N. 11 13 L......_ L'ossessiva contemplazione della realtà nell'opera della scrittrice recentemente scomparsa Una scrittura contraria all'enfasi di Paolo Di Paolo ^ Cono costretta a seguire con minuzia assoluta Ogli orari e le giornate di Giacomo per non perdere di credibilità", si legge in una pagina del romanzo E ultima casa prima del bosco (2003). È una dichiarazione di metodo e insieme una necessità, una costrizione, appunto, analitica, archivistica. Si vede perfettamente proprio in questo libro, che intorno a un archivio è scritto: la volontà di precisare tutto, il'materiale e l'immateriale, "le varietà del silenzio" e "i rumori mattutini: gli zoccoli delle domestiche e i tacchetti delle pantofole della signora, il rotolio di una o più palle, persino il rumore dei pattini a rotelle che veniva interrotto da schiaffi e da lacrime per riprendere due o tre minuti dopo, i richiami per la colazione a voce altissima". C'è, nei libri di Francesca Sanvitale (1928-2011), una somma di dettagli che quasi stordisce; l'occhio del narratore cattura, registra, contempla la realtà ossessivamente, come se dovesse sottrarle un segreto: "Girava intorno ai pensieri. Cercava di districarli, ordinarli, disporli con qualche coerenza. Ne abbandonava qualcuno per prenderne un altro. Quasi per parlare con i fiori e la pioggia, continuava a dirsi: ma la realtà, che cos'è la realtà?" (Che cos'è la realtà?, in Separazioni, 1997). Se è dono - come suggeriva un titolo del 1987 - sembra risolversi anche in condanna: "forse, per vivere, bisogna abbassare il livello di sensibilità". È possibile difendersi dal mondo esterno? Nel romanzo breve Verso Paola (1991) il personaggio che dice io prova a "ritirare" la percezione, a spegnere la vista. "Ore undici della notte verso il 14 agosto", "13 agosto 1986, ore nove di sera" (La realtà è un dono), "uno stranissimo pensiero che passò nella mia mente il 24 dicembre di due anni fa" (Separazioni), "il rapido per Paola, detto II Sannio, sarebbe partito da Roma alle 18,55" (Verso Paola), "domani, 17 maggio, giovedì, compiva gli anni" (.Einizio è in autunno)-. che cosa si può dire, del mondo, senza essere precisi? Senza archiviare perfino i singoli gesti, le gradazioni della luce, senza mettere a fuoco ogni visione, in quella camera ottica che per la scrittrice coincideva, più ancora che con la letteratura, con la nostra stessa mente (le 1 pagine di letteratura e realtà" raccolte nel 1988 hanno per titolo Mettendo a fuoco-, nel '99 esce Camera ottica). "Girò gli occhi" è una frase che torna nei libri come un punto di partenza obbligato. "Consideravamo qualsiasi particolare interessante": come in un quadro di Morandi lo sguardo sembra neutro ma non può esserlo. L'oggettività non esiste, è sempre "in seconda istanza": perché in ogni descrizione è comunque in gioco una coscienza, la personalissima "scena della mente" in cui tutto è compreso e riletto: "Per la prima volta Sonia vede il mare. Con quali sentimenti ed emozioni l'avrà visto? Guardo la madrepora azzurra accanto alla conchiglia carnicina, sul mio tavolo, che sono i reperti del mare. Come una poesia? Come il suo Olimpo? Come una materia nu-minosa che riporta indietro, attraverso un'antica nostalgia, al mondo materico e stupendo da cui veniamo e che a noi preesisteva?" (Madre e figlia, 1980). Giovanni Raboni, proprio per Madre e figlia parlò di1 un romanzo che esibisce con tremante, limpida audacia il segreto delle sue radici psichiche", evidenziando così un aspetto - quello appunto legato alla materia psichica, all'inoltrarsi nelle sue ombre -cui Sanvitale non rinuncia mai. Sino al romanzo ultimo, L'inizio è in autunno (2008), fondato su un misterioso parallelo tra chi "dissolve i fantasmi delle malattie mentali" - lo psichiatra - e quello del restauratore di affreschi sbiaditi dai secoli. Si dovesse fare un inventario delle suggestioni e dei temi di una scrittrice che sentiva i personaggi stessi come "temi", si direbbe anzitutto l'ordine cronologico delle occasioni vissute (con tutto ciò che di straziante comporta: "Ora, mormorò Emilio per affermare il momento in cui viveva"), l'acqua che tutto trascina (i detriti di noi e delle cose: la scrittura è un fiume, dice) e Paolo Chiarloni, Senza titolo naturalmente la ricerca della propria identità femminile, dell'essere donna; la custodia della propria memoria e dell'altrui, la necessità di confrontarsi con costanza, con "sofferenza desiderata", con il mito delle proprie radici. Ma su tutto, c'è una perizia da psicologa che cerca di portare alla luce le occulte ragioni e implicazioni di gesti minimi, che