' X 00 ' Una feconda stagione di studi critici Far risuonare nel testo la saggezza delle altre età di Franco Marenco Quello di Nadia Fusini, Di vita si muore, è lo studio più importante su Shakespeare prodotto in Italia da almeno quarant'anni a questa parte. Lei è soprattutto una scrittrice, con tutte le eccentricità della scrittrice, ma ha anche sulle spalle una valorosa carriera di insegnante: una corposa erudizione le consente di documentare estesamente anche l'indagine più disinvolta e la più singolare delle intuizioni. Suo obiettivo sono le passioni, così come erano percepite, studiate, rappresentate fra Cinque e Seicento, e come si installano al centro della tragedia shakespeariana, con quale stimolo dall'azione, con quale potere sui protagonisti: sono la "passione della ragione, un ossimoro nelle cui spire Bruto si lascia strozzare"; la "passione del dolore" in Amleto, che "al rigoglio del desiderio sessuale di vita, di piacere, contrappone in languore del lutto"; "amore" e "odio" nella loro forma più violenta in Otello; l'"ira" e la "pietà" in Lear; la "paura" in Macbeth. Cinque viluppi di pulsioni, appetiti, sofferenze, conflitti che vengono concentrati in un'unica, polivalente tensione di affetti e di stile, e che danno vita ai cinque maggiori "eroi" di quella eccezionale serie drammaturgica, e ai cinque capitoli - o "atti" - del libro, memori della divisione in cinque atti che la tradizione ha imposto alla libera ideazione degli originali. I nomi propri devono emergere subito in primo piano, perché questa è la concezione che del dramma ha l'autrice: non tanto intreccio, non tanto azione derivata da questa o quella fonte, non occasione di filologia, quanto unico, monolitico ritratto di individualità complesse, sfaccettate, messe a nudo fin nelle più profonde radici di psicologie, indoli, volontà singolarissime. Tutte le valenze del testo servono alla caratterizzazione centrale: è il trionfo del soggetto sulla sua stessa storia, una propensione e un metodo già sperimentati in un lavoro precedente sulle figure femminili: Ofelia, Desdemona, Cleopatra. Questo non esclude, anzi invoca in ogni pagina, il confronto con le circostanze culturali dell'epoca, con i drammaturghi contemporanei, con la grande tragedia greca; ma soprattutto con l'inesauribile storia del pensiero sui temi toccati da Shakespeare, da Euripide a Cicerone a Lutero a Hobbes a Freud, Benjamin, Lacan... in quello che mi sembra il compito della critica migliore, far risuonare nel testo la saggezza delle altre età, e renderlo quindi sempre nuovo. Si può eccepire che il predominio della dimensione soggettiva tenda a lasciare in ombra quella intersoggettiva e sovrasoggettiva dei testi (per esempio, frammentando il parallelismo fra Lear e Gloucester), ma la ragione diventa presto chiara: grazie a quell'impostazione, l'occhio esigente ed erudito dello scholar non può fare a meno di convergere, quasi senza volerlo, nell'occhio acuto del regista teatrale, che finisce per scrivere tra l'altro un ottimo brogliaccio di regia, sempre attento al doppio versante della corretta collocazione storica e dell'illuminazione attualizzante, anche la più spregiudicata; e mi affretto a raccomandarne le direttive a chiunque voglia mettere in scena queste tragedie: sarà necessario soprattutto nel caso di Macbeth - il capitolo migliore per intuizione e per sintesi - in cui "il momento della verità" è quello che "la mente soffre allo stesso tempo di volere e non voler raggiungere", mentre "l'angoscia raschia contro questo fondo oscuro". Ancora al teatro, ma a più autori in prospettiva comparatistica è dedicato lo studio di Chiara Lombardi, un vero modello della tendenza più innovativa dell'attuale critica letteraria del nostro paese. Mondi nuovi a teatro prende spunto dalla drammaturgia rinascimentale e barocca di Italia, Inghilterra e Spagna, per approdare a una visione quanto mai complessa di un fenomeno che è a un tempo spaziale, economico e sociale, prestando continua attenzione alla risonanza testuale ed esegetica che quella grande stagione di drammi ha attinto dalla tradizione occidentale per rimetterla in circolo del tutto modificata, sensibile a un nuovo rapporto fra mimesi e diversità. L'idea di fondo è quella per cui la creazione artistica provvede costantemente a ridefinire, e spesso a contraddire, la realtà com'è vista, interpretata, condizionata dagli altri discorsi, dall'economico al politico al morale al religioso. Al teatro viene assegnato il ruolo di manifestazione più matura e complessa della pressione critica che l'invenzione umana è stata capace di esercitare sul mondo rinascimentale e barocco: "Il teatro sfida l'ideale umanistico di una relazione di corrispondenza tra sé e la città, facendosi parodia, prospettiva beffarda e distorta, critica al potere vigente e alle sua norme, rappresentazione non del linguaggio pubblico, ma del rimosso". Di tali portentose novità Shakespeare -insieme a Machiavelli, Bruno, Marlowe, Calderón, Lope - resta un artefice centrale, creatore di una rinnovata dialettica fra l'impulso titanico della conquista e la coscienza dolente della vanità dell'azione, fra lo spazio chiuso della città e il vasto mondo delle scoperte (Il mercante di Venezia), fra il pregiudi- zio verso l'altro e la costruzione della sua umanità (La tempesta), fra la magia della narrazione e l'aberrazione della parola ingannatrice (Otello), fino all'opposizione tra la forma mercificata dello spettacolo e la magnificenza dell'arte teatrale (Antonio e Cleopatra). Tante, e