Peter Sloterdijk: un antropologia al servizio del bene planetario Chi cerca uomini troverà acrobati In qualsiasi modo lo si voglia leggere, Peter Sloterdijk si presenta oggi come una delle star della filosofia tedesca e mondiale. Il suo esordio filosofico del 1983, la Critica della ragion cinica (Garzanti, 1992), venne accolto da Jùrgen Habermas come "un capolavoro di letteratura filosofica" e si trasformò in un caso editorial-cultu-rale, battendo il record di vendite per un libro di filosofia in lingua tedesca. Successivamente il suo lavoro si indirizzò verso l'elaborazione di un'antropologia filosofica e di una grande narrazione della storia dell'umanità, fino alla pubblicazione della trilogia Sfere (ed. orig. 1998, 1999, 2004; trad. it. del primo volume Meltemi, 2009), che può senza alcun dubbio essere considerata Yopus magnum di Sloterdijk e il suo progetto filosofico più ambizioso. In essa sviluppa un'"immunologia universale" che ripercorre genealogicamente il rapporto tra individuo e spazio, dall'utero materno al mondo globalizzato, attraverso la figura della sfera. Tuttavia, l'evento che più di ogni altro ha portato questo autore alla ribalta del feuilleton internazionale è il dibattito sulle Regole per il parco umano (trad. it. in Non siamo ancora stati salvati, Bompiani, 2004), conferenza tenuta nel 1999, all'origine di un duro scontro con Habermas, il quale, cercando inizialmente di dissimulare il proprio coinvolgimento, gli mosse la dura accusa di propugnare un eugenismo particolarmente raffinato. Giocando sulla vicinanza del termine le-sen (lettura, lezione) e auslesen (selezione), Sloterdijk proponeva, a partire dall'eredità heideggeriana, un'interpretazione dell'umanesimo come tradizione antropotecnica e come forma di domesticazione e di selezione dell'essere umano attraverso il medium del libro. Quindi, ricorrendo sia alla descrizione nietzschiana degli "ultimi uomini" sia alle riflessioni platoniche sulla scelta del governo della polis, sviluppava la tesi di una vera e propria forma di allevamento umano condotta attraverso antropotecniche primarie (educazione, allevamento, disciplinamento, formazione) e potenzialmente implementabile per mezzo delle possibilità dischiuse dalle più recenti tecnologie genetiche. Furono in particolare questi passaggi a sollevare le maggiori critiche, soprattutto in quanto associati all'uso del termine Selektion, pregno di risonanze con il linguaggio nazista. Un discorso a parte meriterebbe la ricezione italiana del pensiero di questo filosofo, che, se da una parte può aver risentito della stigmatizzazione successiva allo scandalo sul "parco umano", dall'altra sembra connessa alla difficoltà di acclimatamento nel contesto culturale e filosofico italiano di una produzione tanto eclettica e difficilmente riconducibile alle categorie tradizionali. Può valere come caso esemplare il recente Devi cambiare la tua vita (ed. orig. 2009, trad. dal tedesco di Stefano Franchini, pp. 565, € 36, Raffaello Cortina, Milano 2010), un testo che in Germania ha venduto cinquantamila copie nei primi due mesi di pubblicazione, e che testimonia un'erudizione sconfinata e il costante tentativo di un approccio extraaccademico e trasversale. In questa corposa opera, Sloterdijk - riprendendo e riannodando i fili di opere apparentemente distanti fra loro, come Sfere e Ira e tempo (2006; Meltemi, 2007) o il saggio sull'umanismo - sviluppa un'"antropologia dell'esercizio" sulla quale fondare un'"etica acrobatica". Il punto di partenza imprescindibile è costituito dalla svolta antropotecnica, imperniata sulla tesi secondo cui è l'uomo stesso a generare l'uomo, descritto come interno a sistemi immunitari di natura simbolica e calato in vesti rituali. Si tratta di un processo auto-poietico per effetto della retroattività di ogni azione sul soggetto agente. Il passo successivo consiste nel sostenere che queste forme di ripercussione abbiano un carattere ascetico, vale a dire - precisa Sloterdijk seguendo l'etimologia del termine - basato sull'esercizio. Sono proprio gli individui im- di Dario Consoli pegnati esplicitamente in una forma di allenamento a rendere visibile la dimensione ascetica dell'esistenza, che siano atleti, yogi, operai, eruditi, contadini, musicisti o circensi. E se con esercizio intendiamo "ripetizione di azioni creative" allora ecco che l'essere umano si disvela come quell'essere vivente che nasce dalla ripetizione. Le analisi del testo muovono da una critica alla tesi del ritorno della religione, alla quale viene contrapposta una traduzione dei fatti religiosi, spirituali ed etici nella lingua e nell'ottica di una teoria generale dell'esercizio. In questi termini non esistono né "la religione" né "le religioni", ma soltanto mal compresi sistemi di esercizio spirituale simbolicamente regolati (ovvero pratiche psicoim-munologiche): "Ciò con cui abbiamo a che fare (...) sono dei sistemi antropotecnici, più o meno fraintesi, di esercizi e di regole finalizzati a modellare la nostra condotta personale, sia interiore sia esteriore. Nel rifugio fornito da tali forme, i praticanti lavorano per migliorare il proprio status immunitario globale". Uno studio dedicato all'antropologia dell'esercizio finisce tuttavia per oltrepassare presto i limiti descrittivi e sfociare, implicitamente o esplicitamente, nel piano normativo. Ciò è intimamente legato, sostiene Sloterdijk, al fatto che il suo oggetto, gli "esseri umani", esperiscano inevitabilmente, ih ogni epoca e contesto culturale, una tensione verticale. Essi sono impegnati nel costante perfezionamento