N. 10 Idei libri oelmese| Letterature ispaniche Resuscitare il personaggio di Danilo Manera Jorge Carrión I MORTI ed. orig. 2010, trad. dallo spagnolo di Roberta Bovaia, pp. 173, € 14, Atmosphere, Roma 2012 Jorge Carrión, nato a Tarragona nel 1976, è un critico letterario molto attivo su riviste e quoti- diani e un eccellente scrittore di viaggio. Questo suo primo romanzo ha fatto sensazione in Spagna come emblema della poetica di una generazione nata negli anni settanta che rifiuta la scrittura con- venzionale e commerciale, utilizza il blog multi- mediale come area di sperimentazione e si chiama fuori dal quotidiano e dalla tradizione, proponen- do uno sguardo interdisciplinare, ipertestuale e frammentario, in un collage saturo di nuove tec- nologie e cultura pop, specie di provenienza an- glosassone. I nomi scelti per questo movimento (Nocilla o Afterpop) non convincono e i singoli percorsi differiscono, ma la sensibilità comune è contundente. I morti ha una struttura perfetta- mente congegnata, indispensabile per incanalare contenuti magmatici, giustapposti mediante ellissi fino a rasentare lo zapping. Due sezioni compren- dono ciascuna otto capitoli di una serie televisiva ambientata a New York e creata da Mario Alvares e George Carrington. La prima si colloca nel 1995 e rinvia a Biade Runner, la seconda nel 2015 e am- micca a I Soprano. Ognuna è seguita da un saggio di taglio accademico che tenta un'interpretazione teorica e decifra la straripante intertestualità cine- matografica e televisiva delle puntate. Chiude il li- bro una brevissima intervista agli autori. Nella prima stagione, in alcuni punti della città si materializzano dal nulla i "nuovi", provenienti da una sorta di aldilà con cui cercano in tutti i mo- di di riconnettersi, tramite indovini a pagamento, per recuperare un nome e brandelli d'identità. Al- cuni dei "vecchi" li aiutano, nella speranza di in- cappare in qualcuno con cui avevano avuto rap- porti nell'altra vita (che riemerge solo in saltuarie interferenze) e associarlo alla loro comunità. Nel- la seconda stagione, New York è, all'opposto, in preda a una pandemia che smaterializza inesora- bilmente le persone, governo statunitense com- preso, mentre i clan mafiosi si contendono il de- serto che rimane. I personaggi principali avanza- no alla cieca, a caccia di un pugno di ricordi o di un affetto stabile o di sesso per stordirsi, tra l'in- trico di menzogne e tradimenti, l'esplodere della violenza incontrollata e i complotti della Cia. Carrión domina perfettamente l'enciclopedia dei suoi coetanei. Non a caso è autore anche di Teleshakespeare (2011), saggio sulle serie televisi- ve statunitensi nel contesto del XXI secolo. Qui il suo stile è minimalista, con dialoghi nudi, ca- denza veloce e paragrafi corti come riprese, nel- l'esplicito tentativo di tradurre il codice seriale audiovisivo in linguaggio letterario. Gli scenari e i gesti sono quelli già visti in thriller cyberpunk o fumetti dark. Potrebbe trattarsi non del nostro mondo, ma di uno parallelo e virtuale alla Matrix, oppure di un videogioco. Infatti da I morti nasce Mypain.com, uno spazio web in cui resuscitano i personaggi di finzione, incarnandosi in chi può comprarne l'esclusiva. Ma è plausibile anche una lettura politica, secondo cui I morti presenta una distopia perversa, dove le "comunità" sono l'uni- co ambito resistenziale, e affronta i temi dell'im- migrazione (non a caso esistono centri d'acco- glienza per i "nuovi"), dello smarrimento di ogni credibile identità e del genocidio. La pietra filosofale della scrittura di Vittoria Martinetto Eduardo Halfon L'ANGELO LETTERARIO ed. orig. 2004, trad. dallo spagnolo di Marta Barajas Alonso, Maria Paola Fortuna e Maria Assunta Palluzzi, pp. 139, €13,30 Cavallo di Ferro, Roma 2012 Bisognerebbe fare un monu- mento ai piccoli editori sem- pre in prima linea nel loro lavoro di ricerca, anche se il lancio dello scrittore guatemalteco Eduardo Halfon avviene in modo un po' paradossale, con un libro che risa- le al 2004, in cui l'autore riflette sulle ragioni dell'essere scrittore senza che il pubblico italiano ab- bia ancora letto le altre sue già nu- merose opere. Ma meglio di nien- te. Di fatto L'angelo letterario è in sé un testo molto interessante: una