e k o so CO e S se •io O • K) s £ So Idei libri del mese| Due film che riscoprono la discontinua vocazione civile del cinema italiano di Aldo Agosti Escono, quasi insieme, due film che riscoprono la spesso latitante vocazione civile del cinema italiano. Due film che raccontano la storia di due fe- rite ancora aperte della storia e della memoria del nostro paese: Romanzo di una strage di Marco Tul- lio Giordana e Diaz. Don't Clean Up This Blood, di Daniele Vicari con Claudio Santamaria, Elio Ger- mano, Jennifer Ulrich, Fabrizio Rongione, Renato Scarpa, Italia-Francia 2012. Ne parlo qui non, ov- viamente, da critico cinematografico, ma da storico e, vorrei aggiungere, da professore di storia che ha avuto il compito, e ancora tenta di esercitarlo in se- di diverse da quelle dell'università, di trasmettere conoscenze ed elementi di formazione critica alle nuove generazioni. Cominciamo da Romanzo di una stra- ge, di Marco Tullio Giordana con Vale- rio Mastrandrea, Pierfrancesco Favino, Fabrizio Gifuni, Luigi Locascio, Laura Chiatti, Italia 2012, che ha avuto un'ac- coglienza non univoca. Ha incontrato l'approvazione dei familiari delle vitti- me di piazza Fontana, ma è stato anche duramente stroncato (Goffredo Fofi ne ha parlato come di un prodotto "non decente", addirittura un "cinepanetto- ne") o comunque severamente criticato (Corrado Stajano ha scritto che "i ra- gazzi che non sanno cosa sia successo nel pomeriggio di tanti anni fa in quel- la banca di Milano [...] non avranno da questo film lumi per capire"). Non so- no d'accordo: in realtà è un film onesto e fondamentalmente efficace. Non sarà inutile ricordare che due inchieste svol- te fra gli studenti delle medie superiori milanesi nel 1999 e nel 2009 hanno ac- certato che la maggioranza degli inter- vistati riteneva la strage di piazza Fon- tana opera delle Brigate rosse (quasi il 40 per cento) o della mafia (circa il 20 per cento) mentre solo l'8 per cento parlava dei fascisti e il 4 per cento dei servizi segreti. Fraintendimenti di que- sto tipo, dopo aver visto il film di Gior- dana, saranno quanto meno più diffici- li. La pellicola indica chiaramente le re- sponsabilità del gruppo dei neofascisti veneti Freda e Ventura, mostra le co- perture che i servizi italiani gli forniro- no prima e dopo la strage, allude al pos- sibile ruolo dei colonnelli greci e dei servizi americani. Non dice apertamen- te, ma lascia intendere in modo chiaro che Pinelli non è caduto dalla finestra della Questura di Milano per disgrazia o suicidio. Denuncia anzi l'illegalità del suo fermo, già protrattosi oltre il con- sentito al momento dell'ultimo e fatale interroga- torio, formula in modo deciso l'ipotesi che si vo- lesse "incastrare" il ferroviere milanese, per chiu- dere in fretta il caso e consegnare all'opinione pubblica un "pacchetto di colpevoli" confeziona- to tutto all'interno del mondo dell'anarchia. Fa emergere la connivenza in questa manovra, o al- meno la piena disponibilità ad avallarne gli scopi, di una parte importante del governo e dello stes- so presidente della Repubblica Saragat, e quindi fa capire che le collusioni e i depistaggi non furo- no l'opera di qualche "mela marcia" annidata nel- la polizia, nei carabinieri o nei servizi, ma parte organica di un disegno riconducibile alla strategia della Nato in quegli anni. Sono cose non sconta- te, che le generazioni più giovani ignorano, e se un film di un regista famoso, con un cast di atto- ri di tutto rispetto, si prende la briga di ricordar- le, non possiamo che rendergliene merito. E pos- siamo anche lodarne alcuni aspetti più propria- mente scenici: la brillantina dell'ineffabile questo- re di Milano, Marcello Guida, già direttore del confino di Ventotene, e in generale