Esistono ancora le letterature nazionali? Integrare il locale con l'intertestuale di Franco Marenco Trovo due libri sul mio tavolo, Catena umana di Seamus Heaney (ed. orig. 2010, trad. dall'inglese di Luca Guerneri, pp. 178, € 15, Mondadori, Milano 2011) e La donna sulla luna di Carol Ann Duffy (ed. orig. 2008, trad. dall'inglese di Giorgia Sensi e Andrea Sirotti, pp. 196, € 19, Le Lettere, Firenze 2011), insieme a un documento di Enrico De Angelis, insigne germanista, che mi invita a riflettere sul carattere nazionale delle letterature, e sul suo possibile deperimento. La questione si pone in questi termini: accanto e oltre la lingua, riusciamo ancora a indicare una distinguibile italianità nella letteratura prodotta in Italia, o germanicità in quella prodotta in Germania ecc., o non sono queste letterature sempre meno legate a caratteri specifici, e più accomunate da caratteri e scambi sovrana-zionali, sovralinguistici, da collocare in un contesto più ampio di quello in cui vengono tradizionalmente sistemate? È una questione che merita qualche attenzione, e i volumi qui presentati -ambedue scritti in inglese, ma da poeti che si fanno portavoce di culture certo non egemoniche, anzi minoritarie - ce ne offrono l'occasione. Non ho difficoltà a definire Heaney il maggiore poeta in lingua inglese vivente. Ma Heaney è irlandese, legato alla sua terra al punto di ripercorrerne continuamente la molto specifica e molto orgogliosa storia culturale, in un lavoro di scavo nei miti, nelle leggende, nella vita comune di ogni giorno, nei gesti e nei sentimenti che uniscono la comunità, del villaggio come dell'isola - la famiglia, l'amicizia, la solidarietà nella disgrazia e sul lavoro, la reciprocità dei doveri - e imperniando le sue brevi narrazioni sugli strumenti più ordinari e umili, gli utensili degli ambienti della sua personale esperienza - fattoria, stalla, carbonaia, veicoli rurali e urbani, e poi terra "morbida alla pala", erba, zappa, fuoco nel caminetto ("il suono che produce / per me vale più / di qualsiasi allegoria"). Questi gli ingredienti di tante minime epopee contadine, familiari, tutte o quasi rigorosamente in terzine: non a caso il suo componimento più famoso, Scavare, è una metafora protratta che sovrappone il lavoro della scrittura al lavoro cui erano abituati il padre e il nonno, vangare la terra nelle torbiere. E poesie non meno esemplari compaiono molto ben tradotte in questa raccolta: quella che dà il titolo al volume, Catena umana, prende spunto dalla serie ritmata di gesti e voci che accompagnano il carico dei sacchi di vettovaglie - mentre "i soldati sparavano alto sulla folla" - per arrivare ai significati più generali della ' 'catena', dallo schieramento a sostegno di una rivendicazione popolare, alla manifestazione di solidarietà internazionale, ai girotondi di protesta, fino a illuminare in un solo gesto il comune destino dell'umanità: "Nulla ha superato / quel rapido sgravio, di fatica più vera ricompensa, / un lasciare andare che mai più tornerà. / Oppure sì, una volta sola, la volta buona". Dunque, un poeta quanto mai "locale", fedele a una gamma di immagini e spunti tematici molto caratterizzati, che però tendono a coinvolgere contesti nient'affatto limitati, né pose solo stanziali. Non si tratta soltanto di un'espansione metaforica: l'allargamento degli orizzonti avviene portando in gioco i grandi modelli letterari, i moderni (Hardy, de la Mare) quanto i medievali (San Columba, apostolo dei Pitti, o l'onnipresente Dante) quanto gli antichi (Virgilio). L'esempio più cospicuo lo si trova in II campo in riva al fiume, dove la rivisitazione di luoghi e nomi familiari dell'Irlanda - il fiume Moyola, Back Park, Grove Hill ecc. - assorbe e si confonde con la visita di Enea all'Elisio, il nucleo filosofico dell'Eneide (VI, 704 sgg.), per