N. 10 Idei libri del mese 1 '/ «1 Riflessioni dal campo di grano di Van Gogh Ancora qualcosa da spartire con la vita di Andrea Bajani Andrea Bajani I corvi di Van Gogh: ancora qualcosa da spartire con la vita Luciano Genta Non tutti i best seller sono uguali Aldo Fasolo Nuovi filoni e sviluppi delle neuroscienze Paolo Napoli I beni comuni e i militanti in lotta sulle loro spalle Luca Scarlini Londra: la capitale delle novità Matteo Pagliardi Mick Jagger: reputazione immacolata Anna Chiarloni Franco Marenco Enrico De Angelis Letteratura e nazionalità: una discussione aperta Cesare Pianciola Perché la crisi economica ravviva l'interesse per lo studio del marxismo Sempre, quando sono ad Amsterdam, torno a vedere il Campo di grano con volo di corvi, una delle ultime tele che Van Gogh dipinse, prima di morire. Non l'ultima, ma una delle ultime. L'audioguida dice che quella ormai è passata alla storia per essere l'ultima tela di Van Gogh, e invece non è vero. Dice anche che, siccome è passa- ta alla storia come l'ultima tela di Van Gogh, tutti quelli che la guardano di- cono che è evidente, che è l'ultima tela di Van Gogh. Tutti, compresi i critici, di- V ce la voce nell'audioguida, sostengono che quei corvi neri simboleggiano la mor- te che arriva, e quindi è chiaro che dopo che quei corvi sono calati, Van Gogh non ha potuto dipin- gere più niente. E invece non è vero. La voce nell'audioguida fa questa precisazione in una maniera un po' pedan- te come a dire che sono dei superficiali, tutti quelli che pensano che quella sia l'ul- tima tela. All'inizio ho pen- sato anche io, insieme a lei, all'ignoranza e alla superfi- cialità diffusa. Poi però mi è venuto in mente un libro che ho letto - ma non so ri- salire al titolo del libro - in cui si diceva che si inizia a morire molto prima che poi il cuore smetta di battere. Forse era anche un li- bro mediocre, adesso che ci penso, ma ricordo che c'era questa frase in cui di- ceva che eravamo tutti come dei roc- chetti di filo, e che tutti cominciavamo a morire nel momento in cui il filo si strappava, alla fine. E da lì, poi, poteva passare un giorno, tre settimane, due mesi, persino degli anni, ma non c'era più niente da fare, perché ormai il filo era finito. A qualcuno il filo si strappava perché gli era morto un amico, ad altri perché avevano perso il lavoro, a qual- cuno bastava una frase detta male, e da lì cominciava a morire. Ecco, guardando per l'ennesima volta il Campo di grano con volo di corvi mi è venuta in mente quella storia del filo, e ho pensato che a Van Gogh, forse, il filo gli si era strap- pato il giorno in cui poi ha dipinto quel quadro, anche se poi dopo ne ha dipin- ti degli altri. Per cui potrebbe anche es- sere l'ultimo quadro, diciamo, con buo- na pace della voce dell'audioguida, che per il resto è davvero eccellente, nella spiegazione di tutto il percorso artistico e biografico di Van Gogh. Ad esempio una delle cose che raccon- ta l'audioguida è che Van Gogh per mori- re andò in mezzo a un campo, nella cam- pagna di Auvers, e si sparò un.colpo nel petto. Lì lo trovarono, lo soccorsero, e poi morì due giorni dopo in ospedale. Aspettò l'arrivo del fratello Theo, e dopo morì, quasi tra le sue braccia. È difficile, sapendo che andò in mezzo a un campo per ammazzarsi, non pensare al Campo di grano con volo di corvi come all'ultima te- la. Mi ha fatto pensare al crinale lungo cui cammina ogni artista, da una parte la vita vissuta e dall'altra la vita rappresentata, e a come quel crinale si possa assottigliare a tal punto, con gli anni, da diventare una lama affilata su cui si continua a cammi- nare, ferendosi, cercando a ogni passo l'e- quilibrio come un funambolo, ma sangui- nando sempre di più dalle piante dei pie- di. E non riuscivo a non pensare che Van Gogh, per riuscire ad andare veramente in un prato per spararsi un colpo nel pet- to, avesse dovuto prima disegnarlo quel prato. Per uccidersi ha dovuto dipingere un prato, poi tre sentieri, e solo dopo averli disegnati ne ha scelto uno, l'ha pre- so, ci si è incamminanto, e quando è