Storia L'addomesticamento del pensiero di Patrizia Delpiano Marco Cavarzere LA PRASSI DELLA CENSURA NELL'ITALIA DEL SEICENTO Tra repressione e mediazione pp. 263, €38, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011 Dedicato alla censura ecclesiastica nell'Italia del Seicento, il libro ne porta alla luce i tratti generali, sottolineando le peculiarità del secolo esaminato rispetto sia all'età tridentina sia alla fase settecentesca. Le tre parti in cui il volume è diviso testimoniano la completezza della ricerca, che considera istituzioni, censori e censurati. Al centro della prima parte sono i vari organismi preposti al controllo dei libri, dal Maestro del Sacro Palazzo, destinato via via a perdere funzioni, al tribunale dell'Inquisizione, la cui vittoria significò' un ampliamento dei poteri anche in campo censorio, dalla Congregazione dell'Indice, su cui si concentra l'analisi, alle magistrature secolari dei vari stati italiani. Ne emerge un quadro che vede il dominio della censura ecclesiastica, la cui azione fu sempre più circoscritta alla penisola italiana, escluse la Sicilia e la Sardegna, sottoposte all'Inquisizione spagnola. Nel corso del XVII secolo la censura non colpiva più i protestanti, tradizionali avversari della chiesa uscita dal Concilio di Trento, bensì nuovi nemici, vale a dire quanti elaboravano risposte eterodosse sul piano della filosofia, della politica e della scienza (basti ricordare la condanna di Galileo). Riguardo agli strumenti di diffusione dell'eterodossia, va detto che, se la censura poteva esercitarsi su ogni tipo di materiale a stampa (fogli volanti, ricette, immagini ecc.), a richiamare l'attenzione erano però soprattutto i libri, compresa la produzione minore. Nella seconda parte del volume, l'esame del mondo dei censori evidenzia la loro provenienza dallo stesso milieu culturale degli scrittori: a mutare, nel Seicento, fu in effetti anche la relazione fra i censori e i censurati. Pur nel quadro di un rapporto che restava asimmetrico, essi non facevano più parte di universi separati e contrapposti, ma intrecciavano fra loro "relazioni pericolose". I censori, spesso membri di congregazioni religiose, accedevano al ruolo grazie ai legami di patronage intrattenuti all'interno della curia romana; gli autori, dal canto loro, si servivano delle relazioni con le élite ecclesiastiche, romàne e periferiche, per tentare di condizionare gli esiti della valutazione delle loro opere. I censori erano insomma mediatori fra le ragioni della chiesa e le ragioni dei letterati, come prova tra l'altro una fonte Mandanti e sicari nell'età di Carlo V preziosa quale il diario del Maestro del Sacro Palazzo Raimondo Capizucchi e come provano le vicende, scelte a esempio, di Lodovico Sergardi e Francesco Bianchini, che, come molti altri, dovettero vivere la contraddizione tra il loro presunto ruolo di giudici severi e la loro appartenenza al mondo degli autori. La terza parte affronta il problema della censura dal punto di vista degli scrittori condannati, servendosi delle suppliche inviate da costoro alla Congregazione dell'Indice e facendo così emergere le forme di negoziazione ufficiale tra autori e istituzioni romane. Accanto alla condanna definitiva di un testo, esisteva infatti la misura sospensiva legata alla proibizione donec corrigatur, una formula che apriva la strada al-l'autoespurgazione: iniziativa volontaria, certo, ma che doveva tenere conto delle indicazioni fornite dalla Congregazione dell'Indice e che, per di più, non doveva essere resa pubblica. Non pochi sono poi i casi di autocensura preventiva, quella che avveniva direttamente nelle coscienze degli autori quale esito della presenza stessa dei tribunali della repressione (valgano gli esempi di Alessandro Tassoni, autore della Secchia rapita, pubblicata a Parigi nel 1621, e di Torquato Accetto, che in riferimento alla sua opera Della dissimulazione onesta del 1641 trattava di una scrittura "cicatrosa"). Il Seicento, dunque, non è l'epoca delle condanne senza appello e dei roghi di libri. Quella