sce a motivazioni strettamente personali. Dicevo pure che, se oggi mi risolvessi a fare ritorno su quelle mie vecchie pagine, non mi limiterei ad ag- giornarle con una serie di nuovi dati e a sviluppar- ne certi punti e a correggerne altri. Oggi, soprat- tutto, troverei modo per legare la mia osservazione dell'emergere e dello svilupparsi del tema lettera- rio qui sintetizzato all'esperienza personale che ha determinato il mio interesse. Perché, se il tema del- le letture pericolose ha stimolato tanto il mio inte- resse, è innanzitutto per il fatto che io stesso sono stato dedito a letture pericolose. A sedici anni, dopo una bocciatura per scarso ren- dimento scolastico, mi ritrovai a ripetere quella che allora si chiamava quinta ginnasio, con altri compa- gni e con un'insegnate nota per il suo rigore più or- todosso. Io la vedevo come una donna anziana, ma adesso non penso che avesse molto più di quaran- t'anni. Il primo giorno di scuola, ci assegnò un tema da svolgere in classe: dove- vamo rendere conto delle letture fatte durante l'esta- te. I miei compagni aveva- no letto soprattutto Piccolo mondo antico di Fogazzaro e I malavoglia di Verga, co- me lei aveva consigliato di fare, e tutti si dicevano en- tusiasti di tali romanzi. Quanto a me, mi rimane un ricordo assai preciso delle letture fatte durante quel- l'estate ed esposte in quel tema: tutta una serie di tito- li di Frangoise Sagan - da Bonjour tristesse a Le piace Brahms?, da Un certo sorri- so a Tra un mese, tra un an- no -, oltre a Delitto e casti- go di Dostoevskij, Resurre- zione di Tolstoj, Ueducazio- ne sentimentale di Flaubert, LI età della ragione di Sartre, Lolita di Nabokov e - sen- za riuscire a finirlo, allora - Gita al faro di Virginia Woolf. il mio tema non venne commentato in clas- se come gli altri: fui chia- mato a parte, mi fu detto che non era il caso di porta- re i miei compagni a cono- scenza dell'esistenza di cer- ti titoli e mi fu domandato se ero sicuro che simili let- segnarmi. Tutto culminò con questo episodio. A metà anno, l'insegnante mi chiese di fermarmi al termine delle lezioni, quando i miei compagni si fossero allontanati. In tale circostanza a quattr'oc- chi, mi disse che, quella mattina, aveva notato fra i miei libri sotto il banco un volume che non era scolastico. Io mi affrettai a chiarire che si trattava solo di Furore, il romanzo di Steinbeck, chiestomi in prestito da una compagna, per liberarla dal so- spetto che avessi introdotto a scuola una copia di... che ne so... di Lolita, per esempio. L'inse- gnante non badò al titolo del libro, si limitò a dir- mi questo, con estrema calma e con estrema con- vinzione: "Se tu fossi malato, non daresti da bere a un tuo compagno servendoti della ciotola da cui hai bevuto, perché lo infetteresti. Allo stesso mo- do, per evitare di infettarli, non diffondere i libri che ti hanno infettato". E un discorsetto, questo, che mi ha segnato a fondo e con cui ho dovuto fa- re i conti a lungo, magari i conti con quelle poche frasi li sto facendo ancora adesso. Lei era un'inse- ture potessero comportare un profitto. A me, quelle letture avevano recato un grande piacere, le avevo fatte passando velocemente da una pagina all'altra e stentando a interrompermi, mettendo da parte il libro con la voglia di riprenderlo in mano il più presto possi- bile. E, sulla scia di quelle letture estive e di tante altre che risalgono agli stessi an- ni, avevo fatto una scoper- ta: che il mondo era qualco- sa di vasto e di complesso, qualcosa di molto più vasto e complesso della cittadina in provincia di Torino dove vivevo. Credo che que- sta sia forse la più bella scoperta che si può fare da giovani: che il mondo è vasto e complesso, che c'è la gioia e c'è il dolore, che si sta crescendo e che cre- scere mette a confronto con le realtà più contraddit- torie. Faccio ritorno all'insegnante fra le cui mani con- segnai il mio tema. Da quel giorno, iniziò una vera e propria lotta, a base di interrogazioni quotidiane per controllare il mio impiego del tempo durante la precedente giornata, convocazioni di mio padre per eliminare da intorno a me ogni libro che non fosse scolastico, pubblica riprovazione per scorag- giare i miei compagni dall'imitarmi. Senza dram- matizzare, dirò questo: ricordo