On. 7/8 Il testamento biologico nei libri e nel dibattito parlamentare I sudditi ben informati ubbidiscono meglio di Maurizio Mori Dopo il tentativo di impedire la morte di Eluana Englaro con un apposito decreto legge, fallito per il mancato avallo del presidente della Repubblica, si è cercato di approvare subito una legge che è giunta tardi per il decesso di Eluana (9 febbraio 2009). Il governo Berlusconi ha allora promesso in tempi brevissimi il varo di una legge tesa a riordinare il settore del fine vita e impedire il ripetersi di casi come quello di Eluana. Così il 26 marzo 2009, il Senato appro-. vava il disegno di legge Calabro intitolato "Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento". Nonostante non compaia affatto nel titolo, l'opinione pubblica parla della legge sul "testamento biologico", dove con tale termine si è soliti indicare un documento scritto in cui l'interessato lascia direttive scritte su ciò che vorrebbe fosse fatto o evitato ove si trovasse incapace di decidere. La novità del testamento biologico sta nel fatto che il cittadino sceglie ora per allora, cioè adesso quando è sano per una situazione futura quando si troverà incapace di decidere, e indica un fiduciario che deciderà al suo posto per le situazioni incerte. Al di là delle inevitabili difficoltà tecniche e incertezze della nuova pratica, l'idea di un testamento biologico sembra supporre (come indica il nome "testamento") che le direttive lasciate vincolino chi le riceve (il medico), ma il disegno di legge Calabro prevede esplicitamente il carattere non vincolante delle dichiarazioni (non direttive) anticipate di trattamento. Forse anche per questo, a distanza di oltre due anni, il testo ancora attende l'approvazione della Camera, e ha comunque già subito alcune modifiche in commissione così che dovrà comunque tornare in lettura al Senato. Il prolungarsi del dibattito parlamentare, da una parte, indica che si tratta di una legge importante, forse decisiva e fondamentale per le sorti non solo della bioetica come riflessione culturale, ma anche della formazione di un settore decisivo della vita sociale e civile. E in gioco un passaggio cruciale tra due diversi modi di intendere l'autonomia del cittadino, tema che rimanda a concezioni diverse dell'individuo umano. Dall'altra parte, il protrarsi della controversia in parlamento ha suscitato un'intensa riflessione sviluppatasi sia sui giornali che sulle riviste specializzate oltre che su libri di vario tipo. A uno sguardo complessivo sembra che i libri favorevoli all'autonomia siano già stati pubblicati in anni precedenti, e che ora vedano la luce testi tesi in qualche modo a spiegare o giustificare le scelte normative sostenute dal governo. In questo quadro fa eccezione la corposa sezione contenuta nel monumentale Trattato di biodiritto a cura di Stefano Rodotà e Paolo Zatti (2 voli., Giuffrè, Milano 2011), che nel tomo II del Libro 2 dedicato a II governo del corpo (pp. LX-2198, € 240) da p. 1785 a p. 2021 esamina i problemi specifici del fine vita con grande attenzione al consenso informato e alle direttive anticipate. Si tratta di un'opera di riflessione complessiva che cerca di dare una visione sistematica dell'intera disciplina, chiarendo come il diritto negli ultimi anni ha risposto agli interrogativi posti dalla biomedicina nei vari settori,' tra cui appunto quello della fine della vita. Per quanto riguarda il tema in esame, con la dovuta pacatezza e il grande equilibrio che si addicono a un trattato, vengono presentate le diverse posizioni, ma emergente è quella che sembra pre- valente nel mondo del diritto e ben esposta nel contributo di Gilda Ferrando, una delle più attente e profonde esperte nel campo: "Nelle scelte di fine vita (...) l'autonomia del paziente rappresenta davvero l'elemento focale del discorso. Essendo in gioco scelte di natura esistenziale, il sapere tecnico del medico non può che svolgere un ruolo rilevante, ma ancillare". C'è infatti il precetto costituzionale (articoli 13 e 32) che "segna la soglia oltre la quale egli [il medico] non può spingersi. L'inviolabilità del corpo può essere superata solo in virtù e nei limiti del consenso [del paziente che] costituisce la fonte della legittimazione del potere medico. Il dovere medico di agire nel bene del paziente non ha in se stesso la propria legittimazione, ma la trova nell'autorizzazione che riceve dal paziente. La funzione di garanzia (...) propria del medico non gli attribuisce un 'diritto' sul corpo del paziente. Al contrario, il medico viene investito dei relativi poteri se e nella misura in cui il paziente ne faccia richiesta. Il trascorrere della salute da una concezione oggettiva a una soggettiva conferma in questa convinzione". Ne consegue una trasformazione profonda del rapporto medico-paziente e dell'intera concezione della medicina, dal momento che la rivoluzione biomedica sembra