da BUENOS AIRES Francesca Ambrogetti da FRANCOFORTE Anna Castelli VILLAGGIO GLOBALE L'emigrazione, la guerra, il traffico di stupefacenti: tre argomenti dolorosi e drammatici che si intrecciano nella storia di un emigrante argentino negli Stati Uni- ti che cerca di sapere la verità sulla morte del figlio in una base aerea americana in Afghanistan. La racconta il romanzo El cartel de Bagram dello scrittore e giornali- sta argentino Gustavo Sierra, che ha co- perto per il quotidiano "Garin" di Buenos Aires i più recenti conflitti bellici. L'autore sostiene che è una storia vera nella quale ha cambiato solo i nomi dei protagonisti e modificato alcune circostanze per non renderli riconoscibili. Il padre di John Torres, quando l'esercito americano gli re- stituisce la salma del figlio senza troppe spiegazioni sulle circostanze della morte, organizza manifestazioni di protesta e de- cide di indagare per conto proprio sfidan- do il potere militare. Il sottotitolo del libro è infatti La storia dell'argentino che ha sconfitto il Pentagono. Perché 0 protagoni- sta, che aveva saputo dal figlio che nella base aerea di Bagram si trafficava eroina che arrivava negli Stati Uniti nelle bare dei soldati caduti, riesce alla fine ad avvicinar- si alla verità. Il ritmo è serrato e vertigino- so: in alcuni capitoli sembra di leggere un copione cinematografico, in altri un ro- manzo giallo. Con il sottofondo della guerra e dei problema degli emigranti. L'autore li riprende nell'ultimo capitolo, quando porta la storia in Messico, dove la situazione delle incessanti correnti emigra- torie verso il nord è sempre più difficile e la narcoguerra sta dilagando a tal punto che un intervento degli Stati Uniti sembra a molti inevitabile. Un nuovo e pericoloso scenario. Sierra ha scritto altri libri sulla sua esperienza come corrispondente di guerra in Afghanistan e in Iraq ed è stato premiato per i suoi articoli dal fronte. da LONDRA Simona Corso Mentre nei cieli di Gaza gli aerei israelia- ni ronzano notte e giorno "come frigoriferi malchiusi", i tre fratelli Mujahed cercano, ciascuno a suo modo, di trovare una via d'uscita da quel terribile inferno che è la vi- ta quotidiana durante una guerra senza fi- ne. Out of it è il titolo del promettente ro- manzo d'esordio di Selma Dabbagh (Bloomsbury, 2011), scrittrice anglo-pale- stinese oggi residente a Londra. Per Ras- hid, ventisettenne, mite, allo sbaraglio, la via d'uscita è la marjuana, e un'agognata borsa di studio in un'università londinese. Per Imam, sorella gemella di Rashid, la via d'uscita, tortuosa e piena di insidie, è l'im- pegno politico. Per Sabri, il fratello mag- giore a cui anni prima un attentato ha por- tato via il figlioletto, la moglie e le gambe, la via d'uscita è una storia della Palestina, a cui lavora dalla sedia a rotelle, nei lampi di lucidità tra un analgesico e l'altro. Nel cor- tile di casa, tra le macerie dei palazzi rasi al suolo dai bulldozer, la madre coltiva zuc- chine e litiga con il vicino, sospettato di col- laborare con il nemico. Il padre, ex espo- nente di spicco dell'Anp, vive sul Golfo, in un condominio con il portiere di notte, le aiuole fiorite, l'aria condizionata e una nuo- va moglie appassionata di arredi giappone- si. Ambientato tra Gaza, Londra e il Golfo, il romanzo segue le vicen- de dei due fratelli più gio- vani, i desideri di fuga dell'uno e il bisogno di ra- dicamento dell'altra. Die- tro il loro idealismo, i loro amori e odi di ventenni, intravediamo la Palestina reale ferita dalle bombe, dagli attentati suicidi dei fondamentalisti islamici, dalla corruzione delle fa- zioni in lotta per il potere sullo stato palestinese. Nonostante la vaghezza, di tanto in tanto, dei det- tagli storici e il sistematico silenzio su Israele (sem- pre e solo "they", "the others", "the enemy"; "People always say the Palestinians have been deliberately made invisi- ble. So I made the Israelis invisible", ha dichiarato l'autrice in un'intervista), il romanzo ha il pregio di farci sentire una voce che non capita spesso di senti- re. Quella di due ragazzi palestinesi: determinati o disorientati, innamorati o annoiati, felici o disperati nello stesso identico mo- do di tanti coetanei londi- nesi, svedesi o italiani. Un senso vivace della trama e una materia che non può non destare interesse han- no già fatto di Out ofit un romanzo di successo. Complice anche il suo in- glese veloce e colloquiale, una scrittura senza troppe pretese letterarie e il nuo- vo, massiccio interesse per la generazione prota- gonista della primavera araba. Non si è mai spento l'eco dei colpi di pistola con cui duecento anni fa, nei pressi del Wannsee a Berlino, Heinrich von Kleist si è ucciso. Una vita irrequie- ta, quella dello scrittore di Francoforte sull'Oder, fatta di radicalismi ingenui, passioni improvvise e scrittura convulsa, che lo ha spinto a vagare tra Parigi, Thun, Kònigsberg, Dresda e infine Berli- no, per inseguire il riconoscimento lette- rario (in gran parte negatogli) e realizza- re progetti professionali e di vita (perlo- più falliti). I multiformi volti di questa in- quietudine letteraria e umana sono venu- ti alla luce, in questo anno kleistiano, nel corso di più di 2500 manifestazioni, let- ture, mostre, presentazioni di libri, tra- smissioni radiofoniche, passeggiate lette- rarie, che hanno avuto luogo soprattutto in Germania, ma si sono spostate anche ben oltreconfine. Il 21 novembre scorso, anniversario della morte, si è svolto un world wide reading che in performance di vario genere ha coinvolto, dal Togo alla Russia, da Singapore al Canada, 150 isti- tuti di cultura e università. Il principale organizzatore di questi eventi, la Kleist- Gesellschaft, oltre al doveroso omaggio scientifico allo scrittore in forma di con- vegni e pubblicazioni, ha persino gestito (con un consistente budget messo a dis- posizione da una fondazione) il restyling della tomba di Kleist, coinvolgendo atti- vamente nel progetto anche gli abitanti del Wannsee. Il pubblico berlinese, oltre all' intera opera drammaturgica di Kleist messa in scena al Gorki Theater, ha poi potuto assistere, all'Hebbel am Ufer, a una radicale versione della Battaglia di Arminio, in cui alla foresta di Teutobur- go e alla sconfitta di Varo viene associato Refusano Sul numero dell'"Indice" di settembre • a p. 34 nella pagina a cura della Fonda- zione Bottari Lattes l'articolo di Man- fredi Di Nardo è stato erroneamente amputato dell'ultima riga. Il suo reso- conto Fare cultura. Retroscena di un la- boratorio doveva concludersi con una domanda: "anche questo è 'fare cultu- ra'?". Il quesito finale era essenziale per sottolineare il carattere non assertivo, bensì problematico, dello scritto. il dramma di Srebrenica, la guerra degli hacker su Internet e la recente rivoluzio- ne in Egitto. Regia del lavoro è del col- lettivo teatrale Rimini Protokoll, recente vincitore del Leone d'Argento alla Bien- nale Teatro di Venezia. Da segnalare infi- ne la Kleist-WG a Francoforte sull'Oder, progettata e realizzata da 170 studenti delle scuole superiori all'interno della ca- sa natale di Kleist. Altro che sonnacchio- sa lezione sui classici della letteratura te- desca: in questi mesi più di 4000 giovani visitatori hanno ammirato le istallazioni ispirate alla vita dello scrittore. Prossimo appuntamento, a novembre, l'assegna- zione del Kleist-Preis, premio letterario istituito nel 1912 e quest'anno conferito a Navid Kermani. Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica Western, s. m. Proveniente dal germanico, "West" (ovest) è presente nell'inglese anti- co. Il termine ha però, già nell'epoca early mo- dem, usi illustri. Ben prima della nota epopea po- polare e pionieristica nordamericana lo si trova in Shakespeare e in Milton, cioè in Inghilterra. I si- gnificati s'intrecciano, ma sono relativamente di- versi. Il "Western" del nuovo continente è infatti ciò che è "coming from the West": esiste insom- ma perché, nel mondo angloamericano, vi è chi lo osserva dall'Est e da quell'area atlantica ospitante le tredici colonie che, tra il 4 luglio 1776 (dichia- razione d'indipendenza), il 17 settembre 1787 (costituzione americana) e il 25 febbraio 1789 (ri- unione del gabinetto con George Washngton pri- mo presidente), danno vita agli Stati Uniti. We- stern però è anche chi è "living or originating in the West Country". Il "Westerner" è dunque an- che chi già risiede nel West. Tutto ciò, e la diffe- renza topografica tra i significati, mette bene in lu- ce qual è stata, ed è, la specificità territoriale sta- tunitense, ovverosia la frontiera mobile, la frontie- ra che si è spostata rapidamente verso il West con soldati, acquirenti di territori (la Louisiana da Na- poleone, spazi enormi dal Messico), pionieri, av- venturieri, rangers, cercatori d'oro e di altre ric- chezze, mandriani, coltivatori, uomini d'affari, gente in grado di trasformare il deserto in giardi- no, combattenti contro le tribù indiane, outlaws, sceriffi, eroi come Davy Crockett e Geronimo, uomini di spettacolo come il colonnello Cody (Buffalo Bill), creatori di law and order, costrutto- ri di villaggi (con scuole e chiese), predicatori del- la Bibbia, popoli immigrati da tutto il mondo, ma- croferrovie in grado di unire i due oceani. In inglese il termine "Western" viene comunque usato anche per l'impero occidentale sorto nel 395, per il cristianesimo romano contrapposto a Bisanzio, per il fronte occidentale (Belgio e Fran- cia del Nord) nelle guerre del 1914-1918 o del 1939-1945, per la parte d'Europa alleata degli Sta- ti Uniti nel corso della guerra fredda e poi intenta a formare un'unione dotata di maggiore autono- mia rispetto, ancora una volta, agli Stati Uniti. Il movimento e lo spostamento in un territorio immenso sono all'origine di un genere insieme ar- tistico e popolare fortunatissimo. Negli anni ot- tanta del XIX secolo il genere si afferma nella let- teratura. Ma il movimento incontra poi una for- ma artistica che, più delle altre, dal movimento è costituita. Ed è così che nel 1903 esce The great train robbery, capostipite del filone Western cine- matografico. Il genere procede, il successo è enorme. Del termine Western nel cinema si co- mincia a discorrere, da parte di tutti, nel 1912 e in Italia il termine si diffonde a partire dagli anni trenta. Tutta la storia americana, dalla rivoluzione all'apparizione delle prime automobili a fianco dei cavalli, è coinvolta: le esplorazioni, i pelleros- sa, i cowboy, i banditi, il Texas, Alamo, la schiavi- tù, la guerra di secessione, l'avvento della legge là dove non esiste. E grandi registi si dedicano al Western, come John Ford ("I'm John Ford, I ma- ke Westerns"), come Howard Hawks, come An- thony Mann. E quando Ford nel 1964 mette in scena Cheyenne Autumn {Il grande sentiero), un capolavoro assoluto, sembra che un genere sia fi- nito. I pellerossa sono ora vittime e l'autunno cheyenne pare l'autunno del Western. Ma nello stesso 1964 esce, in Italia, Per un pugno di dollari di Sergio Leone, anticipatore di un genere che sa- rà definito, dal 1970, Spaghetti-Western. Questo genere prolungherà di trent'anni il Western. Ma ciò non toglie che il Western - per André Bazin mito assai più che avventura - abbia attraversato tutta la storia del cinema. Nessun altro genere l'- ha eguagliato da questo punto di vista. Bruno Bongiovanni