incontrare "anime alle quali per fato si devono nuovi corpi", un'operazione che Heaney rifà sua nel suo mondo, per il suo mondo, "con parole sue" -cioè innestando nel proprio sillabario di memorie la traduzione dei grandi versi virgiliani. E un'ulti- Un libero vagabondaggio intellettuale di Stefano Moretti Gianni Celati, Conversazioni del vento volatore, € 14, pp. 170, Quodlibet, Macerata, 2011 Cos'è il "vento volatore" che attraversa e solca le pagine del nuovo, prezioso libro di Gianni Celati? La risposta è già nella premessa: volatore è quel vento che ci sospinge in direzioni inattese, con mosse imprevedibili, su orizzonti e argomenti che non ci saremmo mai aspettati di affrontare e che la vita, nella sua infinita e comica varietà, ci mette tra i piedi. Questa "spinta atmosferica che investe le parole" è in sostanza un modo di guardare il mondo, gli spazi e la vita, un bisogno insopprimibile di raccontare che tiene tutte queste cose, per qualche misterioso motivo, legate insieme. Su questi legami, sul loro indissolubile valore antropologico, torna costantemente Celati nelle diciotto "coversazioni" che Ermanno Cavazzoni e Jean Talon hanno scelto di farci riascoltare. In ciascuno di questi brani sinora dispersi e che, pur essendo raccolti in antologia, non perdono il loro essere "roba sparsa, trovata per strada o sognata di notte", tornano alcune idee fisse, amorevolmente ossessive, e alcune esperienze che hanno reso Celati il maestro indiscusso del vagabondaggio intellettuale e di un certo modo raccontare, partendo dalla sua Brighton, i silenzi e gli abbandoni della nostra pianura padana. Anzitutto Londra, dove scoprì Don Chisciotte, e gli Stati Uniti, dove l'antropologia divenne un ramo della letteratura. Da quei viaggi, rispecchiati nelle narrazioni che intessono la pianura padana, nasce l'idea che l'arte abbia senso solo se in perenne e instancabile contraddizione con le leggi e le furberie del mercato. La letteratura può cercare di starne fuori se mantiene il suo essere una forma di conversazione: non importa se sia il cólto interloquire di Calvino, Ginzburg e Ghirri, o il parlottio rubato nei bar di provincia, sui margini delle strade statali, nelle invenzioni di chi racconta senza aver troppo studiato la parte. Ecco un altro carattere del vento che sospinge l'arte di Celati: quest'aria non ama solo "attraversare i deserti" dove gli altri non vanno, ma è inquieta, odia il professionismo perché uccide la spontaneità del racconto, perché come i professori, i letterati e i registi del grande cinema vuol sempre spiegare tutto, anche quello che non si può e non si deve. Per questo Celati, che è stato e continua a essere professore, scrittore e regista, è prima di tutto uno spirito libero, "un filo elettrico che porta una corrente sempre collettiva" che obbedisce prima di tutto alla poco remunerativa legge della fantasia. Come in Steamboat Bill, Jr. un soffio d'aria libera Buster Keaton dal pomposo cappello che gli è stato imposto, il vento volatore scombina la rigida ipocrisia della credibilità borghese e ci rivela che uno scrittore, di per sé, è poca cosa. Per Celati, la letteratura, il cinema e arti sono il prodotto di un intero popolo e delle sue infinite invenzioni. Al più, nascono da una "banda di sognatori" erranti, migranti nello spirito e a volte anche nella vita. Oggi, mentre quasi un terzo della popolazione mondiale vive lontano da dov'è nata, sentiamo ancora parlare di letterature nazionali, come se gli stati nazionali fossero cinti da invalicabili pareti linguistiche, economiche e culturali, come se Goethe, parlando di Weltliteratur, avesse solo preso un abbaglio. Ecco, il vento volatore di Celati fa schizzar via il cappello a tutti quei seriosi intellettuali che s'ostinano a rifiutare "una letteratura senza territorio, con frontiere erranti, con