Letterature Qualcosa di misterioso, morbido e profondo Manutentore precario di Norman Gobetti di Giacomo Giossi Elisabeth Filhol LA CENTRALE ed. orig. 2010, trad. dal francese di Maurizio Ferrara, pp. 125, €12, Fazi, Roma 2011 6 4 T~"\ alla gastronomia al nucleare la conver-X.Jsione non è facile". Questa frase, apparentemente ironica, descrive tutta l'inconsapevole drammaticità di una vita precaria, nel lavoro come negli affetti: una vita instabile il cui equilibro è sempre messo a rischio da un lavoro mai certo e in questo caso ad alto rischio. Dal banco gastronomico di un supermercato alla manutenzione di una centrale nucleare: questo è il percorso lavorativo di uno dei compagni di lavoro di Yann, protagonista del romanzo di Elisabeth Filhol, poco più di cento pagine secche e brucianti che raccontano la vita dei manutentori precari delle centrali nucleari francesi. Il romanzo accompagna di contratto in contratto Yann e i suoi silenziosi compagni di lavoro nelle varie centrali sparse in tutta la Francia. I lavoratori si accampano ai margini delle cittadine in villaggi vacanze o in roulotte all'interno di campeggi, come una tribù nomade. Il libro si muove tra un presente impalpabile, ma totalizzante, in cui gli individui sono ridotti a meri strumenti privi di ogni diritto lavorativo, e un passato nascosto oltre la coltre di fumo bianco e opaco di vapore acqueo, sempre davanti agli occhi, che esce dalle torri in cemento armato delle centrali nucleari. "Sull'etichetta scopro che c'erano vigneti a Tri-castin già cinque secoli prima di Cristo, duemilacinquecento anni di monocultura di gran fama, e l'atomo che in meno di trent'anni intasca la posta". Apparenza e realtà mutano di forma e consistenza; il vapore acqueo, come la nebbia, confonde; il paesaggio francese, agricolo e placido, non è altro che la labile etichetta superficiale, mentre attorno incombono rischi in grado di spazzare via ogni forma di vita, così come la vita in un villaggio vacanze non è che l'ennesima beffa di una società che trasforma i lavoratori in vacanzieri impossibilitati ad avere una quotidianità che non sia la farsa di una vita libera. Individui perennemente soli, costretti a trasformare il rischio del proprio mestiere in una forma di fuga da una vita da cui da tempo si sentono estranei. Un perenne purgatorio descritto con scrittura ferma e piana, una lunga sequenza di arrivi e partenze, orari e procedure, una standardizzazione del tempo che Elisabeth Filhol restituisce al lettore con la descrizione minuziosa dei tempi morti, quelli tra un lavoro e un altro, tra una procedura e un'altra. La paura della malattia e anche della morte, sempre in agguato, trasforma così 0 tempo libero in tempo morto, in cui i fantasmi vengono a far visita come in una danza macabra, l'inazione è l'unica reazione possibile: mutismo, perdita di coscienza. Lo stesso rifiuto, per sfinimento, di proseguire il lavoro nelle centrali si tramuta in una fuga senza spiegazioni ai pochi amici a cui non è dato sapere l'approdo. L'esplosione di Cemobyl fu dettata dall'instabilità del reattore, un'instabilità, sembra suggerirci Elisabeth Filhol, che oggi raddoppia divenendo anche sociale e anch'essa in grado di uccidere. Il libro si apre con il suicidio di tre manutentori: coloro che ogni giorno lavorano per mantenere alte le garanzie di sicurezza di una collettività da cui sono sempre più esclusi e ignorati. Perché i medici sbagliano di Michele Lamon Atul Gawande CHECKLIST ed. orig. 2009, trad. dall'ing di Duccio Sacchi, pp. 208, € 19, Einaudi, Torino 2011 lese Atul Gawande è un chirurgo statunitense, ricopre incarichi presso l'Organizzazione mondiale della sanità e possiede un indubbio talento di divulgatore. Tra i suoi maggiori temi di indagine, vi sono la fallibilità nell'esercizio della professione medica