N. 12 Idei libri del meseI ' I tali + L f, '0B;r «r_ L'acceso confronto tra due idee di fabbrica, di città e di politica yct^ -±-—----^ Trasformare una fabbrica per cambiare una città di Alessandro Leogrande * K> e i O so e s C® e £ SP w co Il nodo lavoro-salute-ambiente esploso quest'estate all'Uva di Taranto, dopo essere covato sotto i fumi e le ceneri per almeno un ventennio, non è solo specchio di una crisi produttiva dell'interno paese (cosa produrre? quanto produrre? come produrre?) e del suo collasso ecologico (in Puglia, così come in Campania o nella Pianura Padana). E lo specchio più generale, credo, di una crisi di sistema che attanaglia il Mezzogiorno e l'Italia intera. Taranto non è semplicemente posta davanti al bivio di una radicale crisi industriale. Intorno a essa sono completamente saltati il sistema della rappresentanza politica, l'interpretazione delle questioni, la possibilità stessa di coniugare in processi sempre più avanzati, sempre più liberati, il diritto al lavoro e quello alla salute, contro le pretese del profitto privato. Sul n. 11 de "L'Indice", nell'intervento intitolato Taranto: le narrazioni di una città, Girolamo De Michele mi dà dell'"intellettuale liceale" incapace di comprendere la città e le proteste di chi sostiene la chiusura tout court della fabbrica, di chi nell'agosto scorso è arrivato persino a interrompere una manifestazione sindacale (attaccando direttamente Landini come "servo") sulla base di tale assunto: chi difende il lavoro di fabbrica (beninteso, volendolo trasformare da cima a fondo) sta difendendo l'esistenza della fabbrica stessa, e quindi è automaticamente asservito al padrone. Dico subito come la penso. La tragedia di Taranto non è solo nell'ecatombe ambientale. E anche in un gorgo vischioso di disoccupazione, violenta recessione, nuova emigrazione, crollo delle prospettive che soffoca l'intero Sud. De Michele e il fronte più- oltranzista del cartello no-fabbrica possono anche minimizzare la questione, ma il dato reale è un altro. Siamo di fronte a una radicale desertificazione industriale. E al Sud, con la scomparsa del lavoro di fabbrica sta scomparendo anche un complesso tessuto relazionale. La fabbrica non ha solo fatto di Taranto una città di immigrati dalle altre lande del Sud. E stata un fattore di crescita politica, almeno fino alla metà degli anni ottanta. Dopo il famigerato 1980 della marcia dei quarantamila, inizia (per altri fattori, ovviamente, ma in un clima del tutto simile) la crisi della siderurgia e la costante marginalizzazione dei metalmeccanici. Oggi siamo di fronte a un panorama di macerie. Non è accettabile "questo" lavoro, non è accettabile "questo" inquinamento. Ma se ne può uscire solo sostenendo la radicale trasformazione della fabbrica sotto il controllo dei lavoratori e dei cittadini, non la sua chiusura. Questa, oltre essere una soluzione in linea con la miglior tradizione del movimento operaio, è una strada possibile, dal momento che in altri paesi si produce già acciaio in maniera diversa. Possibile, va da sé, non vuol dire automaticamente realizzabile nell'Italia odierna... Invece abbiamo sul campo due posizioni identiche e contrapposte intorno al mito pre-moderno della irriformabilità della fabbrica e del lavoro di fabbrica. Da una parte il gruppo Riva (i cui vertici, in buona sostanza, tendono a dire: se non si dissequestra l'"area a caldo", possiamo fare solo un po' di maquillage); dall'altra - vengano essi dall'ambientalismo "nimby", o da una sorta di grillismo jonico senza Grillo - i sostenitori della dismissione totale degli impianti. Anche per loro la fabbrica è irriformabile. Pertanto pa- ventano, in linea con la destra locale e la parte più retriva e ambigua dell'imprenditoria locale, un improbabile futuro all'insegna del turismo e deH'"industria culturale" (!). In questa prospet- tiva, visto anche il precedente fallimentare di Bagnoli, non si capisce chi pagherebbe la bonifica degli impianti, dal momento che non la farebbero di certo i Riva messi in fuga, e quindi svincolati dal farlo. Di questo fronte no-fabbrica, una cui parte -pur pescando in un disagio reale - ha i tratti caratteristici del neopopulismo, Girolamo De Michele prova a ergersi a cantore. Ho sostenuto le tesi esposte sopra, e ho detto che oggi chi vede nella Fiom e nel sindacato (ancora più che nella dirigenza Riva) il nemico da abbattere non solo fa il gioco della non-trasformazione, ma - in particolare - si fa portatore di un'istanza tesa a segare ogni forma di rappresentanza in quanto tale, in maniera non molto dissimile dalla voglia di dissoluzione rintracciabile nei discorsi di Beppe Grillo. Il