Diritto Dubbi, credenze e regole ragionevoli di Raffaele Caterina Ettore Gliozzi LEGALITÀ E POPULISMO i limiti delle concezioni scettiche del diritto e della democrazia pp. VI-138, € 14, Giuffré, Milano 2011 Qualche anno fa, Diego Mar- coni (nel libro Per la verità. Relativismo e filosofia, Einaudi, 2007) ha svolto una critica tanto del relativismo sui fatti che del re- lativismo sui valori, evidenziando la difficoltà di fare a meno della verità. Marconi sottolineava, pe- rò, che a suo giudizio "le tesi filo- sofiche hanno di rado implicazio- ni politiche dirette" : "perciò ho cercato di evitare di aver l'aria di voler stabilire chi, tra il relativista e l'antirelativista, è il vero amico della democrazia liberale, il vero critico del potere, il vero avversa- rio dell'autoritarismo o del totali- tarismo". Proprio su questo te- ma, si concentra invece il libro di Ettore Glioz- zi, Legalità e populi- smo. I limiti delle con- cezioni scettiche del di- ritto e della democrazia. Gliozzi sostiene infatti l'incompatibilità con la democrazia costituzio- nale delle teorie scetti- che del diritto e della democrazia, cioè di quelle teorie che so- stengono "l'inesistenza della ra- gion pratica, intendendo per 'ra- gione pratica' la possibilità di giu- stificare con credenze vere le scel- te pratiche e quindi anche le scel- te normative". Uno dei meriti del libro è quello di presentare le tesi scetti- che nella loro varietà ma anche nella loro sostanziale convergen- za. Troviamo così, da un lato, una linea di pensiero che va da Nietzsche ai filosofi postmoder- ni, che nega sia la possibilità di conoscere oggettivamente il mondo che di giustificare razio- nalmente le azioni umane. Dal- l'altro, una linea, che va da We- ber al positivismo giuridico del Novecento, che recupera un ruolo alla ragione rispetto alla conoscenza dei fatti, ma ritiene impossibile trovare una giustifi- cazione razionale dei giudizi di valore, e proclama perciò, in po- lemica con il giusnaturalismo, un atteggiamento avalutativo. Le due linee convergono nel fonda- re una concezione scettica della sovranità: ogni norma è prodot- to di un atto di volontà, e la vo- lontà umana è sempre arbitraria, non potendo trovare una genui- na giustificazione razionale. Una democrazia costituzionale impone a tutti i cittadini, quan- d'anche sono maggioranza, di ri- spettare i principi costituzionali di eguaglianza e libertà; e implica che a criteri di razionalità e alla ricerca della verità si ispirino tan- to il dibattito pubblico che prece- de l'emanazione delle leggi, quanto il controllo di costituzio- nalità delle leggi emanate. Le concezioni scettiche, ritenendo che il diritto si basi sempre su ir- razionali giudizi di valore, e che dunque spetti al potere sovrano stabilire arbitrariamente ciò che in ogni società deve essere consi- derato giusto o ingiusto, sono in- vece compatibili con una demo- crazia populista, in cui un'illimi- tata sovranità popolare è la fonte ultima di legittimazione di ogni principio di giustizia, e la demo- crazia altro non è se non una pro- cedura formale volta a consentire alla sovranità popolare (vale a di- re alla maggioranza dei cittadini) di imporsi senza alcun limite. Il liberalismo scettico ha credu- to di reagire ai totalitarismi ne- gando l'esistenza di una verità obiettiva che possa essere impo- sta a tutti. Tuttavia, la tutela di una sfera di libertà individuale, sottratta al potere coercitivo del- lo stato, implica che le proposte normative possano essere sotto- poste a un vaglio volto a valutare se esse hanno un fondamento ve- ritiero o quanto meno ragionevo- le, prima da parte degli altri citta- dini e poi da parte della corte co- stituzionale. Se davvero tutte le proposte si equivalgo- no, essendo egualmen- te arbitrarie, non esiste alcuna ragione per cui la maggioranza dei cit- tadini non debba, ad esempio, imporre a tutti una legge fondata sulle proprie convin- zioni religiose. Se il costante bersa- glio polemico del libro è la democrazia popu- lista, in realtà tra le righe si in- dovina un altro possibile esito delle tesi scettiche, che potrem- mo definire come aristocrazia decisionista (in cui a decidere in maniera