N. 11 Idei libri del mese 46 L e k o HO GQ CQ Giorgio Caravale, Il profeta disarmato. L'eresia di Francesco Pucci nell'Europa del Cinquecento, pp. 241, € 22, il Mulino, Bologna 2011 Su Pucci è stato pubblicato recentemente un romanzo, firmato dal francese Alexis Mourre, che prende spunto dall'avventurosa vita dell'eretico fiorentino e dei suoi legami con la Francia cinquecentesca. Anche la ricerca di Caravale, sul versante rigorosamente scientifico, segue la vicenda di questo giovane apprendista mercante, trasferito a Lione e trasformatosi in appassionato indagatore della "verità divina" sul filo delle controversie in campo cattolico e protestante nell'Europa cinquecentesca. Proprio la dimensione europea della biografia di Pucci, già sottolineata in un pionieristico volume di Cantimori, viene messa qui in piena luce e ulteriormente studiata nelle sue pieghe più minute: dalla conversione al protestantesimo dopo lo choc della notte di San Bartolomeo, alle peregrinazioni fra Londra, Basilea, Cracovia e Praga, fino al ritorno in Francia nella definitiva con- -vinzione che le stesse chiese riformate, come quella cattolica, peccano per "rigidità dogmatica e disciplinare" se rifiutano di riconoscere la "libera e diretta ispirazione divina in ogni credente". Con queste idee, molto vicine a una "concezione del cristianesimo come religione naturale", che egli condivideva con Bruno e Campanella, Pucci predicò negli ultimi anni un utopico irenismo allo scopo pacificare "l'intera cristianità". E l'illusione di poter offrire al papa questa proposta, tornando in Italia e a una chiesa di Roma "che egli immaginava (e sperava) non ancora chiusa a difesa di una rigida ortodossia dottrinale", lo condusse direttamente al rogo nel 1597, accusato di pela-gianesimo. Ma il radicalismo di Pucci era qualcosa di più di una "riproposizione dell'eresia pelagiana", conclude Caravale, poiché annunciava una radicale critica del cristianesimo e "spalancava le porte all'Europa di Baruch Spinoza e di Pierre Bayle". Rinaldo Rinaldi ereticale dell'eliocentrismo" e che questa a sua volta rinviasse a un'interpretazione letterale della Scrittura. Il carattere autoritario di questa scelta era ben chiaro allo stesso Galileo, che scriveva dopo la condanna: "Il volere che altri neghi i proprii sensi e gli posponga all'arbitrio di altri e l'ammettere che persone ignorantissime d'una scienza o arte abbiano ad esser giudici sopra gl'intelligenti, e per l'autorità concedutagli sian potenti a volgergli a modo loro: queste sono le novità potenti a rovinare le republiche e sovvertire gli stati". (R.R.) Giuseppe Culicchia, Ambarabà (Garzanti) Il processo a Galileo Galilei e la questione galileiana, a cura di Gian Mario Bravo e Vincenzo Ferrone, pp. 314, € 44, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2011 Progettato in occasione dell'anniversario della scomparsa di Luigi Firpo, il volume affronta un tema caro allo studioso: il riesame del processo inquisitoriale che portò all'abiura di Galileo e nello stesso tempo la "riconquista" della proposta galileiana come nuovo modo di "concepire la scienza". La discussione è attuale perché investe la necessità di sottrarre la scienza "a qualunque forma di tutela fideistica" e comporta una rigorosa separazione epistemologica fra ricerca naturalistica e riflessione religiosa. La recente revisione del caso Galileo da parte della chiesa ha prodotto la discutibile tesi di uno scienziato condannato per semplice incomprensione dei suoi giudici, "pioniere della corretta ermeneutica biblica" e vittima di un "incidente, assolutamente occasionale". In realtà ancora oggi, di fronte a ricerche scientifiche "che presentino implicazioni sul piano etico", la chiesa non esita a esprimere il proprio dissenso ed esercita "pressioni energiche sulle autorità civili perché intervengano a fermare quelle ricerche", sulla base di un concetto di etica assoluto e non negoziabile. È allora significativo che la condanna di Galileo fosse legata alla proclamazione del "carattere Alle radici dell'Europa. Mori, giudei e zingari nei paesi del mediterraneo occidentale. Vol. III. secoli xix-xxi, a cura di Felice Gambin, pp. 286, €18, Seid, Firenze 2011 È questo il terzo volume di un lavoro pluriennale. Quelli relativi ai secoli XV-XVII e XVII-XIX uscirono nel 2008 e 2010. Tutti e tre rimandano a convegni tenutisi a Verona, con interventi d'approccio interdisciplinare di studiosi italiani, spagnoli e francesi. Ma la portata va molto al di là di tale veste accademica, perché sullo sfondo c'è la volontà di mostrare profusamente e con rigore scientifico l'apporto decisivo e la presenza costante nella società e nella cultura europea di tre comunità minoritarie spesso bersaglio di stereotipi intolleranti. Il titolo del ciclo è giustamente provocatorio: lo sforzo di conoscere queste comunità, non di rado emarginate e perseguitate, e riconoscerne il vasto contributo smonta l'idea che mori, giudei e zingari siano genti venute d'altrove e solo di passaggio, e segnala il multiculturalismo profondo, screziato, congenito e fecondo delle nostre radici europee. L'ultimo volume è in questo senso