Ri e a © Vittorio Coletti ed Elisabetta Fava Recitar cantando, 47 Camilla Valletti Effetto film: ]ane Eyre di Cary Eukunaga Francesco Pettinari Effetto film: Tomboy di Céline Sciamma ; N. 11 Idei libri del mese| 39 Recitar cantando, 47 di Vittorio Coletti ed Elisabetta Fava L? estate rossiniana è cominciata al Primar di Savona, all'aperto come vuole la stagione, con una magnifica Italiana in Algeri proveniente dal San Carlo di Napoli (regia di Roberto Esposito). Spettacolo bellissimo, liscio, arguto, divertente, con ottime voci (Antonella Co-laianni, la mezzosoprano che fa Isabella) e alcuni superattori (come Simone Al-bergini, il basso Mustafà), un buon direttore e una discreta orchestra. L'Italiana è la più divertente delle tre più grandi commedie musicali di Rossini. E la più settecentesca, non solo perché la più antica. Se, infatti, Cenerentola rivela, nel personaggio del titolo, malinconiche movenze preromantiche; se il tenore, il conte di Almaviva, nel Barbiere di Siviglia, ha spessori vocali nuovi, ben distanti dalle leggerezze timbriche di Lindoro (a Savona il promettente Edgardo Ro-cha), che perfino nel nome è tenore solo di belcanto, l'Italiana in Algeri è, in tutti i suoi personaggi e nel profilo delle loro voci, opera di puro gioco musicale. L'esecuzione di Savona ha accentuato opportunamente i momenti di caricatura e saturazione formale delle parti di Isabella o di Taddeo (ottimo Riccardo Novaro), stupendamente anticipati dalla scatenata ouverture. Come la trama, così anche la musica dell'Italiana non vuol dire altro che scatenamento delle forme, desemantizza-zione radicale, che il concertato del Finale primo esalta con i famosi "din din, era era, tac tà e bum bum", in cui si esibiscono i cantanti per significare che "va sossopra il mio cervello / sbalordito in tanti imbrogli". Qualcuno potrebbe compiacersi di trovare nell'Italiana preannunci risorgimentali quando il coro dei prigionieri nostrani intona "Quanto vaglian gli italiani / al cimento si vedrà" o Isabella sottolinea "Patria, dovere e onor". Ma dovrebbe ricordare che il primo e più alto canto filoitalico qui è un'esaltazione galante delle donne fatta dal capo delle guardie di Mustafà, "Le femmine d'Italia / son disinvolte e scaltre", lode e omaggio in puro cosmopolitismo da salotto settecentesco. Siamo molto lontani dal determinato ed eroico inno a "Noi, donne italiche, / cinte di ferro il seno" del battagliero soprano Odabella dell'Attila verdiano (in scena alla Scala a luglio, con voci magnifiche e regia demenziale di Lavia, di cui, per fortuna, la gente, in visibilio per il canto, non si è neanche accorta), vero emblema del patriottismo femminile italiano. Ma l'Attila, se non sottilizziamo troppo, è, delle opere di Verdi, quella più in stile ottocento risorgimentale, che la Scala ha opportunamente messo in scena nell'occasione dei 150 anni dell'Unità. LItaliana in Algeri è invece l'ultima manifestazione del Settecento giocoso, apolitico e spregiudicato. Ha un ritmo (specie nel primo atto, come al solito in Rossini) forsennato, questo sì incompatibile con la razionalità del Settecento; duetti magnifici (mezzosoprano vs tenore o basso); momenti di comicità pura (il cerimoniale della nomina a Pappataci di Mustafà, che, a Savona, viene imboccato da Isabella su un seggiolone da bambini); movimenti di scena (la cattura di Isabella, le minacce di impalare Taddeo) vorticosi; figure musicali deliziose e quasi astratte dal contesto. Solo il tenore ha modesta parte e per farla brillare servirebbe sempre Florez; anche in questo l'opera è figlia del Settecento, quando il tenore era ancora di poco peso, vocale e scenico, e una prima donna poteva essere più un'astuta mezzosoprano che una soprano ipersensibile. Seconda tappa rossiniana a Pesaro, al Rof, per il Mose in Egitto. La doppia vita è una costante dell'opera italiana. La stessa storia ha due autori (Il barbiere di Siviglia, Paisiello e Rossini); due redazioni diverse dello stesso autore (Macbeth, Simon Boccanegra di Verdi); due redazioni dello stesso autore in due lingue diverse, come il Don Carlos di Verdi o, appunto, il Mosè in Egitto di Rossini del 1818, antecedente italiano del francese Moi'se et Pha-raon del 1827. Il Mosè in Egitto è un'opera del Rossini napoletano, quando la tradizione culturale francese a Napoli era ancora forte. Ed è un capolavoro musicale da cima a fondo, tutto da gustare, anche per capire e sorprendersi meglio della svolta francese di qualche anno dopo. A Pesaro ha fatto molto discutere la regia di Graham Vick, che ha attualizzato l'opera nel conflitto arabo-israeliano di oggi, quando a vincere, più che gli dei rivali (e non parliamo dell'amore tra membri dei gruppi contrapposti), sono le armi e l'orrore. In genere diffidiamo di regie troppo incuranti dell'ambientazione originaria, e degli eccessi simbolistici e allegorici che comportano. Vick ne ha avuti, come quando ha fatto di Mosè un Bin Laden