sostanzialmente arbitra- ria sono i giudici). A questo esi- to non portano solo le teorie postmoderne, che negano la possibilità di una critica raziona- le dell'interpretazione, ricostrui- ta come un mero processo di de- cisione, ma anche il metodo for- malista, ispirato al principio ava- lutativo, che lascia al legislatore sovrano la scelta dei valori, ma rivendica alla scienza giuridica lo studio del diritto come fatto. Infatti, un'interpretazione for- malistica, che rinuncia a presu- mere che il legislatore abbia ope- rato sulla base della ragion prati- ca nell'analisi dei fatti e nell'i- dentificazione di fini raggiungi- bili, e che sottrae all'interprete la guida della ragion pratica nel momento in cui deve colmare le lacune e chiarire le ambiguità della legge, è necessariamente arbitraria. Se si concepisce real- mente il diritto come un insieme di comandi arbitrari, anche la lo- ro interpretazione diventa inevi- tabilmente altrettanto arbitraria. L'idea fondamentale del libro è dunque che le democrazie co- stituzionali non possono soprav- vivere al "diffondersi della sfidu- cia nella possibilità di giustifica- re con credenze vere le scelte di principi etici, politici e legislati- vi". La critica alle tesi scettiche deve allora muovere dalla conte- stazione di questo assunto. Tale critica è svolta da Gliozzi fon- dandosi largamente su argomen- tazioni legate al senso comune. Lo scetticismo radicale circa la nostra capacità di conoscere il mondo, se svolto coerentemente, è difficilmente confutabile, ma ancor meno convincente. Esso implica infatti il rifiuto della di- stinzione tra dubbi ragionevoli e dubbi irragionevoli: così io non potrei dire di sapere che la mia mano ha cinque dita perché po- trei essere affetto fin dalla nascita da allucinazioni che mi fanno ve- dere un dito in più. Se dunque non si nega che possiamo cono- scere i fatti, o almeno distinguere tra credenze ragionevoli e cre- denze irragionevoli, il principale ostacolo a riconoscere un ruolo alla ragion pratica è la legge di Hume, secondo cui da ciò che vi è non si può mai ricavare ciò che vi deve essere. Tuttavia, noi traia- mo continuamente dalle nostre conoscenze regole di comporta- mento; così accade, ad esempio, per le regole di diligenza, che presuppongono la conoscenza delle conseguenze di fatto delle nostre azioni; così accade nelle scienze pratiche, come la medici- na, che ricavano regole di com- portamento da conoscenze scien- tifiche. Si può dunque distingue- re tra regole di comportamento (e leggi) razionali e irrazionali, a seconda se muovono da credenze ragionevoli rispetto al mondo, mirano a fini raggiungibili, pon- gono comandi o divieti idonei al raggiungimento di questi fini. Fino a questo punto il discorso si muove su un piano, per così dire, di razionalità tecnica del di- ritto (cioè di razionalità dato un certo fine, di cui la ragion pratica dovrebbe vagliare soltanto la raggiungibilità). Vale la pena sot- tolineare l'importanza di questo risultato, giacché non di rado le divergenze riguardano più l'ido- neità degli strumenti apprestati dal diritto che gli stessi fini ultimi perseguiti. Tuttavia Gliozzi so- stiene la possibilità anche di un dibattito razionale sui valori, che egli identifica semplicemente co- me i "fini desiderati". Il positivismo giuridico e la fi- losofia ermeneutica postmoderna si confrontano e si contrappon- gono, spesso traendo legittima- zione dalle reciproche critiche; eppure, essi muovono da pre- messe non dissimili per quanto riguarda i limiti della ragion pra- tica. Chi non condivide tali pre- messe è presentato alternativa- mente come un naif o un autori- tario. Il libro di Ettore Gliozzi pone in luce i molti punti di con- tatto, nelle premesse e nelle con- clusioni, tra positivismo giuridico e teorie postmoderne, e in con- trapposizione a entrambi difende in modo lucido e appassionato un approccio giusrazionalista. Le genealogie intellettuali non sono indispensabili per comprendere il libro; forse non dispiacerebbe all'autore che si ricordi che in un'opera giovanile Norberto Bobbio, citando Thibaut, espri- meva l'esigenza che la legislazio- ne positiva "non sia l'opera