Letterature Dittatore senza nome Scrivere sul nulla di Eva Banchelli di Giuliana Gigante Gajto Gazdanov STRADE DI NOTTE ed. orig. 1991, trad. dal russo di Claudia Zonghetti, pp. 201, €20, Zandonai, Rovereto 2011 E una beffa del destino quando le strade della città dell'esilio diventano più familiari di quelle di una qualsiasi città del proprio paese. Eppure, è proprio quello che accade inesorabilmente a molti degli emigrati, e Gajto Gazdanov in Strade di notte se ne fa testimone. Emigrato all'inizio degli anni venti, con la cosiddetta prima ondata dell'emigrazione russa, lo scrittore si stabilisce, dopo una serie di peripezie, a Parigi e, dopo un breve periodo di lavoro alla Renault, insofferente della vita di fabbrica, si mette a fare il tassista. L'esperienza gli offre lo spunto per narrare le proprie peregrinazioni notturne per le vie di Parigi che diventano il punto di partenza per esplorare la natura umana. Non è la Parigi ville lumière la città per cui si aggira il nostro eroe, ma piuttosto un luogo che egli stesso definisce sinistro, un dedalo di vie malfamate o di quartieri di periferia. La notte favorisce gli incontri e rende più facile il disvelamento delle anime. Quel che ne viene fuori non è sempre bello e Gazdanov ne dà atto laconicamente, quasi a voler preservare un certo distacco dalla meschinità e dalla paura, dall'abbrutimento e dalla volgarità con cui deve, suo malgrado, fare continuamente i conti. Il magma umano viene filtrato attraverso la coscienza dello scrittore che tende ad appiattir- Ex Jugó di Alessandro Ajres Dubravka Ugresic BABAJAGA HA FATTO L'UOVO ed. orig. 2007, trad. dal serbo-croato di Milena Djokovic, pp. 416, €19, Nottetempo, Roma 2011 Una struttura circolare e postmoderna, quella dell'ultimo romanzo di Dubravka Ugresic tradotto in italiano. La scrittrice croata, residente ormai da anni ad Amsterdam dopo aver spezzato ogni legame intellettuale con la madrepatria, si diverte a mescolare avvenimenti realistici e surreali, fino a risolverli nell'ultima parte del testo. Tre donne sono le protagoniste del primo capitolo: la narratrice (l'autrice stessa?) si reca a Varna sulle orme della gioventù della madre malata di Alzheimer, accompagnata da una giovane ricercatrice di folklore balcanico; così come tre donne sono le protagoniste della parte centrale del libro: Pupa, che garantisce la continuità con le avventure raccontate in precedenza, Beba e Ku-kla stravolgono la tranquilla monotonia del Grand Hotel ceco dove vanno a villeggiare. Le tre terribili vecchiette trovano sponda nella figura straordinariamente vitale di Mevludin, massaggiatore per necessità presso la stazione termale dell'albergo. Tipico prodotto della ex Jugoslavia ("Io sono come la ex Jugo, come la pentolata bosniaca, c'è di tutto un po'. Il papà è bosniaco, la mamma mezza croata, mezza slovena. Ma in famiglia c'era di tutto, montenegrini, serbi, macedoni, cechi... una nonna era ceca"), Mevludin affronta il paradossale destino di essere spacciato ai turisti con il nome di Solimano, di essere travestito da turco, ovvero come i conquistatori di sempre. Una granata, durante la guerra, gli ha causato una straordinaria alterazione fisica: "Mi è successo dopo l'esplosione. E esplosa una granata serba, fottuti loro e tutti quelli come loro, e da quando è esplosa sta sempre dritto. I miei amici bosniaci mi prendevano in giro, eh Mevlo, dicevano, tu sì che ci hai guadagnato, con la guerra! Non solo ti sei salvato il collo ma c'hai rimediato pure un arnese come un fucile. Io, uno che ci ha guadagnato con la guerra?! Un invalido di guerra, ecco cosa sono! ". L'uomo cederà all'ennesima lusinga di un lavoro incentrato sulla sua specifica condizione soltanto per si sullo sfondo come se la rivelazione dell'altro dovesse necessariamente passare attraverso la cancellazione dei suoi turbamenti. Anche nel contesto della storia della letteratura Gazdanov ha avuto, per circostanze indipendenti