Gli stereotipi sull'economia mafiosa, il percorso compiuto, i ritardi legislativi e culturali Bassa tecnologia e rendita assicurata di Nando dalla Chiesa Leggere per credere. "Avevamo 250 milioni di euro liquidi ma ho dovuto buttarne otto nell'immondizia perché nel terreno hanno preso umidità". La confessione è di uno 'ndrangheti- sta intercettato da una microspia mentre dialoga con un altro affiliato. La racconta Nicola Grat- terà procuratore aggiunto presso il tribunale di Reggio Calabria alla giornalista Serena Danna, curatrice di cinque interviste a testimoni "eccel- lenti" della lotta alla mafia, raccolte in Prodotto interno mafia. Come la criminalità organizzata è diventata il sistema Italia, utilissimo libro-docu- mentario (pp. 165, € 16, Einaudi, Torino 2011). E la conferma della straordinaria liquidità di cui dispongono i clan, uno dei quali (forse nemmeno il più potente) può per- mettersi di fare marcire otto milioni di eu- ro sotto terra. Ma è anche la smentita del- la vulgata che vuole i capimafia contem- poranei nelle vesti di dinamici uomini d'affari, esperti inarrivabili di borsa e di finanza, gnomi di Zurigo dalle ascendenze contadine. Il denaro sotto terra. Un fatto isolato? Una turba psichica che assale un manovale del crimine giunto improvvisa- mente ai vertici della ricchezza? E allora cambiamo libro e andiamo a quello appe- na scritto da Pietro Grasso, il procuratore nazionale antimafia, con Enrico Bellavia, giornalista di lungo corso della redazione palermitana della "Repubblica". Il titolo è Soldi sporchi. Come le mafie riciclano mi- liardi e inquinano l'economia mondiale (pp. 359, € 18, Dalai, Milano 2011). Il racconto di Pietro Grasso risale a tempi più remoti (una quindicina di anni fa, do- po le stragi), ma in cui la vulgata aveva già preso il volo. Narra dunque il magistrato di quando il collaboratore di giustizia Sal- vatore Cancemi iniziò a svelare i segreti di Cosa nostra a lui e ai suoi colleghi e se li portò in Svizzera promettendo, a garanzia della propria affidabilità, di far trovare lo- ro i suoi soldi. Magistrati e poliziotti lo se- guirono curiosi di vedere quale banca avesse aperto generosamente i propri con- ti al boss di Porta Nuova. Rimasero di stucco quando Cancemi li condusse su una collina disabitata. I soldi stavano in un bidone sotto terra. Agli inquirenti sba- lorditi che chiedevano le ragioni di quel surreale interramento all'estero, Cancemi rispose serenamente che amici fidati lo avevano consigliato di "mettere il denaro in Svizzera". Ecco, basta leggere e vedere i fatti per convin- cersi che la montagna di stereotipi costruiti sulla mafia da persone che mai l'hanno incontrata o studiata (i sedicenti "esperti" con cui polemizza nella sua intervista Gratteri) è davvero un monu- mento alla pigrizia mentale e alla saccenza intel- lettuale. Che trionfano ogni giorno immagini della mafia utili solo a esentarci dal dovere di fa- re i conti con la sua quotidianità e mediocrità so- ciale. Prodotto interno mafia ce ne offre ripetuta- mente la dimostrazione. La offrono Grasso e Gratteri, che nelle due interviste di apertura por- tano la propria testimonianza di magistrati che hanno accumulato sul campo una conoscenza storica con pochi eguali. Fatti eclatanti ed episo- di minuti, cronaca nera e segni preziosi di antro- pologia culturale: tutto si addensa e si sistema nella loro memoria convergente, aiutandoci a sgomberare il campo da diversi luoghi comuni. Solo in qualche caso si coglie tra i due una signi- ficativa benché temperata dissonanza di opinio- ni. In particolare sulla struttura di vertice della 'ndrangheta: limitata a una funzione di suprema garanzia e di custodia delle regole (sul modello della nostra presidenza della Repubblica) secon- do Gratteri; dotata di una funzione di comando vera e propria, benché non dittatoriale come quella dei corleonesi, secondo Grasso. Ma ce la offrono anche personalità estranee all'ammini- strazione della giustizia, a conferma della molte- plicità dei ruoli e delle esperienze di vita che si sono incontrati in questi anni nella battaglia per la legalità. Ad esempio monsignor Domenico Mogavero, uno dei più noti esponenti della nuo- va chiesa siciliana, voce a sostegno degli ultimi nella Mazara dei pescherecci, dei tunisini e della mafia. O l'esponente per antonomasia della nuo- va Confindustria siciliana, Ivan Lo Bello. Oppu- re ancora l'economista venezuelano Moisés Naim, già consigliere della Banca mondiale oltre che autore di Illecito. Come trafficanti, falsari e mafie internazionali stanno prendendo il control- lo dell'economia globale (2005; Mondadori, 2006), saggio sull'economia criminale che alla sua uscita suscitò un largo interesse di pubblico. Le cinque interviste hanno in realtà il pregio di sintetizzare efficacemente quel che gli interessati vanno sostenendo con ricchezza di argomentazio- ni e con passione civile da alcuni