analizza Simona Minniti, Senza titolo quasi "ad alta voce la matassa ingarbugliata delle supposizioni, dei fatti e delle possibilità", definendone l'ordine e il livello di importanza. Nei frequenti "a parte" del narratore esterno - carichi di interrogativi e di rimuginii - si manifesta un'ansia di disvelamento e di chiarezza; un'ansia che talvolta quasi congela i racconti in un eccesso di cerebralismo. A quel "mondo borghese sempre solcato da insoddisfazioni, incertezze, lacerazioni" (Giulio Ferroni), Sanvitale chiede di schiudersi e mostrare le sue verità anche più dolorose e sgradevoli: gentilezze che nascondono disprezzo e repulsione; codici di comportamento "stilizzati" che lasciano solo intrawedere desideri perfino un bo' bestiali; solitudini feroci mascherate da caratteri all'apparenza sicuri e impermeabili. Una scrittura studiata e colta, mai sentimentale, a tratti volutamente, consapevolmente grigia (ma quanto più è composta, tanto più si riesce ad avvertire un'ansia che all'improvviso scuote la pagi- na, la sommuove internamente), questa scrittura rende per contrasto più violente certe accensioni dei sensi, fantasie erotiche, gesti cauti o goffi in camera da letto - "un'intimità da vecchi bambini"; un disgusto, tra Sartre e Moravia, che si infiltra negli atti dell' amore, facendo riaffiorare antichissime paure e tabù. Una strana, e cerebrale anch'essa, visiva sensualità: "Se le prendeva le mani guardava dito per dito le piccole falangi, le unghie poco curate, si godeva i difetti e lei faceva la stessa cosa. S'inoltrava negli occhi di lei mentre lei si sprofondava nei suoi. Era un piacere che non aveva .progetto. Fare all'amore significava alla lettera solo questo" (Eetà dell'oro, in Separazioni). Francesca Sanvitale è riuscita a ritagliarsi un suo spazio riconoscibilissimo nel nostro paesaggio letterario. Quello di un'osservatrice critica di storie e fatti, di vita privata e di vita pubblica, ancorata misteriosamente "all'alta tensione del presente", anche quando racconta una storia remota, e la fa prossima a sé, per certi versi "vissuta" (Il figlio dell'Impero, 1993). Capace di frequentare e coltivare anche il silenzio, di "scendere nel silenzio" come esperienza addirittura estrema, contrapposta al vociare indistinto e corrivo della contemporaneità, è stata a contatto con i grandi e piccoli maestri del suo tempo. Giornalista, critica finissima e volto di un'autentica televisione culturale, Sanvitale ha attraversato - appartata e però presente., con discrezione e rigore - un bel tratto di Novecento letterario italiano, dimostrando come davvero storia culturale e vita di un autore non possano districarsi, scindersi, ma procedano invece strettamente unite. "La vita e la scrittura - si legge in Camera ottica - crescono insieme e s'intrecciano. Dopo che oltre metà della vita se ne è andata in questo lavoro, non si possono più definire percorsi separati e capirci qualche cosa. Dove va luna va l'altra". Non ho avuto occasione di conoscerla bene. Però conservo una sua lettera bellissima di qualche anno fa. Ero uno studente universitario, cercavo la via della scrittura. Rispose con queste parole ai miei confusi interrogativi: "Non mi va di analizzare il contenuto della sua lettera perché non è riassumibile quel misto di percezioni, sensazioni che la letteratura dà, anche violente, la propria esperienza e, infine, il punto che sintetizza tutto: il bisogno di esprimersi, di cercare nel labirinto delle varie strade e sentieri, il bandolo che porta alla scrittura. Questo bandolo di solito non ha niente a che vedere con le fantasticherie ma piuttosto con la convinzione che se è quella la nostra strada va percorsa non metro per metro ma centimetro per centimetro, allontanando qualsiasi sgomento e rendendo produttive le incertezze, i dubbi e così via. La scrittura è contraria ad ogni enfasi, anche alla sua età, ed è più vicina ai tentativi, anche per burla, anche giocosi, anche sintetici, rigo dopo rigo; ha a che vedere con il carosello delle immagini che occupa la nostra mente. Sono loro che ci guidano. E ci si salva dal caos improduttivo affidandosi alle parole, lasciando che siano loro a indicarci quelle che abbiamo scritto per errore, che non ci servono, e sono pronte altre parole e via via infine il bandolo di ciò che vogliamo veramente comunicare o essere si fa più evidente. Forse comincia qui la vera fatica spesso immane che dura tutta la vita". ■ dipaolo.paolo®gmail.com P. Di Paolo è scrittore e dottorando di ricerca in italianistica all'Università di Roma 3 C3 so •io a e e CQ e o co o e # •K» e se tuo CO