del- l'irrazionale, dell'arbitrio, o del- l'interesse personale, ma bensì della ragione filosofica, o anche solo della comune e sana ragio- ne" (L'analogia nella logica del di- ritto, Giuffré, 2006). ■ raffaele.caterina@unito.it R. Caterina insegna diritto privato all'Università di Torino Babele. Osservatorio sulla proliferazione semantica Qualunquismo, s. m. Il termine è italiano e novecentesco. Il suffisso "unque", d'altra parte, ove applicato ai pronomi relativi, ne estende e accresce il significato. E "unque", una volta fuso con "qual", forma sempre un aggetti- vo. Il sostantivo "qualunquismo" nasce tuttavia dal movimento politico-antipolitico sorto a par- tire dal settimanale "L'Uomo Qualunque", fon- dato a Roma il 27 dicembre 1944 dal comme- diografo Guglielmo Giannini. Tutto ciò che è antipolitico è del resto un manifestarsi subdolo e degradato della politica. Sgusciato dal fasci- smo in agonia e intenzionato a combinarsi con un paraliberalismo incolto, il qualunquismo (af- fiancato da gruppi clandestini fascio-terroristi, come i Far, Fasci d'azione rivoluzionaria) era ov- viamente privo di un omogeneo progetto politi- co, ma non esitò, con temporaneo successo, a ri- volgersi al cosiddetto "uomo della strada", ov- verosia all'"uomo qualunque". Quest'ultimo, sentendosi emarginato dagli antifascisti, non aveva nulla a che fare con l'"uomo comune" americano. Finita al Sud la guerra, e venuto me- no il vasto impianto microburocratico del regi- me fascista, era piuttosto segnato dai problemi della vita quotidiana e da quell'identità piccolo- borghesuccia di massa che i politici italiani sta- vano, secondo Giannini, affossando. Il qualun- quismo condannava, del resto, in nome della "gente", il professionismo politico. Tra antide- mocrazia e pseudoantipolitica, si dichiarava fa- vorevole al potere di tecnici qualificati nell'am- ministrazione dello stato. Il suo modello non era però The managerial revolution di James Burn- ham, tradotto da Mondadori nel 1947. Giannini e i suoi seguaci non erano in grado di capirci nulla. Era l'assetto burototalitario del regime fa- scista degli anni trenta. Divenuto partito politi- co nel 1946 (contraddicendo così la natura anti- partitica originaria), nello stesso anno, espri- mendo rappresentanti incapaci, ebbe un certo successo alle elezioni per la costituente (5,3 per cento dei voti e 30 seggi, laddove la De ebbe 207 seggi, lo Psiup 115, il Pei 104). Facilmente rico-. noscibile come "di destra", si ritenne estraneo alla sinistra e alla destra. Nel 1948 si sciolse per l'emergere di contrasti interni - l'antipolitica è ben più endoconflittuale della peggior politica - e per la nascita, ormai tollerata, del Msi, che ru- bò, nel Mezzogiorno, buona parte dello spazio politico-antipolitico dell'Uq. Molti membri del quale confluirono, oltre che nel Msi, nel Partito nazionale monarchico e nel Pli. Felice Platone, all'inizio del 1946, lo aveva definito, su "Rinascita", espressione di una de- magogia senza scrupoli e simile a quella del fa- scismo. L'Uq non fu però mai al servizio del potere e si presentò come protesta di una mi- noranza meridionale, quella cui il regime fasci- sta aveva dato, onde ricavarne consenso, posti burocratici che comportavano non alti stipen- di, ma anche pochissimo lavoro. Quei posti si temeva ora che andassero perduti. Il che non accadde spesso. Non mancarono in seguito movimenti affini, come in Francia, tra il 1953 e il 1956, il poujadismo (56 seggi nel 1956), par- tito del libraio Poujade, contrario al fisco per i commercianti e razzista. Di questo movimento ha fatto parte Le Pen. Gli americani, che con- dannano l'elitismo degli europei (politici colti, intellettuali, preti), fanno l'elogio dell'uomo comune (sempre un individuo però, mai una categoria), figura non sempre apprezzata dagli europei. In Italia, il termine à stato comunque sempre usato: a proposito del fascismo da par- te di alcuni storici, del culto della tecnica da Pasolini e come alter ego della politica da Montanelli. È infine riapparso per definire aspetti del berlusconismo e persino gli strilli aprogettuali (senza cultura politica più che an- tipolitici) di Grillo e dei grillini. Bruno Bongiovanni