dalla sua volontà, un ruolo alquanto defilato. Le sue opere non sono mai state pubblicate in Urss e, solo dopo la dissoluzione dello stato sovietico, dopo decenni di oblio e a vent'anni dalla morte, avvenuta nel 1971, la Russia ne ha avviato la pubblicazione, stampando oltre cinquanta edizioni dei suoi romanzi e racconti. Leggendo il libro, sembra quasi di vedere lo scrittore scrivere di giorno per poi la notte aggirarsi insonne per la città, trasportando gente di ogni risma, o fermarsi al bancone di un bar con l'immancabile bicchiere di latte ad ascoltare poeti e filosofi, puttane e reietti di ogni tipo disquisire sui massimi sistemi in preda ai fumi dell'alcol. Tutti sognano, almeno per un attimo, una vita diversa. Gazdanov era convinto che ogni individuo possieda due vite, quella che sta vivendo e che spesso non corrisponde alle sue aspettative, e un'altra, ideale, che è quella che avrebbe dovuto vivere. Nonostante la carrellata di personaggi diversi, in questo libro mancano dei protagonisti veri e propri. E forse per questo che la critica dell'epoca aveva accusato Gazdanov di "scrivere sul nulla", ma la vera protagonista di Strade di notte è la vita, ricostruita attraverso una miriade di frammenti, le singole esistenze umane, in un estremo tentativo di ricomporre il puzzle e di dare un senso al tutto. amore, mentre le tre anziane signore dipaneranno i fili delle proprie storie passate. Il terzo capitolo, eccezionale tanto dal punto di vista letterario quanto da quello scientifico per chi si interessi di fiabe e mitologia femminile, reinterpreta gli eventi alla luce delle caratteristiche della Baba Jaga e della sua presenza nel testo. Del resto, l'autrice presenta questa parte come se a scriverla fosse la stessa Aba Bagay (Yaga Baba leggendo il nome al contrario), massima esperta nel campo. Baba Jaga, strega classica della mitologia slava, incline al bene o al suo contrario a seconda dei casi, non è un semplice elemento nell'interpretazione della struttura delle fiabe come per Vladimir Propp, ma è l'elemento su cui incentrare l'analisi del proprio racconto e della società attuale per Dubravka Ugresic. Ne vengono fuori dei passaggi di straordinario approfondimento sociologico. Un'ultima nota di merito va alla casa editrice Nottetempo, che ancora una volta mette il pubblico italiano a confronto con una delle realtà letterarie slave al livello più alto. ■ aquadro®libero.it Hans Keilson LA MORTE DELL'AVVERSARIO ed. orig. 1959, trad. dal tedesco di Margherita Carbonaro, pp. 261, €19, Mondadori, Milano 2011 A. Ajres insegna lingua polacca all'Università di Torino Il 31 maggio di quest'anno è passata quasi inosservata in Italia la notizia della morte di Hans Keilson, avvenuta nella cittadina olandese di Bussum, dove risiedeva dal 1936. Con i suoi centouno anni, portati fino all'ultimo con l'energia e l'acutezza di spirito che sono state, in molti casi, la più autentica rivalsa delle vittime verso i loro carnefici, Keilson è stato uno degli ultimi grandi maestri regalatici dalla diaspora intellettuale ebraica seguita alla presa del potere di Hitler. Originario di Bad Freienwalde, al confine con la Polonia, riuscì ad abbandonare il paese, dove aveva esordito con il romanzo La vita va avanti nell'anno stesso dell'ascesa della dittatura, mentre entrambi i suoi genitori vennero trucidati ad Auschwitz. La disattenzione della critica italiana non stupisce: l'unico libro di Keilson tradotto nella nostra lingua, il suo capolavoro narrativo La morte dell'avversario, è apparso infatti, solo un mese prima della sua scomparsa e a distanza di oltre cin-quant'anni dalla prima edizione tedesca. Il romanzo rappresenta dunque per il lettore italiano l'introduzione all'opera di un autore tutto da scoprire. Le date 1942-1959, unico elemento di referen-zialità storica posto a sigillo di una narrazione che vuole offrirsi come parabola astratta, segnalano del resto la lunga, tormentata gestazione