solo aver scritto, come ho fatto in un articolo sul "Corriere del Mezzogiorno", che oggi di fronte al collasso di Taranto ci sarebbe bisogno di un nuovo Raniero Panzieri contro l'astratto operaismo mostrato da Alberto Asor Rosa in un suo commento sui lavoratori dell'Uva, è stato recepito come indice di asservimento al Gruppo Riva... Ma un po' De Michele lo capisco: chi vive lontano da Taranto ormai da tanti anni, smarrendo nella distanza una gran mole di elementi concreti, fa di tutto per provare a stare in mezzo alla mischia (e a crearla all'occorrenza, tale mischia). La sua in fondo è una forma di partecipazione. Nel pezzo pubblicato su "L'indice" cita un mio libro di 13 anni fa, Il mare nascosto (L'ancora del Mediterraneo), stravolgendo il senso delle sue pagine. Per De Michele, l'aver parlato di "città vecchia" e "città nuova", le due parti su cui è sorta la Taranto novecentesca, significherebbe riprodurre la vecchia logica dell'intellettualità tarantina "cataldiana", populisticamente legata alle tradizioni. Non solo: se ben capisco, De Michele mi accusa di vedere con terrore (sulla scia di Savi-nio) la parte vecchia della città, la sua umanità, i suoi vicoli. E qui temo davvero per le sue capacità di lettore di libri. Un mare nascosto è un elogio (fin troppo pasoliniano, forse) della Taranto marginale e sottoproletaria contro quella dello sviluppo distorto. Allo stesso tempo, già allora, in quel libro, mi era ben chiaro che la categoria della dualità andava fatta esplodere, perché di Taran- Nel testo che ho scritto per l'"Indice" ho ripreso da Desiati la distinzione tra "una Taranto classica borghese", formatasi sui banchi del liceo, e il nuovo sguardo che viene dalle periferie e dalla provincia; e da Nistri la critica al paradigma delle "due città", per dire che Leogrande in quel paradigma che voleva far esplodere c'è invece ricaduto, anche grazie all'impropria categoria di "populismo" che usa oggi come un randello per demonizzare tutto ciò che non comprende o non condivide. Come il movimento nato a Taranto questa estate, contro il quale si è schierato con deformazioni e narrazioni ad usum Ilvae. Leogrande crede possibile un industrialismo "buono", riformabile, fondato sul lavoro, e che sul lavoro rifondi lo stato di cose esistente. Io credo invece che la Fabbrica non sia isolabile dalla storia tarantina, che ne abbia determinato i destini, che sia in relazione anche con il controllo malavitoso del territorio e della politica. E che dalla crisi si possa uscire non riformando, ma abolendo il capitalismo e lo sfruttamento su cui è fondato. Sarà una posizione estremistica, ma è la mia. Quanto a quel "De Michele vive lontano da Taranto": a Taranto, dove mi capita di tornare, ho una parte importante della mia famiglia, nella quale c'è chi è stato dipendente Uva, chi lo è tutt'ora, chi patisce sin dall'infanzia i danni alla salute; e chi dorme in quel cimitero dalle lapidi rosa che è la nostra Spoon River, portato via dalla Fabbrica o per omicidio sul lavoro, o per leucemia. Anche in nome loro rivendico il diritto di parlare di tutto ciò. Girolamo De Michele to ce ne erano ormai 3-4 cresciute a dismisura, e non dialogavano più tra loro. Quel libro parlava anche di Giancarlo Cito, il telepredicatore fascista che riuscì a farsi eleggere sindaco nel momento più buio degli anni novanta, alimentando un populismo anti-politico e anti-sin-dacale di cui ora - ahimè -vedo risorgere molti tratti. Ma soprattutto quel libro parlava della nuova Ilva, della nuova dirigenza privata, dei giovanissimi operai asserviti e impauriti. E stato forse il primo libro in cui sia stata raccontata la vicenda del re-parto-confino nella Palazzina Laf, in cui Riva aveva spedito alcuni dipendenti "recalcitranti"... Non so se l'Uva sia davvero disposta a investire in pochi anni i 4-5 miliardi di euro richiesti per trasformare il ciclo produttivo. Probabilmente è una cifra che trascende di gran lunga gli ultimi guadagni annui. Però continuo a credere che sia questa la soluzione che l'intera città deve esigere, facendone una questione politica nazionale. A lungo, abbiamo pensato che il lavoro di fabbrica fosse sinonimo di mera occupazione, utile a scacciare il dramma della disoccupazione. Ciò che però abbiamo smesso di pensare è che il lavoro di fabbrica potesse essere la base per un'ulteriore liberazione dalle miserie umane. Modificando innanzitutto le condizioni di quel medesimo lavoro, e poi i rapporti tra fabbrica e quartieri limitrofi, tra operai e dirigenza aziendale, tra classi sociali. Per giungere infine a cambiare la città, liberandola dalla secca in cui si è incagliata. ■ Una risposta