; N. 11 22 Storia di un innocente di Luca Terzolo Alessandro Mari TROPPO UMANA SPERANZA pp. 74% €18, Feltrinelli, Milano 2011 alessandro mari troppo umana speranza E un libro che si prende in mano con cautela e con un certo sospetto. Cautela per la mole: più di settecento pagine. Sospetto per l'ambientazione risorgimentale, che fa temere un prodotto d'occasione, finalizzato al "centocinquantenario". Cautela e sospetto vengono però deposti già nelle prime pagine, quando entra in scena Colombino: un orfano non molto intelligente, paternamente accudito dal parroco di un paesino lombardo; un "idiota" si potrebbe definirlo, ó quantomeno (sempre alla russa) un "innocente". Afflitto da improvvisi mancamenti ed épistassi come reazione a qualunque turbamento o anche solo a pensieri di un minimo impegno, ha come principale incombenza quella di portare in giro per le cascine il concime quasi miracoloso benedetto dal suddetto parroco. "E arrivato il menamer-da!" è il grido festoso con cui viene accolto nelle cascine. E Colombino stesso nell'incipit del romanzo, ragiona che "Menar merda non è poi una mala occupazione; peccato, certo, non si fa". Nei capitoli successivi, si alterneranno con Colombino altri tre personaggi: il milanese Lisander, ritrattista e poi fotografo, il combattente sudamericano José (Giuseppe Garibaldi: ma qui il discorso si fa più complesso, perché in effetti più che di un personaggio si tratta di una coppia di personaggi; Aninha, ovviamente Anita nella nostra mitologia risorgimentale, non è assolutamente presentata come una figura minore, un "accessorio" dell'eroe) e Leda, agente segreto incaricata di spiare Mazzini a Londra. I quattro personaggi (uno praticamente "doppio" come si è detto) si muovono e agiscono a una distanza sempre più ravvicinata. Colombino, respinto dalla famiglia della sua amata Vittorina, parte dal natio borgo di Saccona-go in compagnia del mulo Astolfo (un vero personaggio, letterario come enunciato dal nome, "ma" commovente; soprattutto nella tragica morte) per andare a Roma, dal papa, dal quale crede di poter ottenere una sorta di liberatoria al matrimonio. Durante il viaggio, a Genova, incontra Leda e viene quasi adottato dal padre di Mazzini. Poi incontra Garibaldi e come soldato si dimostra pessimo combattente ma ottimo "soccorritore". Leda, fuggita dal Rifugio del Buon Pastore ("convento e prigione") di Roma, dove era rin- chiusa, viene soccorsa da un misterioso inglese che la istruisce nelle arti della spia e la manda a Londra a tenere sotto controllo Mazzini e gli altri cospiratori là residenti. A Londra entra in familiarità con "Pippo" Mazzini e quando questi parte per l'Italia (è il 1849, la Repubblica Romana) lo segue armata del fido bastone animato per vendicare l'assassinio del suo amante londinese uccidendo i colpevoli. Il primo dei quali viene eliminato a Milano, dove incontra il fotografo Lisander. E posa per lui, oltre a divenirne amante. Lisander, nato pittore ritrattista, membro della confraternita dei Romantici di Sbieco (molto bella la ricostruzione del milieu romantico-scapigliato milanese), capisce le potenzialità della fotografia e, con i soldi carpiti a una ricca amante, si lancia nel nuovo "business". Dalle ortodosse cal-lotipie presto sviluppa quelle che battezza erotipie o callopor-nie (foto porno, in sostanza) e inizia a fare fortuna. Fino a quando, in piene Cinque Giornate, si ritrova naturalmente a esserne il fotoreporter. Garibaldi, inscindibile come si è detto dalla amatissima Anita, per una lunga parte della narrazione si muove negli scenari salgariani del Rio Grande do Sul. E anche quando arriva in Italia si mantiene sempre un po' appartato rispetto agli altri protagonisti del romanzo, quasi a sancire un suo ruolo più alto. Anche se gli incontri e i dialoghi con 1' "innocente" Colombino sono schiettamente spassosi. Una costante solo apparentemente collaterale è l'attenzione dedicata agli odori: quelli della campagna e quelli delle città (Genova: basilico, chinotti, limoni, artemisia), nonché, presentissimi, quelli corporali ("l'odore ramato dell'epistassi"). Un'altra è la regolare felicità delle descrizioni delle scene di sesso (buccia di banana per tanti titolatissimi autori): quello che Mari con felice espressione chiama "l'urto dei pubi" è sempre raccontato con una disinvoltura che non esclude, anzi, la