sorta di rovescio di Bartleby e compagnia di Vila-Matas, testo e autore, con cui le pagine di Hal- fon dialogano esplicitamente. Il filo che guida il narratore di que- sto libro, che è senza veli l'autore stesso, è il tentativo di cogliere il momento in cui si diventa scritto- ri, non quello in cui si smette di esserlo, come nello speculare li- bro di Vila-Matas. Tuttavia, il mo- do in cui Halfon decide di avvia- re questa sua ricerca non è quello del saggio, ma del racconto, met- tendo in scena in modo verosimi- le momenti cruciali della biogra- fia di alcuni autori che hanno se- gnato la sua formazione letteraria. Curiosamente denominato "ro- manzo" nell'edizione italiana, questo testo ibrido spazia dall'in- fanzia di Hermann Hesse, a una giornata tipo nella quotidianità di Raymond Carver, a ima conversa- zione fra Ernest Hemingway ed Ezra Pound, a un dialogo imma- ginario fra i personaggi dello scrittore argentino Ricardo Piglia in merito al loro stesso autore, per arrivare a un momento dell'auto- biografia di Vladimir Nabokov, in cui lo scrittore russo parla della goccia di pioggia che, a soli quin- dici anni, gli aveva ispirato una poesia iniziandolo all'attività let- teraria, aneddoto poi smentito dal suo famoso biografo. In realtà - e questa è la conclu- sione cui giunge Halfon, dopo aver cercato ossessivamente la "pietra filosofale" della scrittura - non importa capire quale sia, sem- pre che ci sia, il momento cruciale in cui un "angelo letterario" tocca la mente di un futuro scrittore, né se costui, interpellato in merito, ne inventi di sana pianta le circostan- ze o le ragioni, a conferma che la verità non è necessariamente il contrario della finzione. Perché una cosa è certa: come suggeriva Mallarmé, i romanzi non si scrivo- no con le idee, ma con le parole. È chiaro che quanto ha moti- vato questo affascinante testo meticcio - "mosaico di idee e racconti e aneddoti e interviste" - è una domanda che si è posto l'autore a proposito di se stesso, proprio perché Halfon viene da una formazione scientifica (è in- gegnere, "frustrato", precisa) e il suo approdo alla scrittura è stato più che accidentale, a partire da una sessione di agopuntura, me- dicina alternativa cui attribuisce l'inizio di "un processo che la letteratura avrebbe soltanto con- tinuato: l'assassinio (o almeno l'indebolimento) della ragione". Inoltre Halfon è in più di un senso un autore "di frontiera": fa parte di quella sempre più nu- trita schiera di scrittori a cavallo fra le due Americhe, e dunque fra due culture e due lingue, che scelgono indifferentemente di vivere e/o di scrivere in una di queste. Come il cileno Alberto Fuguet, la prima lingua di Halfon è stata l'inglese, e lo spagnolo - lin- gua dei genitori - e stato recupe- rato in età adulta per divenire ad- dirittura suo mezzo di espressione letteraria. Come il guatemalteco Francisco Goldman, il peruviano Daniel Alarcón, il dominicano Ju- not Dias (che invece scrivono in inglese), vive negli Stati Uniti, in Nebraska. Non si tratta di globa- lizzazione, ma di una generale ca- duta delle barriere: un reticolo di vene aperte in cui circola una stes- sa linfa dall'identità composita. ■ vittoria.martinettogalice.it V. Martinetto insegna lingua e letteratura ispanoamericana all'Università di Torino La leggerezza dell'esploratore di Simone Cattaneo Enrique Vila-Matas UN'ARIA DA DYLAN ed. orig. 2012, trad. dallo spagnolo di Elena Eiverani, pp. 302, €19, Feltrinelli, Milano 2012 4COono partito per trovare O la casa che avevo lasciato tempo fa e non potevo ricorda- re con precisione dove si trova- va, ma si trovava sulla strada. E quando strada facendo trovai ciò che trovai era tutto come me l'ero immaginato. In realtà non avevo nessuna ambizione, non credo di aver avuto nessun tipo di ambizione. Sono nato molto lontano da dove in teoria dovrei stare e quindi vado ver- so casa mia". Questa frase di Bob Dylan all'inizio del docu- mentario di Scorsese No direc- tion home può funzionare an- che come traccia e cadenza del tortuoso percorso letterario di Enrique Vila-Matas, perché in essa si dipana il filo che dalle prime opere - uno dei volumi pubblicati a fine anni ottanta si intitolava proprio Una casa para siempre (Anagrama, 1988) - conduce sino a quest'ultima