; N. 11 23 La lontananza è in noi di Luigi Marfè Mario Soldati AMERICA E ALTRI AMORI Diari e scritti di viaggio a cura di Bruno Falcetto, pp. CXXVHI-1816, €60, Mondadori, Milano 2011 Chi scende ai Murazzi di Torino, sul lato destro rispetto all'ingresso da Piazza Vittorio, da- qualche mese può trovare una lapide che recita così: "Qui il 17 marzo 1922 un giovanissimo Mario Soldati (...) trasse in salvo un coetaneo in pericolo di vita meritando la medaglia d'argento al merito civile". A quindici anni e mezzo, il futuro scrittore andava già diffondendo i primi segni di quella che più tardi sarebbe stata la sua leggenda di artista impulsivo e generoso, capace di agire, e di scrivere, sull'onda di un inesauribile desiderio di vita. Narratore, sceneggiatore, critico d'arte, Soldati ha saputo negli anni seguenti inventare se stesso proprio in forza di quel desiderio, così come un secolo prima Henri Beyle aveva inventato Stendhal. America e altri amori è il terzo "Meridiano" delle opere di Soldati, dopo i Romanzi (2006) e i Romanzi brevi e racconti (2009; cfr. "L'Indice", 2009, n. 4). Nel multiforme universo di diari e testi di viaggio compresi nel volume, a cura di Bruno Falcetto, il caleidoscopio del mondo diventa lo spazio su cui l'autore proietta la sua irrefrenabile brama di vedere, conoscere, sperimentare. Maestro nel dissipare la consistenza dell'io nell'attimo dell'immediato presente, Soldati-traccia un'originale anatomia dell'irrequietezza: l'emigrazione interrotta di America primo amore (1935); il distacco dalla religione di Un viaggio a Lourdes (1943); la concitata traversata in bicicletta di Fuga in Italia (1947); le vacanze in barca a vela di Fuori (1968); le accorate e divaganti note enologiche di Vino al vino (1969-1976); il soffuso disincanto di Addio diletta Amelia (1979); il commiato definitivo dai viaggi di L'avventura in Valtellina (1985). Il movimento come arte di rinnovarsi costantemente, di mutare visuali, di ricominciare daccapo: un'esigenza per Soldati così intima ed essenziale da dare ai suoi ricordi sostanza concreta, quasi fisica, e portarlo a sentire i luoghi visitati "come il monco sente l'arto amputato". Roland Barthes era convinto che i libri di viaggio andassero distinti in tre categorie: quelli di chi, come un turista, si reca in un luogo per pochi giorni; quelli di chi, come un emigrato, ci vive ormai da anni; e quelli di chi, a mezzo tra queste due condizioni, ci risiede per un tempo troppo lungo per sentirsi ancora forestiero e troppo breve perché il paese straniero diventi la sua nuova patria. La forza narrativa e la finezza morale di questi scritti dipendono almeno in parte dal fatto che Soldati amava raccontare esperienze di quest'ultimo tipo, durante le quali la lontananza ha il tempo di concedersi allo sguardo del viaggiatore in piena naturalezza. "Per conoscere una città non bisogna mai visitarla, ma soltanto viverci perlustrandola con un altro scopo", scriveva in questo senso, poiché solo così "tutto ci appare come per caso e conosciamo di colpo senza cercare di conoscere, parte viva della stessa vita". E quanto accade in quel libro giovanile e definitivo che è America primo amore. Nel novembre del 1929, vinta una borsa di studio per la Columbia University, Soldati si imbarcò per gli Stati Uniti, scommettendo con se stesso che sarebbe diventato americano. Dissapori con gli italianisti d'oltreoceano gli impedirono di consolidare la sua posizione universitaria; le sconfinate differenze tra la vita negli Stati Uniti e quella in Italia contribuirono tuttavia a rendere unica la sua esperienza: "Il primo grande viaggio lascia nei giovani, di qualunque levatura e sensibilità, un dissidio che le abitudini non possono comporre; precisa l'idea degli oceani, dei porti, dei distacchi; crea quasi, nella mente, una nuova forma, una nuova categoria: la categoria della lontananza; la considerazione ormai di tutte le terre lontane". Un viaggio iniziatico, un lungo inseguimento di sé, che si rivelò, come ogni primo amore, tanto fallimentare quanto formativo. Nel pigia-pigia del subway, tra le miserie del Bronx, alle luci di Times Square, la scrittura di Soldati si muove infatti in una dimensione che, sperdendo a migliaia di chilometri da casa, sposta le misure della distanza geografica sul piano immateriale