carnalità. Non tutto è perfetto, s'intende, nella trama (ad esempio l'incontro di Lisander con Verdi è un po' troppo forzato; e la lunga permanenza di Colombino nelle carceri di Genova e Savona è veramente troppo lunga e noiosa); ma in un tal numero di pagine la perfezione e l'armonia "totale" sono pressoché impossibili da raggiungere. E quello che va riconosciuto a Mari è il coraggio di osare; anche di esagerare. In ogni caso va assolutamente segnalato e messo in evidenza come l'autore mantenga sempre ad altissimo livello (ed è ciò che maggiormente qualifica il romanzo) il lavoro sul linguaggio, sul lessico. Dialettalismi, certo. E anche esotismi (ispanismi ovviamente nei capitoli "garibaldini"). Ma soprattutto tutta una serie di non meglio definibili "presenze" efficaci e fan- Narratori italiani Nel rettilario di Gianluigi Simonetti Paolo Sortino ELISABETH pp. 216, €19,50, Einaudi, Torino 2011 tasiose. lterzolo@utet.it L. Terzolo è lessicografo, è stato direttore editoriale Utet La cosa da non fare con Elisabeth, notevolissimo romanzo d'esordio di Paolo Sortino, è annetterlo al filone del non fiction novel, e più in generale alla vasta area del neo-neorealismo alla moda: nonostante le apparenze, e comunque lo si giudichi, questo libro va nella direzione opposta, che è quella della visionarietà e, per fortuna, dell'ambiguità. Certo, personaggi e vicende narrate sono autentiche, e fanno capo al celebre caso di Josef Fritzl, padre di famiglia austriaco capace di sequestrare la figlia diciottenne Elisabeth, di imprigionarla per ventiquattro anni nel bunker antiatomico costruito nel sottosuolo della sua villetta, di stuprarla un numero imprecisato di volte, di generare con lei sette figli, fino all'irruzione della polizia, nell'aprile del 2009. Ma intanto questo storia vera non ha nulla di verosimile, e ben poco di spettacolare: è talmente brutale e malata da consegnarsi al lettore senza cedere al glamour del "fatto veramente accaduto" nemmeno un centimetro del suo mistero. Se per parlare del presente Sor-tino ha scelto la storia di Elisabeth, lo ha fatto molto visibilmente per gli strati di senso che comprime, e insieme per la sua inossidabile incomprensibilità ("Poi tornava seria e piangeva, perché niente aveva senso"); quindi per la potenziale ricchezza strutturale del disegno, per la sua disponibilità a farsi apologo e mito. Difatti il libro si allontana subito dallo stile piatto del referto, per affidarsi invece al fantastico, nel registro della favola nera assai più che dell'horror o del thriller. Nel romanzo gesti sordidi o selvaggi producono conseguenze irrazionali, che ci abituano molto presto all'idea che in questa storia - vera - le cose accadano come per magia. Dopo le prime violenze, il corpo di Elisabeth "invecchia di mesi ogni ora"; presto arriva a mimetizzarsi con il cemento grezzo del bunker: "lei e la prigione erano fatti della stessa sostanza". Anni dopo il rapimento, l'identificazione tra la ragazza e la cella sarà completa e soprannaturale. Sono solo pochi esempi, sufficienti però per capire che non ha davvero senso limitare al perimetro della cronaca nera la gittata di un racconto che in definitiva parla non tanto di un crimine, sia pure inaudito, quanto di un mondo, coerente e completo, diverso dal nostro ma in comunicazione con esso. Il mondo in questione è angusto e miserabile, "fango e piscio in un rettilario", ma è anche un riassunto fedele del cosmo, un compendio di storia dell'umanità; diventa inoltre un "eden paradossale", teatro della seduzione e dell'ambivalenza. Mentre il padre carnefice, invecchiando, non può fare a meno di amare la sua vittima ("Se la penetrazione non era più possibile, poteva almeno aspirare a diventare lei"), la vittima stessa, diventando adulta, non può e non vuole sottrarsi alla ricerca di una reciprocità con il padre. Al ruolo di schiava sostituirà quella di padrona occulta; al suicidio o alla fuga la vedremo preferire la reclusione; alla negazione del carnefice opporrà la ricerca di una delirante simmetria: la famiglia "di sotto", incestuosa e clandestina, finirà con il duplicare quella legittima "di sopra" nel numero, nel sesso e perfino nell'ordine di nascita dei figli. L'idea di descrivere una "famiglia del sottosuolo" come degradazione dell'originale e insieme suo superamento è certo una delle più forti del libro, ma non è