così (fin troppo) fitte sono le suggestioni che questo lavoro trae dall'impegnativo confronto con la letteratura classica e contemporanea, da convincere sulla virtù di un metodo, e da precludere qualsiasi tentativo di rendergli piena giustizia. Aggiornatissima è l'estesa bibliografia. Già nelle parole del titolo, "l'incomprensione in letteratura", Antonio Castore annuncia la sua sfida nei confronti del costume critico corrente: non guardare a come collaborano i materiali della scrittura nel creare un senso complessivo, non alla comunicazione virtuosa, ma alla comunicazione deviata, fuorviata, fraintesa che dà comunque senso, costruisce un senso inatteso e tuttavia esemplare pur nella sua variabilità e incostanza: "Anzi, talvolta si tratterà di un significato latente, parassitario, inconscio o quasi, di cui non sarà lecito chiedere ragione all'ideologia espressa o al mondo di intenzioni dell'autore". E ancora più provocatorio risulta quel ti- I libri Nadia Fusini, Di vita si muore. Lo spettacolo delle passioni nel teatro di Shakespeare, pp. 495, € 22, Mondadori, Milano 2010. Renato Rizzoli, Il teatro del capitale. La costruzione culturale del mercato nel dramma di Shakespeare e dei suoi contemporanei, pp. 304, € 24, Ecig, Genova 2010. Chiara Lombardi, Mondi nuovi a teatro. Limmagine del mondo nel teatro europeo di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società, pp. 322, € 28, Mimesis, Milano 2011. Antonio Castore, Il dialogo spezzato. Forme dell'incomprensione in letteratura, pp. 342, € 28, Associazione Sigismondo Malatesta, Paci-ni, Pisa 2011. tolo nel nominare un "dialogo spezzato", perché prende di mira una possibile falla nel complesso e meritorio sistema di principi teorici che hanno retto la ricerca letteraria negli ultimi decenni. Fondamentale è il dialogo com'è inteso da Bachtin e dalla sua scuola, ma l'incomprensione va oltre quelle fondamenta, vi aggiunge "un evento, un accadere portatore di significato (...) un evento di natura linguistica (...) che dice qualcosa sul linguaggio e su chi, nella finzione dell'opera, ne fa uso". E ben potrebbe quel titolo diventare "storia letteraria dell'incomprensione" - una storia molto eversiva del nostro timido storicismo - perché Castore getta la sua finissima rete ermeneutica su casi esemplari sparsi in tutto il sistema: per non citare che i più cospicui, il mito di Babele, la rarefazione del senso lamentata da Kafka nelle Lettere a Milena, l'atroce "scienza dei numeri" che, testimone Primo Levi, nella neo-Babele del Lager soppianta l'impossibile comunicazione fra le diverse lingue e le diverse genti. Centrali in questo quadro restano la shakespeariana Commedia degli equivoci e l'intero corpus narrativo e saggistico di Ingeborg Bachmann. L'esplorazione si concentra così sugli spazi del comico rinascimentale e del tragico moderno: "Tra questi due tempi qualcosa di nuovo è avvenuto (...) la discomprensione - in tutte le sue varianti - diverrà 'tema' di cui parlare, oltre che 'modalità' comunicativa da rappresentare". Il discorso sul comico si vale degli apporti della linguistica, della sociolinguistica, dell'antropologia e della narratologia per definire le "strategie di sabotaggio e riparazione della macchina dialogica", che coinvolgono la nozione del tempo ("un tempo [della scena] non vettoriale ma continuamente sospeso"), l'intreccio (distinto in "cornice", sede di narratività, e "azione", sede del malinteso), il nome proprio (che si presenta come impermeabile all' equivoco, ma ne è continuamente circoscritto) e il corpo stesso, cui viene a mancare una base di riconoscibilità; per arrivare a situazioni in cui "l'altro, l'interlocutore, colui verso il quale è rivolta la parola si trasforma nell'Altro radicale, impossibile da raggiungere attraverso il dialogo". Non alla comunicazione incerta, ma alle certezze della corrispondenza fra discorso letterario e discorso economico è dedicata la pregevole ricerca di Renato Rizzoli, Il teatro del capitale, forte di un'ap-profondita analisi di testi primari nei due campi - i trattati di economia del tempo, e, per il teatro, Il mercante e Limone d'Atene di Shakespeare, e La fiera di San Bartolomeo di Ben Jonson. Anche qui il linguaggio ha un peso cruciale: attraverso una contiguità di significati - ad esempio, il denaro e Yamo-re che compongono in ugual misura il debito contratto da Bassanio nei confronti di Antonio (nel Mercante) - si realizza uno scambio di legittimazioni che permettono all'uno e all'altro discorso di perfezionare, interpenetrandole, le rispettive sfere simboliche. Si tratta allora di un passo (storico) fatale, senza ritorno, se "l'arte e i valori morali di cui è depositaria si rivelano [in Timone] casi estremi ed emblematici della soggezione di ogni cosa alle regole e alle dinamiche dello scambio, in cui tutto si relativizza, venendo a mancare un criterio oggettivo che renda il valore una misura costante, stabile delle cose"; e, d'altra parte, se la possibilità che il teatro deroghi dalle regole del mercato, immaginando finali alternativi di riscatto del soggetto sull'oggettività di quelle regole e dinamiche, diventa un "gioco tanto raffinato quanto storicamente ininfluente, laddove il teatro si distacca progressivamente dalla rappresentazione della realtà (...) per divenire puro artificio, divertissement". Lo studio è condotto con un commento passo per passo delle opere, di sicuro vantaggio didattico. ■ marenco@tin.it F. Marenco è professore emerito di letterature comparate dell'Università di Torino