quell'anno come all'insegna di una sofferenza cui non riuscivo a ras- Cappio materno di Anna Chiarloni Angelo Morino IL FILM DELLA SUA VITA a cura di Vittoria Martinetto, pp. 218, € 13, Merio, Palermo 2012 Questo è il secondo romanzo postumo di An- gelo Morino, rintracciato nel computer dopo la sua morte improvvisa a Torino nel 2007. Ambe- due autobiografici, i testi hanno al centro figure di donna. Ma se in Quando internet non c'era (Selle- rio, 2009; cfr. "L'Indice", 2009, n. 7) il noto esper- to di letteratura ispanoamericana riattraversava l'ordito letterario di una scrittrice cilena, Maria Luisa Bombai, ricostruendo la propria formazione intellettuale, qui Morino narra la malattia della madre, morta di cancro nel 1997, ripercorrendo al contempo, a blocchi alterni, la storia della sua fa- miglia, se pur variata e protetta dall'uso dello pseudonimo. Il romanzo è incompiuto e dobbia- mo all'attenta cura di Vittoria Martinetto la reda- zione finale che opportunamente richiama una struttura cara all'autore: quella di un testo binario in cui il corpo centrale si articola in "note": fram- menti narrativi di un sottocanto sospeso che con- sente di entrare nell'officina dello scrittore scom- parso. Nella ricostruzione a ritroso dell'epos do- mestico, che procede in terza persona ma attin- gendo al parlato materno, scorrono i fotogrammi della storia di tanti italiani: l'emigrazione dei non- ni nella Francia degli anni venti, il ritorno in un Veneto povero, percorso dai carrozzoni degli zin- gari provenienti dall'Est ("Chiedevano qualcosa da mangiare, pane, farina bianca o gialla, un pez- zo di lardo, fagioli secchi..."), poi quella guerra che si piglia i figli e quando non ammazza ne mu- tila le membra. In primo piano la figura di digni- tosa bellezza della madre, che andrà sposa in una valle piemontese a Rino, il partigiano sceso dalla montagna con tre dita storpiate, un uomo schivo e discreto, mentre di lei s'intravede il carattere in- domito, e più tardi i rimossi di una gioventù non goduta, compromessa in quel difficile dopoguerra da una gravidanza non voluta: "No, proprio non lo voleva, un bambino. Era il peggio che potesse accadere. Certe volte, anni e anni dopo, l'avrebbe raccontato a suo figlio. Che non lo voleva e che aveva pianto, disperata, quando aveva saputo di essere incinta". Se è vero che la psicologia richiama le figure del- la retorica antica, il caso di questo figlio riprende il chiasmo. Fin dall'infanzia il rapporto con la madre si divarica nella doppia sollecitazione tra cielo e in- ferno, tra il sonno rassicurante di lui dodicenne an- cora insediato nel letto materno e la condanna di un'urgenza erotica che il corpo adolescente gli im- pone. La speleografia degli intrecci confusi nelle prime pulsioni di un'inclinazione controcorrente è tracciata con mano soffice e salda. Dall'adolescen- ziale conquista di Susy, un primo corteggiamento dettato dalla norma sociale del gruppo, e peraltro umiliato dal cappio sarcastico della madre, alle se- grete scorribande di amicizie maschili nella cam- pagna intorno, fino alla consapevolezza del sedi- cenne di essere omosessuale, e dunque solo e sper- duto come in un "deserto". Nel presente del romanzo quel ragazzo è ormai un intellettuale affermato e il racconto passa a una narrazione in prima persona, quasi un diario al capezzale, con il cancro che giorno dopo giorno devasta il corpo materno. Di fronte alla progressi- va corruzione della carne tutto sembra disfarsi e lui, figlio unico proteso a lenire l'onda del dolore con la pietà della menzogna, cade al centro di un vivere grigio e torbido, penetrato dal grido conti- nuo di una sofferenza ribelle. Perché lei, "pronta a insorgere, ad aggredire, non solo verbalmente", si rivolta contro lo scandalo di una malattia che le si è insinuata dentro, e colpisce il figlio, fino a che i suoi scatti d'ira, quell'asprezza irritata, quel suo abbattersi risentito sugli arredi di casa la ribattez- zano nel suo "odio rabbioso, scatenato contro tut- ti". Sono pagine straziate, di eco tolstojano, che ri- chiamano La morte di Ivan Ill'ic. In preda a un do- lore lacerante e tenace, è la stessa madre, sull'ulti- mo ciglio della coscienza, a chiedere di morire. E non ci ha lasciato, Morino, senza confrontare il let- tore