Maschio mancato di Francesco Pettinari Tomboy di Céline Sciamma, con Zoé Héran, Jeanne Disson, Sophie Cattarli, Francia 201 I Una rilettura vitale di Camilla Valletti Jane Eyre di Cary Fukunaga, con Mia Wasikowska, Michael Fassbender, Judi Dench, Regno Unito 201 I Questa era una scommessa quasi impossibile da vincere. Cary Fukunaga, nonostante i fondati pregiudizi negativi, con la sua versione cinematografica del romanzo Jane Eyre, è riuscito a leggere il celebre classico sotto una luce inconsueta. La romanzesca storia dell'oscura istitutrice fu uno straordinario successo di vendite e di critica già al suo apparire. Dal 1847 scrittori e poi registi agli albori della nascita del cinema hanno cercato di trarre da quella fonte altri romanzi e nuovi film. Non sono pochi i contemporanei, poi, che ne hanno inventato nuovi finali o che hanno privilegiato ora un aspetto ora un altro. Chi si è impegnato sul tenebroso Rochester, chi sulla pazza Bertha, tutti hanno percepito il fascino di una vicenda che ancora, prova ne è questo nuova elaborazione, possiede una straordinaria vitalità narrativa. Autori di best seller al pari di Zafon e Setterfiled hanno provato infatti a piegare Jane Eyre al consumo del grande pubblico, sfrondando le parti "troppo convenzionali" e mantenendo solo il sugo della storia. Con risultati molto scadenti purtroppo e meramente celebrativi. Piuttosto il cinema, pensiamo che addirittura Orson Welles vestì i panni del padrone di Thorfield Hall insieme a una delicatissima Joan Fontaine, e ha raggiunto buoni risultati. Non spregevole il film di Zeffirelli, dove una Charlotte Gainsbourg più smunta che mai congelava con i suoi grandi occhi uno William Hurt quasi irriconoscibile. Se Zeffirelli fu fedele alla trama, certamente Fukunaga ha preferito creare un personaggio davvero in contrasto con l'entourage dove controvoglia è costretto a vivere, radicale fino all'ultimo sospiro. Un'orfana in netto dissidio con un mondo che la nega, una giovane donna difficile da accogliere in società perché indissolubilmente legata alla sua personale verità. Charlotte Brontè, forse dallo spirito più diplomatico, nel suo romanzo smussò gli angoli, anche quelli dei più cattivi, mentre Fukunaga, quasi usando la ferocia di Dickens, li ritrae come repellenti, a cominciare dal terribile cugino per finire con la maledetta zia. Il regista giapponese ha trasmesso alla sua Jane un io volitivo, forte, mai domato, enfatizzando la voce in prima persona del romanzo. Il suo immaginario, la sua capacità di dipingere ciò che non ha mai visto ma che coltiva solo nella sua mente dal tratto visionario (i disegni che Jane mostra a Rochester sono enigmatici come un dipinto di Fussli...) ne fanno una vera eroina romantica. Alla ragion pratica, questa Jane dai tratti rotondi di fanciulla, sostituisce la passione, per quanto trattenuta, ma sempre a fil di labbra. E le interpretazioni di Mia Wasikowska (una scoperta di Tim Burton) e dell'astro nascente Michael Fassbender sono efficaci nel tenere sospesa la tensione fisica tra i due amanti. Lui sensuale come non è nel romanzo, seduttivo come una creatura notturna davanti a lei che si lascerebbe andare all'abbraccio agognato non fosse per un profondo impedimento morale. Con scenari di brughiera, natura selvaggia e arredi severi meno lussuosi rispetto a quelli descritti da Brontè, Fukunaga è debitore di pose e colori a Jane Campion, pur trovando una misura più polare e meno cervellotica. Da menzionare l'insinuante Judi Dench nei panni della direttrice di Thorfield Hall, una Mrs Fairfax materna ma non troppo. ■ A volte succede: tra le numerose proposte della stagione, si tratti di film commerciali o di prove d'autore, le sorprese più coinvolgenti arrivano da piccoli film, nelle sale per merito di distributori che promuovono prodotti destinati, troppo spesso, a rimanere nell'invisibilità. In questo periodo, questo discorso calza alla perfezione per Tomboy di Céline Sciamma, regista e sceneggia-trice, distribuito da Teodora Film. La regista francese, classe 1980, si era già fatta notare nel 2007 con Nat ss ance