che autoregistra le sue minacce per la televisione o ha fatto circolare in scena, al guinzaglio dei carcerieri, prigionieri-cane tipo Guantanamo o ha gremito la platea di troppi figuranti insanguinati, con fastidioso scricchiolio di passi sul parquet dell'orribile (anche nel nome, ovviamente inglese!) Adriatic Arena. Ma, nonostante ciò, la sua regia ha retto, e come!; anzi, ha tenuto su la tensione drammatica anche nei punti in cui la musica la allentava nei sospiri degli innamorati al secondo atto, e, complessivamente, ha mostrato come il lontanissimo testo di Tottola e Rossini accetti una lettura così tragicamente moderna. Anche un passaggio del Mar Rosso in cui gli ebrei si aprono la strada a cannonate è molto appropriato. Forza dell'opera in sé, della sua musica sublime (specie nei duetti e concertati) e, purtroppo, anche della drammaticità degli eventi in corso (proprio quando eravamo a Pesaro sono ripresi gli attentati in Israele). Forse ne perde un po' l'afflato religioso (e in effetti la celeberrima preghiera "Dal tuo stellato soglio" non è stata il momento migliore), ma ne risulta esaltata la contrapposizione tra popoli, la cecità dei capi, il disperato cedimento alla logica della violenza, che poi, con bella trovata, resta minacciata, ma sospesa, non attuata, nel gesto finale di un bambino kamikaze arabo che va incontro a un gentile carrista ebreo, ma (almeno sul momento) non si fa esplodere. La concertazione musicale era affidata a Roberto Abbado, alla testa di una compagnia di canto affiatata e agguerrita, e di un'orchestra in stato di grazia. La partitura del Mosè in Egitto è un capolavoro assoluto, oscurata per troppo tempo dalla quasi omonima versione del Mosè, che in realtà è la ritraduzione in italiano, preparata da Calisto Bassi, del Moi'se et Pharaon, che, essendo suc- cessivo, veniva immaginato anche migliore, tanto da oscurare il fratello maggiore italiano. Non è vero, invece: sono due testi diversi, pensati per destinazioni ed esigenze diverse; ma c'è, in questo Mosè in Egitto composto per Napoli, una ricchezza non solo di idee musicali, ma di forme e di colori che mostrano la via dell'opera moderna anche trattando un argomento per molti versi "antico". C'è naturalmente lo stile retorico e sacerdotale di Mosè, non troppo simpatico nel suo continuo minacciare e punire, e tuttavia dotato di momenti indiscutibili di autorevolezza: non solo la preghiera celeberrima (aggiunta a posteriori), ma soprattutto i molti austeri declamati e le uscite profetiche, brevi e incisive, nutrite del linguaggio del Commendatore e di certi passi apocalittici del Requiem ("Tuba mirum", per esempio). Ci sono anche ansie umanissime, speranze, trepidazioni, dei singoli come della collettività: arie, duetti, concertati, cori con voci soliste, momenti di stupore generale, tutto si sussegue, legato da recitativi che meritano ormai la qualifica di ariosi o declamati drammatici, secondo i casi. Sembrerebbe una parata di tutto quel che l'opera può fare; ma inserita con la massima naturalezza dentro le esigenze della trama, con l'effetto di creare un continuo chiaroscuro che libera la vicenda dal rischio di una monumentalità eccessiva; le grandi scene di massa, con doppi cori in scena, ne acquistano in risalto e impatto emotivo. Per di più, Rossini non smette un attimo di sorprendere per la fattura stessa dei numeri musicali: ci sono momenti, come il quintetto "Celeste man placata", in cui una melodia di ariosità prebelliniana viene ingabbiata in un canone a cinque voci, prodigioso; o come il primo duetto fra i due sfortunati innamorati Elda e Osiride, o l'aria di Elda, in cui Rossini inanella idee musicali in un crescendo di bellezza, e riesce così a prolungare ogni scena rinnovandola da dentro. Emergono strumenti concertanti che sembrano aiutare il canto quando il personaggio sembra troppo affranto per trovare la parola ("Porgi la destra amata" di Elda disposta a sacrificare il proprio amore) o consolare i momenti di generale costernazione (l'arpa sola nello stupendo ensemble "Mi manca la voce, mi sento morir"); e la stessa diversità dei due duetti d'amore è testimonianza eloquente di questa varietà interna, che spezza ormai le convenzioni e rompe le simmetrie. Ci vuole naturalmente una compagnia di canto all'altezza, e questa era tale (citiamo almeno Sonia Ganassi come Elda, Alex Esposito come Faraone, Dmitri Korchak nella parte del tenore Osiride, a cui la tessitura acuta conferisce qualcosa di fatuo e inappagato che corrisponde benissimo al personaggio); su tutto, a unire questo caleidoscopio in una trasparenza di linee e incisività di accenti che inchiodavano alla poltrona, la direzione di Roberto Abbado, salutato da ovazioni che hanno messo d'accordo tutti. ■ lisbeth71Syahoo.it Vittorio.coletti®lettere.unige.it E. Fava insegna storia della musica alle Università di Torino e Genova e V. Coletti storia della lingua italiana all'Università di Genova