arri- vato al fondo si è sparato. Lo guardo e penso che un pittore che per morire deve dipingersi la strada che porta alla morte, non è altro che un uo- mo che cerca il suo linguaggio per poter- la dire. E allora mi viene in mente Mo- zart, che per riuscire a morire ha avuto bisogno di comporre un Requiem, senza nemmeno peraltro poterlo concludere. O ancora Sandor Màrai, che nello scon- volgente li ultimo dono, ha raccontato giorno dopo giorno l'approssimarsi della fine. "La morte è vicinissima, ne sento l'odore", scrisse. E poi aggiunse "Ma ho ancora qualcosa da spartire con la vita". I libri Vincent Van Gogh, Lettere a Theo, traduzione dall'olandese di Mariaeli- sa Donvito e Barbara Casavecchia, pp. 366, € 18, Guanda, Parma 2009 Vincent Van Gogh, Lettere a un amico pittore, traduzione dall'olande- se di Sergio Caredda, pp. 137, € 8,50, Rizzoli, Milano 2006 Elisabeth Van Gogh, Mio fratello Vincent. Ricordi personali, pp. 35, € 4, Via del Vento, Pistoia 2012 Sàndor Marài, Lultimo dono, trad. dall'ungherese di Marinella D'Ales- sandro, pp. 240, € 18, Adelphi, Mi- lano 2009 Philippe Petit, Trattato di funam- bolismo, trad. dal francese di Danilo Bramati, pp. 144, € 12.50, Ponte alle Grazie, Firenze 1999 E allora prese ad annotare giorno dopo giorno la vita che gli restava, mettendola in ordine, dividendola in sacchetti di pa- role, archiviandola per giorni. E nella vi- ta che gli restava c'era anche una rivoltel- la, che si era comprato e che imparò ad usare applicandosi nel tiro al poligono, registrandone sul diario i progressi e i punti morti. E solo quando riuscì a nominarla final- mente, la morte, solo quan- do riuscì a battersi un sen- tiero di parole, solo allora prese la rivoltella e la usò contro di sé. C'è una cosa che mi commuove, nelle lettere che Van Gogh scrive al fratello Theo. Ogni volta che cambia di casa, ogni volta che si allontana dal luogo in cui si trova, Van Gogh gli scrive per dirgli che finalmente si sente be- ne, che finalmente ha tro- vato un po' di pace. Dal- l'Olanda a Parigi, poi Ar- les, infine Auvers-sur-Oi- se, dove poi morirà. Ogni volta che raggiunge una nuova meta scrive che fi- nalmente ha trovato un luogo in cui c'è un po' di armonia, e non la solita guerra di tutti i giorni. Ad Arles perché si innamora della luce, che gli sembra quella del suo amato Giappone. A Parigi perché non è l'O- landa natia. Ad Auvers-sur-Oise perché è fuggito dalla clinica di Saint-Remy. E però poi puntualmente precipita tutto. Ecco, c'è questa cosa straziante dell'illu- sione, che ogni volta ritorna, e che ogni volta si decide però di accogliere, in una sorta di istinto alla vita, di smemorata disperazione forse, di tensione verso la luce. E dopo, il crollo. E in Van Gogh poi c'è questa furia di dipingere, che è l'unico palliativo possibile. Nell'ultimo periodo, ad Auvers-sur-Oise dipinge forsennatamente, decine e decine di te- le, ed è come se solo l'atto artistico po- tesse conferire un senso, e però il senso finisse con l'ultima riga tracciata, con l'ultima pennellata, e dopo quella riga, dopo quella pennellata, bisognasse met- tersi alla caccia di altre righe, di altre pennellate, di altre forme. È soltanto nel processo artistico, allora, nel fare, che tutto si ricompone, ma soltanto per la durata dell'atto. È lì che, camminando sul crinale tra vita vissuta e vita sognata (o rappresentata, se così si può dire) che lo spazio della vita vissuta si riduce sem- pre di più, si restringe, fino a sparire. E allora per vivere - pensavo guardando le tele dell'ultimo periodo di Van Gogh - bisognerebbe soltanto fare e fare e. fare e fare, non smettere mai di dipingere - mai, nemmeno un istante - o di scrivere, o di comporre, di cercare di costruire un senso, uno qualsiasi, un'altra ipotesi di realtà. E però poi alla fine c'è questo ri- schio - annotavo davanti al Campo di grano con volo di corvi - di trasferirsi dall'altra parte, di traslocare dall'altra riva della vita, quella sognata, e lì, per l'appunto, d'improvviso accorgersene, incontrare la morte, alzare la testa, e far la finita. ■ A. Bajani i