des pieuvres, presentato a Cannes, film che raccontava di una quindicenne ossessionata dal nuoto sincronizzato e attratta ambiguamente dalla prima nuotatrice del corso. Tomboy rimette in campo tematiche affini, incentrate su una bambina di dieci anni, l'età in cui il corpo è ancora acerbo, appartiene ancora di fatto all'infanzia, ma la mente è già proiettata verso il futuro, anche se tutto avviene in termini di gioco, e di regole interne al gioco stesso. Il film è stato presentato alla Berlinale 2011 dove ha conquistato il Teddy Award e al ventiseiesimo Festival Glbt di Torino, "Da Sodoma a Hollywood", dove ha ricevuto il Premio della giuria e quello del pubblico; da segnalare inoltre che, in Francia, è stato un buon successo anche al botteghino e c'è da augurarsi che anche da noi conquisti l'attenzione di un pubblico ampio, non solo di settore. La protagonista è Laure: è lei il tomboy del titolo, il maschiaccio, il maschio mancato: dalle prime inquadrature, prima per dettagli e poi nella sua interezza, si rivela il fattore che mostra in maniera inconfutabile l'evidenza su cui si regge la forza del film, e che permette da subito allo spettatore di sospendere l'incredulità: è il corpo di Laure (straordinaria Zoé Héran), e tutto quello che attiene alla perfomance del corpo, a imporsi, dalla gestualità al modo di vestire, dalle espressioni naturali alle smorfie: tutto presenta Laure come un tomboy, molto di più, per esempio, del fatto che abbia chiesto di dipingere la propria camera di azzurro o che sostituisca un laccio rosa con uno bianco. Il film parte dall'assunto che Laure si trasferisce con la famiglia, padre madre e una sorella più piccola, in nuovo quartiere di Parigi. Laure esce per incontrare il gruppo di coetanei che ha visto dalla finestra e, davanti a una ragazzina, Lisa, che le si rivolge con estrema naturalezza come a un maschio, quello nuovo della zona, Laure accetta con altrettanta naturalezza, e lo fa dandosi un nome proprio: da quel momento, si chiama Mikaèl: questa la scommessa di Laure, questa la sfida espressiva, vinta, del film. Il tempo filmico segue linearmente la durata di un'estate, tempo di vacanza, di permesso di andare fuori a giocare: e sono proprio i momenti dei giochi, le dinamiche e le convenzioni che mettono in atto nella comunità di bambini, quelli su cui concentra il film: giochi verbali, come "obbligo o verità", e giochi performativi, dove il corpo assume un ruolo centrale, dove Mikaèl deve dimostrarsi all'altezza della situazione, soprattutto per piacere a Lisa: quando si tratta di andare a fare il bagno al fiume, un pezzo di pongo infilato nel costume di cui ha tagliato la parte superiore - perché era da femmina - funziona benissimo, e addirittura tra Lisa e Mikaèl c'è 10 scambio di un bacio. Ma ci sono anche i giochi in casa, quelli con Jeanne, la sorellina -colei che incarna in maniera esilarante 11 puro femminino - e che sarà sua complice, anche quando scopre la falsa identità di Laure. Nonostante lo spettatore non possa che essere di parte nel sostenere il gioco di Laure/Mikaél, lo smascheramento finale è tanto ovvio quanto prevedibile; la finzione doveva pur avere un termine: Mikaèl picchia un bambino per difendere la sorella, la sua identità viene scoperta e dichiarata. Tutto si ricompone: Laure è pronta a tornare nei suoi panni, a cominciare da capo, ma con il suo corpo così come lo sente lei, così come lo vuole lei. Tomboy è un film realizzato con un basso budget, con una troupe ridotta, in soli venti giorni di lavorazione, eppure è un prodotto eccellente, un racconto di formazione aperto a tutti, anche ai bambini stessi. E altresì la conferma di un talento, per la maestria di una regia invisibile, leggera, ma altrettanto forte ed efficace, capace di catturare la fenomenologia dell'accadere e di affidare a questa soltanto il senso della storia, che arriva tutto, senza bisogno di psicologismi e di spiegazioni, e di confezionare così un'opera che risponde in pieno alla regola aurea dello showing don't telling. ■ fravaztinitghotmail.com F. Pettinari è critico cinematografico