autori per lo più esuli ó espatriati". ma ripresa ci interessa, quella del pascoliano Aquilone, non più occasione di elegia ma solo di gioiosa sorpresa per l'improvvisa impennata della "nostra caudata cometa": un antico "sì, gli aquiloni!" cui risponde nell'oggi il libero, assonante "And yes, it is a kite! ". Allora, è ancora così "nazionale" questa poesia? Non commetterò certo l'ingenuità di addebitare il sovvertimento di tale principio alle citazioni che si susseguono in questa raccolta, ma è chiaro che quello sconfinamento spaziotemporale è in Heaney una cosa programmatica, ed è chiaro altresì che quel dilagare del sistema letterario in un'identità poetica singolare e appartata, fino a diventarne parte integrante e plurivoca, non è cosa rara oggi, basti pensare a poeti come Zanzot-to, Milosz, Walcott, in cui i modi e le figure della vita agreste - "pastorale" si sarebbe detta un tempo - non cessano di appoggiarsi a un'imponente tradizione che sorpassa ogni localismo in nome del dialogo fra tutti i mondi della poesia. Diverso è il caso di Carol Ann Duffy, poetessa e drammaturga scozzese cresciuta nel Nord dell'Inghilterra. Il suo localismo è quello delle grandi periferie urbane, guidato però dalla caratteristica principale della sua scrittura, l'eclettismo, cui non deve essere estraneo il titolo di cui è stata recentemente insignita: Poet laureate, l'incaricato di componimenti ufficiali, commemorativi o cerimoniali (immancabile quella su William e Kate). E infatti: una miriade di metri e di temi, tutti filtrati da una lingua piuttosto semplice, popolare (anche questa ben tradotta), ma ambiziosa di improvvise licenze: i dolori della guerra, il ricordo dell'insegnante morta, la gioia del dono, l'estasi d'amore, la psicosi della violenza, la perversità dell'uomo, la femminilità nelle mitologie antiche e moderne, la dolcezza della maternità... come occasioni per il pirotecnico - e spesso lezioso - gioco delle parole. Duffy _!_____stessa, in un'intervista, si è distanziata da Heaney i cui versi sarebbero plash (come tradurre? direi "schizzi d'ingegno"), mentre lei preferisce la parlata piana, ma strutturata "in modo complicato". Quanto di questo sia poi realizzato lo si vede in versi come "Un enorme uccello d'argento, / un bacio sul labbro del vento, segue la barca", oppure "Greche di luce sul fiume. Aria in lacrime", e in cento altri esempi di mediocre sensazionalismo, che sembrano adattarsi a un pubblico disabituato alla lettura (non a caso le sue poesie sono parte dei programmi scolastici). Non manca la vecchia filastrocca messa in tensione con la modernità, come nella poesia che dà il titolo alla raccolta: "la donna sulla luna" è la controparte moderna (femminista) dell'"uo-mo" che la cultura popolare britannica tradizionalmente ravvisa nella faccia - cioè nelle "macchie" - del satellite. Ora quella donna lamenta lo scambio di genere subito - la confusione espressa con le parole intraducibili di una caotica nursery rhyme, di cui i traduttori avrebbero dovuto avvertire il lettore - e "guarda e guarda", e inorridisce vedendo ciò che donne (e uomini, suppongo) hanno fatto della vecchia Ter- ra. Questa è dunque una poesia "locale" solo in apparenza, che resta ancorata nel fondo della nazionalità. La sua scrittura - compresa la vaga-rivendicazione femminista - rimane paradossalmente lontana dalla modernità (la farei pre-Eliot, pre-Freud, pre-Barthes ecc.). Il suo provincialismo non è geografico, ma cronologico: se la vera misura di Heaney è l'intertestualità senza confini, la vera misura di Duffy è l'eclettismo nei confini della tradizione. Al mio amico De Angelis consiglierò di leggere l'uno piuttosto che l'altra, chissà che non serva a puntualizzare il suo quesito. marenco@tin.it F. Marenco insegna letterature moderne comparate all'Università di Torino