tappa lungo un cammino che porta alla casa della letteratura, dove, nel buio dell'inchiostro e accanto al focolare della parola, si narrano aneddoti compagni di viaggio dall'estro visionario come Borges, Walser, Kafka, Perec, Pessoa, Joyce, ecc. In Un'aria da Dylan, Vila-Ma- tas varca la sottile linea d'ombra che lui stesso aveva tracciato con Dublinesque (Feltrinelli, 2010) ed Esploratori dell'abisso (Feltrinelli, 2011) e dà un ulte- riore giro di vite, ridisegnando la propria poetica - sempre in bilico tra grandi slanci lirici, modulati con un tono dimesso, e l'umorismo caustico di chi squadra il mondo con un sorri- so beckettiano - all'insegna di una maggiore leggerezza che ar- riva a lambire la risata beffarda e sonora di Laurence Sterne. L'allusione al creatore del gentiluomo Tri- stram Shandy, tra l'al- tro, non è casuale, perché proprio dai classici della letteratu- ra inglese è tratto il palinsesto che regge la trama vilamatiana: l'Amleto di Shake- speare impone infatti le regole del gioco, ma queste vengono conti- nuamente sovvertite dalla stra- vaganza dei personaggi o dalle loro azioni bizzarre, ed ecco dunque che il principe di Dani- marca è soltanto un trentenne perdigiorno, Vilnius Lancastre, sosia barcellonese del giovane Bob Dylan, tormentato dalla memoria del padre - Juan Lan- castre, uno scrittore piuttosto noto e perfetto rappresentante dell'intellettuale postmoderno - morto di infarto sul terrazzo della sua abitazione e che ora, dalla nebbie dell'aldilà, conti- nua a inoculare suoi ricordi nel- la mente del figlio, esasperan- dolo con la sua istrionica perso- Enrique Vila-Matas Un'aria da Dylan A nalità. I ruoli restanti vengono ripartiti tra Laura Vedrai, ma- dre bellissima e spietata di Vil- nius, Claudio Aristide Maxwell, amante di Laura e cinefilo impi- gliato nella rete dei fasti holly- woodiani degli anni d'oro, e Debora Zimmerman, Ofelia dallo sguardo azzurrissimo, dai nervi instabili e dall'evidente cognome dylaniano. Gli attori in scena sono osservati da un narratore che, dopo una lunga carriera letteraria, aspira a con- vertirsi in un umile Bartleby cocciutamente chiuso nel suo mutismo, restio alla scrittura e persino alla comunicazione con la propria moglie, mentre a det- tare i loro movimenti sconclu- sionati non sarà il tragico desti- no shakespeariano, bensì una frase del film Tre camerati di Frank Borzage, un aforisma dall'opaco splendore fitzgeral- diano che recita: "Quando fa buio, abbiamo sempre bisogno di qualcuno". Armato della sua faccia da Dylan e della convinzione che il frammento di dialogo tratto dal lungometraggio di Barzage sia sufficiente a guidar- lo tra il marcio che si annida nella sua personale Elsinore, Vilnius Lancastre cerca l'auten- ticità, in una fuga dalle masche- re e dal cerebralismo postmo- derno, proiettandosi verso un orizzonte di inoperosità alla Oblomov che esime dalla re- sponsabilità di dover contribui- re ad alimentare l'orrore del mondo. In questa recherche di un futuro ormai perduto, il pro- tagonista si imbatte in Debora e i due, considerandosi giovani artisti malati e battendo i sen- tieri cospirativi già imboccati dagli Shandy di Storia abbrevia- ta della letteratura portatile (Sel- lerio, 1989; Feltrinelli, 2010), danno vita alla società "Aria di Dylan", votata, in una chiara carambola duchampiana, all'e- saltazione dell'infraìieve, cioè a quella leggerezza che ogni esploratore deve possedere nel momento in cui si get- ta a capofitto e con noncuranza nell'im- buto dell'abisso, pro- vando lo stesso brivi- do che Bob Dylan do- veva aver sentito cor- rergli lungo la schiena quando, nel 1965, al Festival Folk di New- port si presentò sul palco accompagnato da una band elettrica, sconcertando il suo pubblico di fedelissimi. Ma una scrollata di spalle doveva essere bastata al menestrello di Duluth per ese- guire il primo accordo e cancel- lare il leggero sorriso di sfida che probabilmente gli aveva at- traversato il volto, perché die- tro l'acuta inespressività dei suoi occhi si annidava la consa- pevolezza di essere nel giusto: "L'arte è anche fuggire da ciò che credono tu sia o da ciò che si aspettano da te". ■ Cattaneo.simone®gmail.com S. Cattaneo è assegnista di ricerca in letteratura spagnola all'Università di Milano