l'unica. Già in precedenza, più o meno verso la metà del romanzo, una parte della nostra coscienza aveva parzialmente e miracolosamente dimenticato le torture, lo stupro, l'incesto: un po' perché l'autore ci spinge a curiosare altrove, nella routine del lager; un po' perché ci accorgiamo del ricamo mitologico che si cela sotto un'oscenità così intensa. Poco per volta ci scopriamo a contemplare insieme a Elisabeth la mostruosa, commovente novità di quel che sta nascendo. "Il nostro mondo è più grande di qualsiasi cosa, persino del mare e del sole", afferma uno dei figli di Elisabeth, dopo averla baciata sulle labbra, "come aveva visto fare nei film". Sono i bambini del bunker, nati e cresciuti in cattività, che regalano al lettore le indicazioni più preziose sulla nuova razza, fino a suggerire che la loro esistenza da cavie in qualche modo ci riguarda, che la loro covata allude alla nostra. La cantina in cui vivono è il luogo in cui si mescolano da un lato le forze più arcaiche dell'agire umano (una fallicità lineare e distruttiva, una morbosa, bifida fertilità); dall'altro ipotesi di un futuro in cui segregazione e comfort (la televisione, la piscina) si tengono per mano. Capote o Saviano non c'entrano, c'entrano invece Nabokov e Borges (e Ha-neke, e il primo Lynch). Sortino ha preso un caso di cronaca e lo ha usato come "schema" - sono parole sue - per creare un doppio immaginario della nostra civiltà; non come essa è, ma piuttosto come si appresta a diventare, una volta conclusa l'incubazione che abbiamo sotto gli occhi. Per sognarla così bene, questa razza nuova, era forse necessario attraversare l'empiria di un fatto autentico, ma insieme prendersi tutta la libertà possibile, scordarsi del "reale", sospendere le regole della democrazia, della civiltà, del tempo: nel bunker vecchie fotografie rimpiazzano gli specchi, i calendari hanno i fogli strappati, l'unica sveglia è ferma alle 19,23 del 27 giugno 1985. ■ gianluigisimonettiShotmail.com G. Simonetti insegna letteratura italiana moderna all'Università dell'Aquila Depositi viventi di Pietro Spirito Giuseppe 0. Longo IL MINISTRO DELLA MURAGLIA Racconti dall'abisso ili. di Eoretta Schievano, pp. 121, € 10, Trasciatti, Fano 2010 L'inutilità di un potere "che sfida i secoli e i dubbi", un ordine sociale sovrastante la volontà dei singoli, l'idea di "una vocazione genetica alla crescita indefinita" dell'umanità votata alla disumanità sono le coordinate lungo le quali Giuseppe O. Longo intreccia le trame delle sue narrazioni. Tra i migliori interpreti di quella linea narrativa che da Kafka passa attraverso Poe e arriva fino a Lovecraft, nonostante siano queste piste molto battute, Longo riesce a condire le sue storie di quelle spezie di matrice centroeuropea che lo caratterizzano sin da L'acrobata, segnando la scrittura con una lingua ricercata, sinuosa, a tratti desueta quanto basta ad accogliere "il diaccio vento dell'abisso". I dieci racconti del Ministro della muraglia, otto dei quali già pubblicati in rivista o in volume, permettono di avere un quadro composito della ricerca di Longo, che per altro è uomo di scienza, essendo docente di teoria dell'informazione nonché esperto nel campo dell'intelligenza artificiale e dell'epistemologia. Il golem, materia grezza atta a fagocitare pulsioni umane e mostro avvinghiarne annidato in ogni coscienza (Aviatore al tramonto, Dall'abisso), una legge pervadente e cieca (Fornace vecchia, Il ministro della muraglia, I pianeti della Stella Polare), la borgesiana biblioteca e l'ufficio kafkiano (Registrazione, Premesse a Tirteo) e finanche uno spazio inteso come oscuro altrove (Venuto da Ud-var) sono i temi che si innervano e trasmigrano da un racconto all'altro, evocando mondi, ora passati, ora futuri, dove muraglie, torri di guardia, "argentei velivoli", "depositi viventi", ambienti mutuati da favolosi Orienti mischiano accenti mitologici e atmosfere cyber. Su tutto la fragilità dell'individuo umano, oppresso da poteri occulti e in corsa se non incontro all'autodistruzione almeno verso una condizione deumanizzata dove nessuno conosce più nemmeno il significato della parola piangere. Belle e suggestive le illustrazioni di Loretta Schievano, immagini dal tratto xilografico che ben rappresentano gli universi senza tempo di Giuseppe O. Longo. ■ p.spiritol@tin.it U. Spirito è scrittore e giornalista