e i metodi per ridurla al minimo. Fin dall'interessantissimo esordio, Salvo complicazioni (Fusi Orari, 2005), Gawande ci spiega che i medici sbagliano, che nelle sale operatorie, negli ospedali, nei luoghi di cura più poveri e improvvisati, nelle cliniche all'avanguardia, o nelle maggiori istituzioni di coordinamento sanitario, ci sono esseri umani che svolgono una professione, e il fatto che tale professione influenzi direttamente la qualità e la quantità della vita non li rende immuni dal commettere errori, anche gravi. Perché i medici sbagliano? Quali tipi di errori commettono maggiormente? Le risposte sono molteplici, Gawande cerca di fornirle ai suoi lettori adottando un linguaggio accessibile a tutti, senza omissioni bensì con - rare doti - umiltà e onestà intellettuale. L'atto del curare, oggi, consiste nell'uti-lizzo di una quantità di farmaci, di macchinari, di procedure, di interazioni che lo rendono una pratica estremamente complessa (e quindi "instabile"), specchio ne sono il grado di specializzazione sempre più spinto da parte di chi esercita e le crescenti risorse richieste per l'aggiornamento. L'enorme mole di nozioni da padroneggiare e di operazioni da compiere, spesso in un lasso crucialmente breve di tempo, rendono assai probabile, addirittura naturale, dimenticanze e approssimazioni. Tralasciare un passaggio in una procedura può avere conseguenze nulle come innescare catene di eventi con esito tragico. Quasi sempre comporta un aumento dei costi. La lista di controllo, la chec-klist del titolo, nella sua apparente semplicità, influisce in maniera determinante sulla velocità e l'efficacia delle operazioni. Gawande ce lo dimostra, elenca cifre e studi, ma non dimentica la sua vocazione di narratore e riporta esperienze ed episodi emblematici, anche al di fuori delle pareti ospedaliere. Infatti le liste di controllo sono diffusissime in ogni ambito che richieda di far fronte a situazioni complesse: veniamo accompagnati a constatarlo nel cantiere di un imponente grattacielo, nella cucina di un quotatissimo ristorante, nella cabina di pilotaggio di un aereo. Ci viene svelato perfino perché il gruppo rock dei Van Halen esigesse che nel proprio backstage vi fosse sempre una ciotola di Smarties priva di confetti color marrone. Le liste di controllo, quindi, opportunamente progettate, guidano la routine e le situazioni anomale note. C'è un modo, comprovato, anche per migliorare la risposta agli imprevisti: la coesione del gruppo di lavoro. Il briefing, sia pure molto breve, al limite consistente nella sola reciproca presentazione, dà la percezione di operare con persone che hanno un obiettivo comune, e non con un asettico coacervo di nozioni specialistiche. M lamon@libero.it M. Lamon è poeta Murakami Haruki I SALICI CIECHI E LA DONNA ADDORMENTATA ed. orig. 2006, trad. dal giapponese di Antonietta Rastore, pp. 380, €22, Einaudi, Torino 2011 Kafka sulla spiaggia è il titolo di uno dei più fortunati fra i romanzi di Murakami (2002; Einaudi, 2008; cfr. "L'Indice", 2008, n. 9), ma potrebbe anche essere il titolo di questa collezione di racconti in cui le spiagge abbondano, e in cui abbondano corvi, scimmie parlanti, architetture da incubo e soglie pressoché impossibili da varcare. Eppure, per quanto vi si respiri un'atmosfera à la Kafka, i racconti di Murakami non sono kafkiani, se non altro perché i personaggi di queste storie (scritte fra il 1983 e il 2005) non rimangono, come l'agrimensore K., eternamente al di qua della sospirata soglia, ma a quella soglia si affacciano, e talvolta la varcano anche. Così, ad esempio, il protagonista di uno dei racconti più surreali del libro, Splendore e decadenza delle ciambelle a cono, si trova sì alle prese con tirannici corvi parlanti incaricati di pronunciare una sentenza su di lui (le ciambelle