anni in più sedi: libri, convegni, scuole e interventi su stampa o te- levisione (anche a costo di sembrare "soubrette", rivendica Gratteri). Sicché le loro posizioni si ren- dono immediatamente fruibili al lettore che si av- vicini per la prima volta a questi livelli di appro- fondimento; rivolgendo, come indica il titolo, una particolare attenzione all'aspetto economico delle organizzazioni mafiose. E in effetti proprio questo sembra essere di- ventato negli ultimi tempi il tema più urgen- te e dibattuto della questione. Rilanciato dalla crisi che sta portando in primo piano la forza se- duttiva dell'economia mafiosa e delle sue "op- portunità". Reso stringente dal matrimonio inci- piente tra economia legale ed economia illegale, denunciato dalle recenti inchieste giudiziarie, specie al Nord, con il diffuso e preoccupante contorno di omertà imprenditoriali. Esaltato dai nuovi territori di accumulazione aperti alle orga- nizzazioni mafiose dai processi di globalizzazio- ne in atto, con immediati effetti sulle dimensioni del celebre "fatturato". Al di là della funzione di sintesi svolta per il grande pubblico, Prodotto in- terno mafia presenta però diverse questioni. Al- cune, in verità, sono importanti solo per gli sto- rici o i sociologi della materia. Stimola riflessioni inquiete, ad esempio, la difesa che un uomo al di sopra di ogni sospetto come monsignor Mogave- ro sfodera dell'opera di un porporato più che discusso come il cardinale Ernesto Ruffini, sim- bolo della chiesa palermitana degli anni sessanta; colpisce la giustificazione di scelte sciagurate che pesarono non poco sullo sviluppo del fenomeno mafioso nell'isola (non aveva capito il passaggio alla mafia urbana, argomenta Mogavero della chiesa di Ruffini; ma la mafia contadina aveva fatto strage infinita di sindacalisti nel do- poguerra appena alle spalle...). Interes- sante capire, anche, per quali canali narra- tivi possa essere giunta alla giovane inter- vistatrice l'idea di una "primavera di Pa- lermo" promossa non dai nuovi movimen- ti civili ma dai dirigenti di una Cisl forte soprattutto nel pubblico impiego. Senz'altro, però, primeggia la questione cruciale del rapporto tra mafia ed econo- mia. Che trova, nella diversità degli ac- centi, un punto di unità significativo nella riflessione su mafia e mercato. Quest'ulti- mo è insieme condizione prima dello svi- luppo e nemico giurato delle organizza- zioni mafiose, che cercano infatti di met- terlo fuori gioco appena possano. Per questo l'economia, lungi dal beneficiare del fatturato mafia, che può anche giun- gere come ossigeno provvidenziale in aree e momenti di crisi, è in effetti zavorrata in permanenza dalla presenza dei clan e dal- la loro spinta a monopolizzare i settori a minor tasso di innovazione e a minor ri- schio d'impresa. Movimento terra e tra- sporti, centri commerciali e forniture, ri- storanti e alberghi, rifiuti ("entra monnez- za ed esce oro", dice il boss siciliano), contraffazione. Basse tecnologie e rendita assicurata dall'intimidazione e/o dalla protezione politica: questo è il segreto del successo mafioso. Un successo che non sospinge l'economia ma la deprime. L'ar- gomentazione sviluppata in tal senso da Ivan Lo Bello è di una modernità esem- plare. Lo stesso cambiamento di Confin- dustria, spiega l'imprenditore siracusano con toni pacati ma che giungono come frustate, va storicamente associato all'in- gresso sulla scena di un'economia concorrenzia- le che ha "rubato" posizioni all'economia dei costruttori, più radicati nella dimensione della rendita e nelle relazioni pericolose tra mafia e politica. Purtroppo non aveva dietro di sé questa Con- findustria l'imprenditore che sfidò per primo pla- tealmente la mafia del "geometra Anzalone", l'im- prenditore tessile lasciato solo nella sua rivolta in nome del merito e del mercato e che per questo pagò con la vita nell'agosto del 1991. A lui, a Li- bero Grassi, è dedicato Libero. L'imprenditore che non si piegò al pizzo (pp. 124, € 10, Castelvecchi, Roma 2011), scritto dalla moglie Pina Malsano Grassi, che ne ha ereditato la magica energia, e da Chiara Capri, giovane esponente del movimento "Addio pizzo". Ecco, leggere Prodotto interno mafia e poi tornare a Libero Grassi può essere uti- le. Per misurare il percorso compiuto, che i temi emersi dalle cinque interviste possono indurre a non vedere o scolorire. Il guaio è che, al di là di tutto, come denunciano sia Grasso sia Gratteri, si parte sempre in ritardo. Nella cooperazione giu- diziaria, nella consapevolezza culturale, nella le- gislazione interna, nella reazione istituzionale del Nord sviluppato. Il ritardo, l'eterno ritardo. Poi- ché forse alla fine sta qui, in questa damnatio civi- le, la famosa "vera forza" della mafia. ■ N. dalla Chiesa insegna sociologia della criminalità organizzata all'Università Statale di Milano Eugenio Comencini, Villa Monfalletto e Villa Rionda