di un testo che ci conduce all'interno del processo stesso di elaborazione del lutto attraverso la scrittura. La morte dell'avversario è una particolarissima commistione di Bildungsroman e di conte philoso-phique, incorniciato dallo schema del manoscritto ritrovato: attraverso una serie di episodi emblematici l'io narrante ricostruisce l'evoluzione del suo rapporto con l'Avversario, un persecutore la cui cieca spietatezza saprà condurre il complesso processo di proiezione/identificazione da parte della sua vittima fino alla matura pienezza di un odio attivo e consapevole. I nuclei di riflessione che Keilson consegna alla nostra attenzione sono gli stessi che ha scandagliato nella sua duplice veste, quella di neuropsichiatra infantile, dedito a lenire le ferite degli orfani della Shoa, e quella - da lui sempre considerata con un tocco di ironica perplessità - di scrittore e di poeta. La ricchezza del suo pensiero, l'intransigenza nell'interrogare i recessi più profondi e contraddittori della natura umana attingono però a una cultura che va oltre le già straordinarie risorse del suo "doppio talento", innestate come sono di un sapere che reca, pur senza esi- li morte dell'auiiersarlo birlo, anche il sigillo della sapienza ebraica le cui tracce sono disseminate nel testo e ne sostanziano la tessitura. Se in Italia giunge dunque solo ora, anche in Germania Keilson è una riscoperta recente, trascinata da una straordinaria ricezione americana e promossa nel 2005 dalla raccolta completa in due volumi delle sue opere da parte dell'editore Fischer. L'esule ha così, alla fine, ritrovato casa nella lingua dalla quale, come possiamo leggere nelle sue liriche centrate su questo tema (Sprach-wurzellos, 1986), aveva subito il più violento degli sradicamenti senza tuttavia mai poterla abbandonare come strumento espressivo. Di quello sradicamento gli rimarrà l'orecchio sensibile all'aggressione che il potere totalitario esercita mitragliando con la violenza delle parole. Il linguaggio di cui si serve Keilson per narrare il suo affondo nella barbarie e nei meccanismi della sua micidiale seduzione è, di contro, vigile, preciso, lento, variato, a tratti struggente: solo così la letteratura può sferrare la sua controffensiva all'uso criminale del discorso, della voce, del gesto da parte dell'Avversario. Il capitolo VII è, in questo senso, un pezzo da antologia nel quale il narratore, assistendo a un comizio del suo Nemico, smaschera con i sensi feriti la potenza stregonesca che la retorica dell'oratore esercita sul destinatario, interrogando nel contempo con l'allerta della ragione Ì'"enigma del consenso". Ar Avi nche in queste pagine il dittatore non è mai reso riconoscibile: la scarna iniziale "B." che lo designa, mentre gli nega la menzione del nome (riguardo supremo nella tradizione ebraica), Io trasforma in figura astratta del male assoluto, con la cui presenza imprescindibile dentro e fuori di noi Keilson, attraverso il suo protagonista, chiama l'essere umano a un confronto senza quartiere. Altrettanto, e ancora più vistosamente elusiva, è la reticenza nei confronti del crimine di cui quel male è artefice: la persecuzione e lo sterminio degli ebrei non sono mai direttamente menzionati in tutto il testo. In questo caso il silenzio non è gesto di sprezzo ma di riserbo, cautela di un autore conscio, come pochi altri, dell'indicibilità dell'estremo. L'abisso della Shoa si condensa così nell'episodio della profanazione di un cimitero, il cui crudo realismo si trascende in rappresentazione simbolica della pulsione di morte all'origine della "soluzione finale"; ma, ancora di più, la catastrofe si rende presente nell'indugio di preghiera con cui Keilson si sofferma sugli oggetti quotidiani, "cianfrusaglie di una vita" ormai destinate alla morte, reliquie sottratte dalla poesia all'orrore della storia. ■ bancell@unibg.it E. Banchelli insegna lingua e letteratura tedesca all'Università di Bergamo