dei rivolgimenti interiori: "La lontananza è in noi, vera condizione umana". Soldati tornò nei luoghi del suo primo viaggio soltanto nel 1973, quando venne invitato in California per tenere un ciclo di lezioni. Il racconto di quel ritorno, in Addio diletta Amelia, svela al lettore come con gli anni i viaggi divennero per lui l'occasione di movimenti anche e soprattutto nel tempo, fatui pretesti per rovistare tra i segreti più riposti della memoria. Da allora, il piacere di ricordare e quello di ripartire finirono per risolversi, nella mente del viaggiatore, in identica cosa: "Viaggiare, varcare gli oceani e i confini era un tempo tra le gioie più forti della nostra vita. Ricchi di questi esili, noi impariamo oggi il più difficile e il più lungo viaggio: quello del ritorno". ■ luigi_marfe@hotmail.com L. Marfè è assegnista di riceca in letterature comparate all'Università di Torino Narratori italiani Se il crepuscolo si fa insettuccio di Carlo Pestelli Tommaso Landolfi VIOLA DI MORTE pp. 317, €22, Adelphi, Milano 2011 Tommaso I,a» tini fi VIOI.A 1)1 MORTE 66 T a poesia, la sola / Libertà 1_/che è concessa al figlio d'uomo, / non mi fu amica: come farmi forte / e come vincere lo stuolo / delle fetide arpie? - / Così ho vissuto: / di servaggio in servaggio precipitato, / fino alla soglia della morte". Posta a metà libro, questa poesia è una delle tante, ma sicuramente tra le più indicative, per abbozzare un'indagine retrospettiva sul perché, dopo una fortunata e longeva carriera di narratore, Tommaso Landolfi decide di chiudere il sipario sul suo desco di scrittore con due raccolte di liriche. La poesia non gli è amica, ci dice, ma pure vi si appiglia, elevandola a unica, sola libertà. Le raccolte in questione sono Viola di morte del 1972 e II tradimento del 1977. La prima delle quali è ora ristampata da Adelphi: novità lietissima per i landolfiani già che la princeps vallec-chiana è introvabile e chi scrive queste note può testimoniare che in Piemonte, per esempio, ad usum del pubblico, ce n'è un solo esemplare, presso la biblioteca civica di Novi Ligure. Non spendiamo manco un minuto a cercare di incasellare quest'opera in uno dei micro-contenitori di genere: il Landolfi fantastico e dionisiaco o il cantore dell'intimità dei suoi lunghi diari, escludendo ovviamente il Landolfi teatrale, e questo perché la critica più avveduta ormai respinge la bi o tripartizione dei suoi scritti, preferendo piuttosto racchiudere il tutto-Landolfi in un opus continuum. Viola di morte è certamente un sudato bilancio di quella continuità espletata nella ricorrenza dei topoi, nello stile e nelle scelte lessicali in particolare. Mi riferisco all'amore anzitutto, sempre angoscioso nello scrittore campano, tormentato, inarrivabile, quinta essenziale di una "vita distrutta" dove la "passione è orribile" e gli amori appunto feroci, "immiti". Ma anche amore per le sue terre d'origine: è il caso di Sorvello, paese in cui ambientò l'inseguimento della Gurù di Pietra lunare. Il titolo stesso del libro, ambiguo in ossequio alla sua personale tradizione, fa pensare a vita (in attesa di morte) o forse all'atto del violare, viola la morte (già che lo stupro, dall'esordio del Dialogo dei massimi sistemi in avanti, si pensi a Ombre, è per Landolfi veicolo di pura salvezza), o per sbizzarrirci potremmo aggiungere un riferimento a uno strumento musicale probabilmente amato dall'autore (in vita discreto pianista), non fosse che per i non pochi riferimenti benigni all'arte delle sette note, per l'autore la più sublime. E questo perché? Anzitutto perché impalpabile, inscavabile, frutto di sensazione, di infatuazione istintive (Landolfi è un romantico a suo modo e tra i suoi padri putativi c'è anche il Novalis tradotto con altrettanta perizia rispetto ai russi), e in questo senso la musica è specularmente antitetica alla letteratura e a qualsiasi manifestazione di segno. La scrittura è fatta dalle parole ("parole vive, ma presto morte") le quali, sempre significando, zavorrate dalla loro ovvietà obbligatoria, ci rendono "schiavi", ché prim'ancora sono schiave esse stesse ("E vana la parola e non ci assiste [...] La parola significa. E ben questa è la sua morte"). E allora chi può assistere il cantore dell'impossibilità? Della vita-non vita ("Renitenza alla vita