che ha cucinato sono o meno degne di essere mangiate?), però del loro giudizio finisce per farsi beffe: "D'ora in poi avrei preparato solo le cose che piacevano a me. I corvi potevano pure beccarsi a morte l'un l'altro e crepare tutti quanti". Simile il finale di Granchi, forse il racconto più bello, certo il più inquietante: una giovane coppia in vacanza a Singapore consuma per tre serate consecutive, con grande soddisfazione, squisite cene a base di granchi, seguite da amplessi lunghi e sereni, e da sonni tranquilli. La terza notte, però, accade un evento inatteso che cambia tutto, i granchi si rivelano diversi da quel che sembravano, e il protagonista, "avvolto da qualcosa di misterioso, morbido e profondo", prende una decisione di fondamentale importanza: "Ovunque fosse andato, con i granchi aveva chiuso". In quasi tutte queste storie a un certo punto avviene "qualcosa di misterioso, morbido e profondo" destinato a dare una scossa all'esistenza sempre un po' assopita dei personaggi. Si tratta di accadimenti che potrebbero essere semplici coincidenze, ma forse non lo sono. Emblematico è in questo senso Percorsi del caso, una sorta di manifesto di poetica, in cui l'autore entra esplicitamente in scena in prima persona fin dall'incipit ("L'io narrante, qui, sono io, Murakami, che ho scritto questa storia") per rac- contare "un paio di eventi 'strani' che mi sono accaduti in passato". Il punto, qui, sono le virgolette intorno alla parola strani. In che senso gli eventi che Murakami racconta sono "strani"? Si tratta solo di "incidenti che succedono", oppure esiste un "qualcosa" che interviene "facendo finta di essere una coincidenza"? Murakami è al suo meglio quando, evitando di rispondere a queste domande, tiene a freno la sua vena più grottesca, che a volte rischia di diventare un po' stucchevole, e rimane sul sottile crinale fra la banalità del quotidiano e il baluginare del mistero. E su questo crinale si situano molti episodi di questi racconti: la musica che risuona nella notte sull'isola greca dei Gatti an-tropofagi, l'inspiegabile nausea che per un intero mese attanaglia il protagonista di Nausea 1979, lo stupefacente concatenarsi di coincidenze in Percorsi del caso. Quasi sempre la banalità del quotidiano che i personaggi di Murakami si trovano a vivere è fatta di solitudine, e spesso all'origine di questa solitudine c'è un lutto da elaborare. E il caso dell'anziana donna di Hanalei Bay, che ogni anno si reca alle Hawaii per trascorrere tre settimane nella baia dove il figlio è morto aggredito da uno squalo; o del narratore del Settimo uomo, tormentato fin dall'infanzia dal senso di colpa per la morte di un amico travolto da un'onda anomala durante un tifone. Ma è come se la scrittura stessa di Murakami, e non solo i suoi personaggi, fosse pervasa da una sorta di luttuosa malinconia. La sua sintassi piana e vagamente ipnotica, il suo modo terra terra di spiegare le cose, il suo approccio alla realtà invariabilmente umile e disarmato ("Diversi fenomeni inspiegabili hanno messo qua e là colore nella mia vita quotidiana. Pensate che io li abbia studiati con attenzione? No, non l'ho fatto. Li ho accettati così com'erano con semplicità e ho continuato a vivere normalmente", dichiara in Percorsi del caso) trasmettono la sensazione che un'impalpabile velo di tenue tristezza ricopra ogni cosa. Senza però che l'autore ne faccia mai una tragedia. Al pari dell'investigatore dilettante di Un posto dove potrei trovarlo, infatti, Murakami non se la prende se il mistero su cui sta indagando sfuma lasciandolo con un pugno di mosche: "Io continuerò la mia indagine da un'altra parte, alla ricerca di una porta (...). Alla ricerca di qualcosa, in un posto dove potrei trovarlo". ■ norman.gobettiglaposte.net N. Gobetti è traduttore e consulente editoriale