delle proprie condizioni di vita: "Chi cerca uomini, troverà acrobati". Il primo riferimento - ancora una volta, nell'opera di Sloterdijk - va qui a Nietzsche come al pensatore che più di ogni altro ha fornito le parole chiave per codificare una tale prospettiva, come nella figura del funambolo nel prologo dello Zarathustra: "L'uomo è una corda, tesa tra l'animale e il Superuomo, una corda sopra un abisso". Egli propone una "metafisica dell'acrobata", dove l'acrobatica si spiega come la dottrina dell'assimilazione processuale nell'organismo di ciò che sembra impossibile. Tuttavia, una delle maggiori debolezze della dottrina del superuomo consiste nel non aver compreso come la sua era, più che nel futuro, possa essere collocata nell'epoca passata in cui gli individui, per amore di una causa trascendente, volevano innalzarsi al di sopra dei propri limiti fisici e psichici. La seconda riserva avanzata da Sloterdijk riguarda l'interpretazione nietzschiana della morale cristiana come morale degli schiavi; proprio nell'ottica di una teoria dell'ascesi si assiste invece alla trasmissione dell'ascetismo atletico e filosofico caratteristici dell'antichità al modus vivendi monastico ed ecclesiastico, tanto che i primi monaci si denominavano gli "atleti di Cristo". Nel mondo postmoderno, dopo la morte di Dio, la fune perde il suo ancoraggio alla trascendenza ma, per quanto difficile, continua a essere percorribile anche se tesa nell'immanenza. La possibilità di intraprendere il percorso verticale è offerta dal giocare il potere della ripetizione contro la ripeti- zione stessa, scoprendo in essa un appiglio per il suo controllo. Fanno parte del soggetto della ripetizione, infatti, sia un lato passivo che un lato attivo, e la vita etica aspira continuamente a scambiare il primo con il secondo, la cattiva ripetizione con quella buona. La cattiva ripetizione è quella che nasce dall'essere posseduti da "programmi automatici": passioni, abitudini, idee. La buona ripetizione è quella del soggetto che si allena attivamente per superarsi, arrivando lì dove sembrava impossibile attraverso una paideia che sottrae fondamento alle vecchie abitudini per sostituirle con quelle più "alte". In questo modo, "l'esistenza acrobatica toglie banalità alla vita, ponendo la ripetizione al servizio dell'irripetibile. (...) Per essa esiste una sola azione etica: andare oltre ogni condizione data, conquistando l'improbabile". Il "progresso" della modernità identifica un evento della storia morale costituito dalla deradicalizza-zione della distinzione etica ovvero della deverticalizzazione dell'esistenza. Nella riscoperta della tensione verticale si concretizza lo sforzo di reintegrare la differenziazione gerarchica come elemento positivo, senza che essa si identifichi tout court con logiche o dispositivi di dominio. Un'esperienza di questa tensione verticale, di un'autorità che non asservisce, si ritrova in modo esemplare nell'esperienza estetica, nel dislivello dell'opera d'arte. Non a caso il testo di Sloterdijk muove dai versi conclusivi di un sonetto di Rainer Maria Rilke, intitolato Torso arcaico di Apollo, dove il poeta descrive le impressioni provate di fronte al relitto di una statua del dio. In queste righe, sono la perfezione e l'autorità che promanano dalla cosa stessa a rivolgersi all'osservatore: "perché non v'è punto qui / che non ti veda. Devi cambiare la tua vita". Ed è questo imperativo, per Sloterdijk, a valere come imperativo assoluto, definizione del dislivello tra forme di vita più basse e più elevate, parola chiave della rivoluzione declinata alla seconda persona singolare. Nell'arco di un secolo, la voce da cui Rilke si sentì interpellato al museo del Louvre è diventata il denominatore morale ultimo di tutte le comunicazioni che circolano nel globo. Le prospettive conclusive del testo muovono infatti dalla constatazione di senso comune che l'unico fatto di portata etica universale nel mondo attuale sia la diffusa crescente convinzione che così non si possa andare avanti. L'autorità che oggi intima il cambiamento è la crisi globale, nelle vesti molteplici dell'allarme ecologico, del terrorismo, della politica imperiale, della crisi finanziaria ed economica, preludio di quell'impensabile che è la catastrofe globale. Solo la prospettiva acrobatica, di antropotecniche che mirano al costante superamento e miglioramento di se stessi attraverso pratiche ascetiche e la riscoperta di una tensione verticale, può farci sperare in un cambiamento di rotta. Sloterdijk auspica dunque un ampliamento dello spazio di esercizio, per la costruzione di una macrostruttura di immunizzazione globale: una coimmunità (Ko-Immunismus) solidaristicamente vincolata, che abbracci non solo tutti gli esseri umani ma anche l'intero ecosistema. Il progetto di un design immunitario globale dovrebbe raggiungere un formato planetario, nel quale il globo circondato da reti e schiume (metafora dello status socio-immunitario contemporaneo, caratterizzato da pluralità e densità) sia concepito come proprio, e l'eccesso di sfruttamento dominatorio come estraneo. Si tratta, in conclusione, per esseri bisognosi di meccanismi di protezione, di "adottare nell'ambito degli esercizi quotidiani le buone abitudini della sopravvivenza comune". Ripensare le immunità individuali in un'ottica globale, mettendo al centro la tutela del pianeta e i bisogni comuni, è quell'improbabile verso il quale dovrebbe tendere ogni movente realmente etico. ■ darius.consoli@gmail.com D. Consoli è dottore in filosofia e storia delle idee all'Università di Torino