avere cambiato il tradizionale paradigma ippocratico. Se questo è l'impianto ormai prevalente consolidato in ambito giuridico, sul piano dell'etica e della riflessione culturale sembra che sia in atto una riproposta del modello ippocratico che assume varie forme e toni diversi. Così Francesco D'Agostino (Bioetica e biopolitica. Ventuno voci fondamentali, pp. XI-241, € 23, Giappichelli, Torino 2011) osserva che sulla controversia della sacralità/qualità della vita "è in atto la più grande battaglia so-ciologico-culturale dei nostri tempi", perché si tratta di sapere dove stia il limite per l'autodeterminazione. Attingendo al liberalismo, esso è fornito dalla non-maleficenza che ammette la libertà fintanto che non si rechi danno ad alcuno. In un contesto bioetico il principio liberale imporrebbe il "rispetto per la vita umana fragile e malata [... che] va rispettata inderogabile, perché essa veicola un valore simbolico essenziale": quello della pari dignità di ciascuna vita umana, per cui "l'abbandono terapeutico, anche se richiesto dal malato medesimo, tradisce (...) il principio costitutivo del patto sociale" cosicché "il malato che chiede l'abbandono (...) opera oggettivamente (e senza esserne consapevole) contro l'interesse di tutti gli altri malati (...) procura cioè loro un'autentica malefi-cenza". Il testamento biologico, quindi, è lecito solo perché la medicina moderna offre "un ricco ventaglio di strategie terapeutiche" tra cui poter scegliere, ma non è ammissibile il rifiuto delle stesse. Questa opzione sarebbe frutto di ciò che Kant chiama arbitrio, ossia "una volontà soggettiva, un gusto" privato e insindacabile. L'autonomia, invece, fa riferimento al "bene morale" che è oggettivo, per cui la scelta autonoma non può portare al rifiuto delle terapie. Conclusione specularmente opposta a quella vista sopra di Ferrando e della stragrande maggioranza della giurisprudenza. La tesi di D'Agostino dà la linea anche al volume collettaneo Rinuncia alle cure e testamento biologico, a cura di Marianna Gensabella Funari e Antonio Ruggeri (pp. XX-350, € 40, Giappichelli, Torino 2011), che esamina il problema della rinuncia alle cure sullo sfondo del rapporto medico-paziente mettendo al centro la relazione di cura. Come sempre nei testi collettanei ci sono sfumature diverse, ma l'afflato predominante è per il trito concordismo che trova espressione nelle parole del laico Cotro-neo per il quale la libertà dei contemporanei deve rimanere "ferma sulla invalicabilità dei limiti imposti da alcuni valori etici prodotti dalla nostra tradizione culturale", anche perché una "società che si presenta priva di valori assoluti mette a rischio la propria sopravvivenza". Invece di prendere atto che la rivoluzione biomedica pone sfide nuove da affrontare con creatività e fantasia, si risponde sacralizzando la tradizione ed evocando catastrofi... ! Anche II consenso informato. Relazione di cura tra umanizzazione della medicina e nuove tecnologie di Paola Binetti (pp. 400, € 25, Magi, Roma 2010) si muove in questa direzione: partendo dall'osservazione che le nuove scoperte biomediche attraggono e "spaventano per quel continuo modificarsi dei confini entro cui l'uomo è abituato a muoversi", Binetti cerca di dare una rassicurazione alla persona comune che chiede una risposta certa. Il risultato è un denso libro di quattrocento pagine in cui si condanna l'asettico tecnicismo medico per lodare l'alleanza terapeutica in cui medico e paziente lottano assieme contro la malattia per ripristinare la salute e tutelare la vita. Pertanto, l'idea di un "diritto al rifiuto delle cure" comporterebbe un "capovolgimento della mission specifica della medicina", e il consenso informato è utile e importante perché il paziente consapevole collabora meglio allo scopo dato. Il che è come dire che è preferibile avere sudditi ben informati e contenti di essere tali perché ubbidiscono meglio al sovrano: al di là di un linguaggio agile, pacato e suadente, è la solita minestra riscaldata e che non coglie le nuove sfide emergenti. L'impressione generale che si coglie è che la rivoluzione biomedica in corso sta liberando esigenze nuove sostenute dalla riflessione bioetica e che ora trovano sostegno istituzionale nel diritto, i cui cultori si rivelano un'élite illuminata capace di cogliere e promuovere la crescita civile. Per contro è in corso un tentativo di neo-restaurazione del tradizionale paradigma ippocratico che ha il proprio perno nel disegno di legge Calabro e che si avvale di un'intensa campagna di propaganda culturale la quale, oltre a interventi di vario genere, fa capo a testi più meditati. Viene da chiedersi come finirà l'attuale battaglia culturale e come cercare di dare una risposta, ma forse è meglio lasciare ai posteri l'ardua sentenza. ■ maurizio.mori@unito.it M. Mori insegna bioetica all'Università di Torino o • o so O •IO eq • Ki •O» e Kì & co