ricostruita con intelligenza dall'autore è invece una storia, non meno drammatica, di riscritture, autocensure e dissimulazioni, da cui trapela l'ampia deferenza verso le istituzioni romane da parte di molti scrittori, sottoposti a pressioni più o meno esplicite. Certo, non mancarono le resistenze a questo progetto di "addomesticamento del pensiero", prima fra tutte la dissimulazione, che significava difesa di spazi di libertà. Ma esse appaiono diffuse soprattutto tra le élite, secondo il tradizionale regime di doppia verità che permetteva ad alcuni (i libertini, per esempio) di vivere in un regime di libertà vigilata a patto però di praticare forme di nicodemismo e di mantenere segreta la loro verità. Questa commistione fra aristocrazia intellettuale e istituzioni repressive, di cui l'autore sottolinea con acutezza la complessità, non impedì affatto, ma anzi rese possibile, il funzionamento della censura a svantaggio dei gruppi che avevano un difficile accesso al mondo dell'alfabeto e della cultura (donne e ceti popolari). ■ patrizia.delpiano®unito.it di Paolo Simoncelli Stefano Dall'Aglio L'ASSASSINO DEL DUCA Esilio e morte di Lorenzino de' Medici pp. XVIII-420, €39, Olschki, Firenze 2011 Non c'è alcun ritratto di Lorenzino de' Medici. La damnatio memoriae che si è abbattuta sul tirannicida ha abraso qualsiasi possibilità di rintracciarne un volto, un profilo, con tutto che nel gruppo di esuli antimedicei non mancarono iniziative di celebrazioni classiche, anche iconografiche. Su quell'emulo di Bruto, che infiammò gli animi generosi dei repubblicani fiorentini (ma non determinò all'azione il loro capo, il banchiere Filippo Strozzi), la cesura della memoria storica ha determinato per contro un profluvio di manifestazioni letterarie, dalle tragedie alfieriane a testi teatrali (de Musset) fino a film approssimativi. Nella notte dell'epifania del 1537 Lorenzino era riuscito nel tirannicidio del primo duca di Firenze, Alessandro de' Medici. Da quel momento il suo destino personale fu segnato. Condannato a morte dal nuovo duca, Cosimo de' Medici, con tanto di ricca taglia sul suo capo, Lorenzino sarebbe stato costretto a fughe precipitose, a essere un mito scomodo per quanti si fingevano onorati di frequentarlo, fino all'esito scontato della vendetta. Lorenzino sarebbe stato raggiunto e assassinato a Venezia 1*11 febbraio 1548 da sicari medicei. Nessun magistrato veneziano avrebbe speso tempo - cosa inopportuna e rischiosa - a indagare su quell'omicidio politico. La storiografia medicea avrebbe chiuso i conti con "Lorenzo traditore", codificandone la morte come atto della giustizia del nuovo duca. Una robusta storiografia positivista, a base di documenti all'apparenza inoppugnabili, avrebbe sanzionato questa ricostruzione. Stefano Dall'Aglio, infaticabile e prestigioso studioso, smonta storia e storiografia plurisecolare sul "caso". Non un'organizzazione medicea aveva architettato la vendetta politica, ma quella imperiale: non Cosimo I, ma Carlo V, suocero dell'ammazzato Alessandro, era il mandante dell'assassinio. La sovrapposizione di due diversi piani operativi, entrambi con bersagli interni al gmppo di esuli antimedicei rifugiati a Venezia, ha provocato il cortocircuito ricostruttivo. Da Firenze si preparava, in quegli stessi mesi, un attentato al capo militare degli esuli, Piero di Filippo Strozzi, mentre la diplomazia imperiale seguiva le orme del tirannicida. Sarebbe tuttavia fuorviarne ridurre quest'ampia ricerca di Dall'Aglio (confortata da documentazione archivistica di prim'ordine) a una sorta di svelamento di un antico assassinio politico. Il volume offre molto di più: a cominciare dai protagonisti e complici di Lorenzino fino a oggi ignoti, alla ricostruzione di uno dei testi di maggior eco classica del Rinascimento, l'Apologia del tirannicidio, scritto da Lorenzino per difendersi paradossalmente dalle critiche dei suoi sodali di non aver provocato, dopo il tirannicidio, l'insurrezione antimedicea di Firenze, ma di esseme subito fuggito via. Proprio la molteplicità dei