con l'angoscia dell'eutanasia. La madre è per lui radice di sangue, sesso e dolore - e con lei si chiude l'abbraccio, "in un nodo che sembra non doversi più sciogliere", con lei si spinge sulla soglia delle tenebre. Interrogandosi e lasciando a noi le risposte. Anche in questo senso il romanzo va oltre l'orizzonte di un testo incompiuto. Il passaggio dall'osservazione di un tema lette- rario a un pezzo della mia vita - che ho finora se- guito in questo intervento - non obbedisce solo a una volontà di indicare come un mio determina- to scritto fosse legato a una mia esperienza perso- nale. Oggi e qui, mira fondamentalmente a ripro- porre una domanda che, se è rintracciabile a li- vello di tema letterario, lo è pure nell'esperienza mia e in quella della maggior parte dei lettori di romanzi. Infatti, quanto ho raccontato di me cre- do che, con qualche variante, con maggiore o mi- nore intensità di come a me è accaduto di vivere, si tratti comunque di un'esperienza comune a tut- ti. Insomma, c'è questa pericolosità nel leggere romanzi? Ci sono romanzi che si possono leggere e altri romanzi che non si possono leggere? Ci sono romanzi che non si possono leggere se si è adolescenti, e che si possono leggere se si è adul- ti? È il caso di introdurre parametri normativi nelle letture? Esistono romanzi che rischiano di condurre a quell'annientamento che chiude le traiettorie di Don Chi- sciotte e di Emma Bo- vary? In base alle indica- zioni tratte dalla lettera- tura stessa, sembrerebbe che il pericolo - se mai è davvero esistito - non esista più. Perché, qualo- ra i censori avessero ra- gione e il loro spirito si diffondesse, il mondo fi- nirebbe per divenire un luogo senza più libri, uno spazio dove i libri sono stati tutti bruciati sull'e- sempio di quanto accade in Fahrenheit 451, oppu- re dove sono stati tutti rinchiusi in biblioteche sbarrate secondo quel- l'altro esempio, messo in scena da Questo giorno perfetto. Forse è questo l'autentico pericolo che - per una serie di motivi - stiamo correndo e allora, se tale è il pericolo che corriamo, ha motivo il fatto che il tema delle let- ture pericolose non trovi più posto nella letteratu- ra del nostro secolo. Concludo questa mia chiacchiera, che - ne so- no consapevole - è stata tutta all'insegna dell'ap- prossimazione. Io non ho risposte esaustive da fornire in merito alla do- manda se sia o non sia pericoloso leggere ro- manzi. Personalmente, ritengo che si può legge- re qualsiasi romanzo, a sedici anni come a cin- quant'anni, e, soprattut- to, che la gioventù non è un'età su cui far gravare troppe tutele. Inoltre, i nostri desideri sono an- gnante molto stimata, conosciuta per l'impegno assiduo nel suo lavoro. Quanto a me, si è definiti- vamente fissata nei tratti di quel personaggio che compare in tutti i romanzi strutturati secondo il te- ma delle letture pericolose: il censore, quel perso- naggio saldamente ancorato alla norma che inter- viene stigmatizzando i libri letti dal protagonista. E che nel Don Chisciotte è il barbiere, in Madame Bovary è la suocera di Emma, in Malombra è lo zio di Marina e via dicendo. Però, devo ancora dire che, se quell'insegnante trova la sua coincidenza fra i personaggi che animano il teatrino delle lettu- re pericolose, non altrettanto è accaduto a me, che non ho mai fatto la fine di Don Chisciotte né di Emma Bovary, per quanto lei non abbia mancato di prevedermela durante certi colloqui. tenori rispetto ai roman- zi che possiamo leggere e - ne sono convinto - non c'è romanzo che sappia far nascere un desiderio lì dove quel desiderio non esisteva già prima. Poi, ho l'impressione che un'insegnante come quella con cui mi sono a suo tempo scontrato avrebbe perlomeno vita diffici- le all' interno della scuola attuale, ammesso che riesca ancora a trovarvi posto. Adesso, qui con voi, preferisco credere che all'idea di una perico- losità insita nel leggere romanzi se ne sia sosti- tuita un'altra: quella secondo cui il pericolo è che se ne leggano sempre di meno. La qual cosa equivale a dire che al tema proposto da Cervan- tes e da Flaubert c'è sempre più il rischio che si sostituisca quello paventato da Bradbury e che - allora sì - si produca un vero e proprio annien- tamento, non più individuale: collettivo, questa volta. ■