradine anguste, tra le marine e nei centri storici come Paola, Amantea, Scalea, dove le macchine vanno per forza a passo d'uomo o si incastrano a malapena nei vicoli? Ho visto che in certi posti qualcuno li taglia, divelle i longheroni di gomma e ci fa uno spazio in mezzo giusto per le ruote. Io da- vanti ai cordoli ho un conato di sensazioni primor- diali, reazioni pavloviane, ribellioni istintive e clau- strofobiche. Le sospensioni della mia auto appena le sfiorano scalciano come un mulo. Mi viene di sal- tarci sopra, di accelerare con rabbia per superarli di scatto. Evocano le strettoie per gli animali istradati al macello, i corridoi disperati dei penitenziari e dei reclusori, i recinti dei campi di concentramento. Benché provengano dagli Stati Uniti, il paese dei grandi spazi liberi. E l'America che ha sviluppato l'automobile, il mezzo di trasporto individuale che identifica la li- bertà, il posto dove li hanno inventati, dove sono in uso da decenni. Lì i dossi si chiamano "bump". "Bumpside" o solo "bump", "scassone", deriva dal nomignolo slang usato per il camioncino Ford F-se- ries, un pick-up combinato, cabinato più cassone da una tonnellata e mezza in produzione dal 1967 al 1972. Il "Bump" Ford F-series, prodotto fin dal 1948 e poi copiato da tutti i costruttori, è ancora og- gi, in versioni costantemente rinnovate dal colosso automobilistico di Detroit, il veicolo a quattro ruo- te più venduto negli Stati Uniti. È anche una delle dieci auto che hanno fatto la storia del cinema. È l'inconfondibile sagoma del pick-up ammaccato e rugginoso degli "on the road movie" ambientati fra le statali infinite e le piste coperte di polvere, piene di sobbalzi e trasalimenti dell'America rurale. Uno di quei mezzi di lavoro democratici che portano in giro vittime e avventurieri, innamorati e fuggiaschi, i cowboy e le pin-up, gli spostati dalle nevrosi na- scoste e i killer seriali covati nella pancia sconforta- ta della provincia americana. Sono i bump caracol- lanti sulle piste dei film vecchie glorie dell'american Nudo con specchio, 1978, tecnica mista su carta intelata, 70x50 life, fino ai pick-up truccati da gara di Fast and Fu- rious, passando per le nostalgie di American Graffi- ti e per i racconti raggelanti di Trilobiti di Breece D'J Pancake. Sempre lo stesso camioncino in fuga dagli orrori della vita o lanciato con i suoi occupan- ti alla rincorsa disperata di un orizzonte di libertà, con una felicità che sembra sul punto di esser colta ma che si sottrae continuamente alla vista. "Vivo la mia vita a un quarto di miglio alla volta. Non mi im- porta di niente. Per quei dieci secondi io sono libe- ro! ". Sul grande schermo è il camioncino che in for- me mutate vediamo correre o arrancare nelle scene di film tra i più vari, come Starnati, Mosquito Coast, L'uomo dei sogni, fino ai più recenti Transformers, Kilt Bill di Tarantino, American Life di Sam Mendes o il recentissimo This Must be the Place di Paolo Sorrentino. Bump nello slang americano significa più sensatamente "bolla, brufolo, vescica", ma an- che scossone, contraccolpo, botta (con allusione sessuale), e pure l'autoscontro del luna park porta il nome di "Bump me", tamponami. Bump è anche la dose da sballo di una sostanza illegale, e nel gergo lavorativo pure la rimozione dal posto, l'assegnazio- ne coatta a un altro lavoro o la cancellazione da una lista. Per noi che abbiamo smarrito la giusta via fra le strettoie meridiane della nostra regione vampiriz- zata dal cemento, i bump veri, quelli attaccati sul- l'asfalto da amministratori zelanti di comuni e cit- tà superabusive sfiancate da ogni sorta di caos e di subbuglio, dovrebbero servire quasi da cordo- ne sanitario. Un correttorio steso sulla strada. Ar- gini di gomma messi lì a dissuaderci (da cosa?), a disciplinarci per renderci almeno in automobile cittadini modello. Al massimo servono ad annul- lare dentro corsie obbligate ogni residua illusione di libertà e individualismo alla guida di un mezzo sulla strada. In nome delle file, ovvero del deflus- so ordinato, di un'illusione di disciplina civica contrabbandata in nome dell'omologazione di massa, mentale e comportamentale. Il resto amen, il solito groviglio indigesto e mostruoso che ci cir- conda. Insomma i dossi, i dissuasori, i cordoli, i bump di tutti i generi, non sono innocenti fran- genti di gomma. Anche quando guido giorno do- po giorno sulle strade rovinose della mia terra de- predata avverto l'allarmante sensazione di essere in ostaggio di una società di regole futili e finte, inutilmente irta di trabocchetti, prescrizioni, di- vieti, impedimenti, obblighi, misure sempre più ottuse e coercitive. Finalizzate tutt'al più a tra- sformarci in obbedienti corsisti, in replicanti au- tomi del traffico in fila indiana nelle nostre sca- tolette di latta. Ma il fat- to è che i bump valgono solo per noi, esseri co- muni, uomini-massa, pendolari e forzati del- l'autotrasporto e degli ingorghi. E solo noi e le nostre vite già affannate, pericolanti e anguste, rallentano, incolonnano, dissuadono, deviano. I cordoli non fanno rece- dere le auto blu, non moderano i sorpassi pre- potenti dei cortei delle caste e i grossi suv delle mafie locali. Non argina- no la monotonia del pae- saggio, il dilagare degli abusi, il malaffare, la noia. Quando entro in una di queste strettoie cordonate in giro per la Calabra, mi sento come in certi film della peg- giore immaginazione fu- turologica. Un omino che guida al rallentatore tra le arterie strettamente sorvegliate di un'altra Farheneit 431, il personaggio orwelliano di un 1984 più imprudente e scalcinato. Peggio, un fi- gurante oppresso tra la folla intruppata e i casca- mi stradali di una Metropolis di Fritz Lang sgar- rupata e virata in bruttissima copia. È una dura lotta per sopravvivere e spostarsi nel casino babe- lico del sistema viario pieno di groppe, di traboc- chetti, di buche, di pericoli mal avvisati, di rac- cordi sviati, di strade stritolate e perse nel nulla cresciuto a casaccio nelle contrade sottosopra di questa Calabria post-tutto, compendio di tutti i rottami e dello sfascio dedalico del Sud nostrano. Io ogni volta che li vedo quei maledetti cordoli accelero e mi ci avvento sopra. Sobbalzo alla grande. Ho deciso che la prossima macchina che mi compro sarà uno di quei "bump", il camionci- no dei film americani. ■ maurofrancesco.minervino@gmail.com M.F. Minervino è scrittore e insegna antropologia culturale ed etnologia all'Aba di Catanzaro