vari testimoni del testo, rimasto manoscritto per secoli, ha reso fino a oggi impossibile risalire all'archetipo. Vi riesce Dall'Aglio con un'analisi filologica e una ricerca archivistica che ristabilisce il testo originario, e la sua corretta datazione, correggendo un'infinità di storici autorevoli. Un volume, quindi, che penetra all'interno dei progetti politici del folto gruppo di esuli repubblicani con un'analisi e una documentazione straordinaria. L'appropriazione dei simboli di Angiolo Bandinelli Maurizio Ridolfi STORIA POLITICA DELL'ITALIA REPUBBLICANA pp. 223, €20, Bruno Mondadori, Milano 2011 P. Delpiano insegna storia moderna all'Università di Torino A seguito all'esito del referendum istituzionale del 2 giugno, l'I 1 giugno 1946 - giorno della proclamazione della Repubblica - diveniva "giorno festivo a tutti gli effetti civili". Come ricordò Giuseppe Romita, all'epoca ministro degli Interni, per la prima volta nella storia al Viminale "era stata issata la bandiera italiana senza lo scudo sabaudo" mentre al Quirinale "sventolava ancora l'altra bandiera". Un episodio cronachistico? Può darsi, ma, anche, assai forte su quel piano simbolico che è così significativo quando lo storico sa collocarlo al punto giusto. Ce lo ricorda Ridolfi in questo libro che intende dare "un contributo alla individuazione di indirizzi di ricerca per una possibile storia della politica nell'Italia repubblicana, prendendo sul serio i fattori costitutivi (alcuni) del 'modello repubblicano' italiano" e cercando di "tenere assieme gli aspetti culturali ed educativi, istituzionali e amministrativi, simbolici e rituali". Si susseguono così capitoli dedica- ti ai "vademecum elettorali" del dopoguerra, alle "immagini, simboli e patriottismo repubblicani", alle "culture municipali e spazi di governo regionali", alle "passioni ed emozioni, rappresentazioni ed immaginario" e infine alla "politica dei colori". Curiosità? Sicuramente, ma non solo. Può così diventare appassionante una "rivisitazione tanto dell'odonomastica quanto della toponomastica urbane", dai tempi in cui lo stato lasciava alle amministrazioni locali ("una volta avuto il via libero dal prefetto") ogni deliberazione in merito alla toponomastica, al successivo periodo fascista, quando la tutela dei nomi antichi era affidata al ministro dell'Istruzione Pubblica e l'autorizzazione per le nuove denominazioni spettava, burocraticamente, al prefetto, fino al secondo dopoguerra, quando "sul piano locale si ebbero forti spinte a riscrivere l'odonomastica" seguendo gli impulsi politici del tempo, mentre "la classe dirigente tese ad attutire l'impatto sociale e culturale del fenomeno". Insomma, dai nomi legati alla storia paleoliberale o sabauda e poi al mito fascista si passò a quelli scaturiti dall'epopea re- sistenziale, con dibattiti e scontri anche accesi, testimonianza di passioni irrequiete e ondivaghe. Non le abbiamo vissute ancora di recente, nei tira-e-molla delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia? Così come non è ancor oggi ricca di significati, di scontri non solo verbali, di colpi bassi, di esiti giudiziari, l'appropriazione dei simboli politici da parte dei vari soggetti che si agitano sulla scena? "Nella democrazia repubblicana il linguaggio dei simboli divenne una parte essenziale nel processo di costruzione del consenso politico ed elettorale". Per dire: "Il recupero del tricolore patriottico, promosso dalle forze della Resistenza, assumeva il significato di un richiamo ad un'altra Italia diversa dal fascismo". E si cita Giorgio Bocca che racconta: "La prima falce e martello che vidi fu nel gennaio del '43 su un marciapiedi di Corso Dante a Cuneo [...] Una piccola falce e martello nera nel candore della neve". Tra rievocazioni e puntigliose ricerche, si snoda questo libro singolare, che intende rivendicare un suo onorevole posto nella "storia politica", così controversa e contrastata, della "coniugazione tra istituzioni repubblicane e identità nazionale". ■ bandinelligtiscali.it A. Bandinelli è scrittore e pubblicista