di particolare impatto, perché non rimanda solo alla fine della convivenza fra le "tre culture" (cristiana, musulmana ed ebraica) nella Spagna medievale, ma arriva a parlarci dell'oggi o del passato prossimo, toccando non solo temi storico-antropologici o letterari, ma anche aree come la musica, il cinema, le arti plastiche. Così, la problematica aperta con la cacciata dei moriscos si aggancia alle questioni dell'immigrazione nordafricana attuale, con le nuove ibridazioni come la musica leggera franco-araba, mentre la riconciliazione sefardita viene vista anche dalla prospettiva della Shoah, che spazzò via un ingente patrimonio da recuperare. Quanto al mondo rom, si toccano varie modalità espressive, dall'artista grafico Helios Gómez al jazzista Django Rein-hardt ai rapporti tra sinti e circensi. E si ragiona sul mito gitano e sul flamenco, nonché sull'ambivalenza con cui i gitani sono da un lato connotati negativamente e dall'altro offerti come prodotto di consumo. Il libro offre solidi capitoli su come si costruisce la percezione del diverso e sui rapporti di interazione tra la società maggioritaria e queste tre minoranze culturali chiave del Mediterraneo occidentale. Danilo Manera necessario correggere questo suggerimento: la trasformazione otto-novecente-sca della vicenda garibaldina in una sorta di monumento che cancella ogni contraddizione e dialettica, trionfale incarnazione di una mistica unità nazionale pronta per essere consegnata alla retorica fascista, non corrisponde affatto al processo involutivo odierno della democrazia italiana. L'epopea garibaldina ha certo subito con il tempo un processo di svuotamento, documentato da Onofri con ricchissimo repertorio di materiali (noti e meno noti), ma la sua carica simbolica faceva pur sempre riferimento a una vicenda storica che si è presto trasformata in un'autentica tradizione moderna. E a questa tradizione facevano riferimento, nonostante tutto, la letteratura e le arti figurative a partire dal 1860 (al solo 1860 di Alessandro Blasetti, appunto, è affidato un rapido excursus cinematografico) fino al 1952. Molto diverso era quindi tale filone propagandistico, variamente declinato a destra o a sinistra nel corso degli anni, dalla propaganda totale di oggi fondata sul mito edonistico del puro consumo e del nudo potere finanziario. Voci discordi non mancavano, allora come ora, capaci di segnalare "i tradimenti e la corruzione del presente". E ha ragione Onofri a individuare (sempre in ambito letterario) un filone "meridionale e in larga parte siciliano", che formava un "anticanone" rispetto alle celebrazioni del garibaldinismo come astratta apoteosi. Verga e Pirandello, De Roberto e Tornasi di Lampedusa, Jovine e Alianello, sono questi i nomi che ispirano le pagine migliori del libro proprio perché misurano, senza concessioni, la "delusione risorgimentale". (R.R.) Massimo Onofri, L'epopea infranta. Retorica e antiretotrica per garibaldi, pp. 136, € 15,50, Medusa, Milano 2011 Il risvolto di copertina di questo volumetto sul mito di Garibaldi si conclude con un'amara constatazione: "Ciò che viviamo oggi, l'abbiamo già vissuto ieri". È Monica Busti, Il governo della città durante il ventennio fascista. arezzo, perugia e Siena tra progetto e amministrazione, pp. 269, s.i.p., Deputazione di storia patria per l'Umbria, Perugia 2011 Una buona dose di comparazione non è disdicevole per quanti vogliano capire meglio realtà contigue e affini eppure abbarbicate talvolta a un senso d'identità. Marc Bloch scriveva che non c'è "conoscenza autentica senza una certa gamma di comparazione". Tenendo a mente questo criterio, qui si presenta una ricerca che studia gii svolgimenti urbanistici, i progetti architettonici, i piani edilizi di tre città medie, che plausibilmente tipizzano modelli urbani legati a un passato da rispettare, eppure sospinti, nel corso del ventennio fascista, verso una modernizzazione non pigra. L'indagine si divide in tre parti: nella prima si delineano i confini della regione analizzata, nella seconda ci si sofferma sui programmi politico-urbanistici promossi dalle amministrazioni e, infine, nella terza (Materia e simboli) si guarda alla "concreta modificazione dei modi di vita, lavorativi e abitativi". Ebbene: il sugo che si ricava dall'esplorazione è condensabile in poche righe. L'eredità più cospicua e caratterizzante delle operazioni volute dal regime è stata l'accentuazione classista nella disposizione degli spazi, con l'esilio in periferie ben dosate e controllabili delle classi meno abbienti. Parallelamente si manifestò una spasmodica attenzione nel dotare i centri di "nuovi spazi per la socialità", intonati con una dinamica linea di "nazionalizzazione delle masse" che faceva leva su sport e spettacoli, su fiere e folklore. Risale al famigerato ventennio, per Siena, Arezzo e Perugia, il processo più incisivo di modernizzazione, concretizzatosi in un serie di opere pubbliche che miravano a consolidare il consenso al sistema offrendo occasioni di sociabilità e servizi di cura, gradevolezza estetica e fruibilità collettiva. 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