è il mio gran vanto")? Chi può dischiudergli un granello di speme ora che "il crepuscolo si fa insettuccio"? Forse "il dio di Rohrau", altrove "nostro signore di Rohrau", oppure "il gran dio di Salisburgo", rispettivamente Haydn e Mozart. Il lettore non si faccia confondere dalle prime due poesie, dove Landolfi sceglie due fuoripi-sta niente male: una prova d'autore dodicenne, Torna la primavera e la natura, datata 1920 (sic) e un accorato quanto scherzoso distico d'invocazione alle Muse nella figura del padre della lingua: Oh Dante, Dante! Gronda m. il paradiso. Dalla terza lirica, Bianchi, e non bianchi sì flutti, e non flutti, la sinfonia vera e propria esplode in tutta la sua intensità, dove il gusto della parola o, come ebbe a dire recensendo Landolfi, insolita Contini del "tartufo lessicale", non manca mai (la pozzanghera è la "troscia'"; la "battima", toscanismo, è la battigia) e il vivace d'una poesia a tratti di maniera, irta di en-jambement e allitterazioni, cede occasionevole passo all'adagio di brevi strofe d'amore vorticoso, di "cantare uterino", fino aU'"Erebo nebbioso" dove finalmente riposeremo in pace. Intercettare il sentire prim'ancora che lo stile di Landolfi è forse l'unica possibilità per scorrere Viola di morte senza cadere nel tranello scivoloso dello scrittore difficile. ■ carlo_pestelli@hotmail.com C. Pestelli insegna linguistica generale presso la Scuola superiore per interpreti e traduttori di Torino Il blog dell'Indice www.lindiceonline.blogspot.com Una mappa di Raffaella D'Elia Carla Vasio L'ORIZZONTE a cura di Massimiliano Fioretti, con un saggio di Francesco Muzzioli, pp. 163, € 10, Polimata, Roma 2011 Quando L'orizzonte viene pubblicato in prima edizione presso Feltrinelli nel 1966, la fisionomia della sua autrice ha già avuto modo di svelarsi nel romanzo breve La foresta e la fine (che tanto piacque a Vittorini) e in testi confluiti nel "Menabò" e nell'antologia del Gruppo 63. Ora che le edizioni Polimata ne propongono una nuova edizione, per la cura di Massimiliano Borelli e con un saggio di Francesco Muzzioli, è come se il lavoro di Carla Vasio potesse più nitidamente essere colto e messo a fuoco. Sono trascorsi quasi cinquan-t'anni dal 1966. Si è passati, fra gli altri, attraverso Come la luna dietro le nuvole, Laguna (Einaudi, 1996 e 1998), gli ultimi romanzi Labirinti di mare e La più grande anamorfosi del mondo (Palomar, 2008 e 2009). Sempre proponendosi attraverso una scrittura raffinata, intrattenendo con la realtà quel fortunatissimo rapporto capace di intercettarne la condizione piena di grazia e contemporaneamente di non fuggirne i lati oscuri, accettandone il mistero e rendendo lo scacco una tra le forme di conoscenza concesse e anzi preferibili. E il caso di La più grande anamorfosi del mondo, naturalmente, ma in generale di tutta la scrittura di Vasio, così incentrata sullo sguardo e le sue molteplici e multiformi declinazioni, nel suo prolungarsi e intrecciarsi a partire dall'immagine cinematografica e fotografica, entrambe amate e coltivate, rendendo la scrittura il mezzo con cui suggerire il reale e inoltrarvisi, recuperando la funzione disvelatrice del sogno, della fiaba; quella di Vasio non è narrazione, ma una mappa, della quale, come ha scritto Manganelli sul "Menabò 8", "ha la mentita freddezza, il potere sostitutivo, e un che di eguale e deforme, rispetto a ciò di cui è segno". E allora, era già tutto lì: nella ripresa sgranata di questa donna intenta a lavorare a maglia su una panchina, in attesa di un confronto sempre procrastinato con un uomo, dilatando il momento dell'attesa, mentre la sua figura si assottiglia e confonde con il trascorrere del tempo, scomparendo e ricomparendo, fra gli oggetti del passato, del presente, accanto a figure di uomini e di donne che mantengono il medesimo tasso di improbabilità e allucinazione, profilo lieve e potente di un io narrante tratteggiato nell'architettura di una trama esilissima, con protagonista lo spaesamento, il movimento apparente, un gioco di specchi sapientemente misurato, calibrato. E ora più di allora, questo orizzonte ha tutta l'aria di aver raggiunto le sue coordinate ideali, stagliato nella costellazione disegnata e prediletta da Carla Vasio. ■ raffadelia@virgilio.it R. D'Elia è scrittrice e critica letteraria