vestiti, postu- re, oggetti illustrano meglio di un saggio di antro- pologia storica la continuità tra fascismo e post- fascismo negli apparati dello stato, che non era solo un'invenzione dell'estrema sinistra. Dopo di che, certo, restano motivi di perplessi- tà. Può non convincere una raffigurazione di Pie- tro Valpreda che sconfina quasi nella caricatura; può apparire troppo idealizzata la rappresentazio- ne di Calabresi onesto servitore dello stato, vitti- ma più che complice dei suoi superiori; può ap- parire poco credibile e forzato l'inserimento nel contesto del racconto di Aldo Moro, che non ri- sulta avere avuto allora alcun ruolo di rilievo. Più di tutto non persuade la tesi che il film sembra ac- creditare: quella delle "due bombe", una a più basso potenziale e che non avrebbe dovuto causa- Ada re morti, messa da Avanguardia nazionale nel qua- dro di un'azione orchestrata dai servizi segreti per "gestire" la tensione dell'autunno caldo; l'altra più devastante, collocata dal gruppo mestrino-ve- neziano di Ordine Nuovo nel quadro di un'ope- razione di appoggio ai colonnelli greci, e i cui ef- fetti avrebbero fornito il pretesto allo scatena- mento di violenze il 14 dicembre, in occasione di una manifestazione già convocata dall'estrema de- stra. È una tesi che gli studiosi più accreditati del- le vicende dello stragismo considerano improba- bile anche se non totalmente implausibile, e che soprattutto non c'era nessun bisogno di tirare in ballo perché nuoce al messaggio, altrimenti chia- ro, del film. Lo stesso Giordana, per la verità, ne sembra poco convinto. Forse ha voluto giustifica- re il riferimento al romanzo di Paolo Cucchiarelli (Il segreto di Piazza Lontana, Ponte alle Grazie, 2012), che delle due bombe (una delle quali pe- raltro attribuita agli anarchici) è il principale so- stenitore: romanzo da cui il film, pur scostandose- ne in molti punti cruciali, si dichiara "liberamen- te tratto" (pare, in realtà, perché la produzione ne aveva acquistato i diritti). Alla fine però anche questo, che pure è il più serio, può essere consi- A. Agosti è professore emerito di storia contemporanea all'Università di Torino aldo.agosti®unito.it derato un peccato veniale di un film dal quale non si può pretendere il rispetto dei canoni di un libro di ricerca storica: e a cui invece si deve rendere il merito di avere restituito alla tragedia di piazza Fontana una narrazione anche visiva dalla quale non si potrà più prescindere. Diaz è un film diverso, e non sarebbe nemmeno giusto accostarlo al precedente se non perché anche sulla tragedia che evoca incombe il rischio dell'oblio giudiziario che è calato su piazza Fontana: nel 2014 i crimini attribuiti ai ventisette funzionari e poliziotti riconosciuti colpevoli in appello (nessuno dei quali, si noti è stato sospeso per un solo giorno dal servizio) saranno prescritti. Ha ragione comunque Antonio Scurati a dire che "non siamo di fronte al proseguimento della stessa eterna, identi- ca storia di un medesimo volto tenebroso di un potere arcano che si esercita attra- verso complotti, trame oscure, misteri in- confessabili e irrisolti" ("La Stampa", 13/4/2012). No, i fatti di Genova del 2001 sono noti, anche se si tende troppo a dimenticarli. Il 21 luglio 2001, ultimo giorno delle manifestazioni e degli scon- tri che sconvolsero una città letteralmen- te blindata per ospitare il G8, poco pri- ma di mezzanotte centinaia di poliziotti irruppero nel complesso scolastico "A. Diaz", che i manifestanti avevano adibi- to a media-center, picchiarono feroce- mente e arrestarono immotivatamente centinaia di ragazze e ragazzi, italiani e stranieri, inermi e colti nel sonno. Poi falsificarono le prove dei presunti reati di resistenza e porto d'armi cercando di depistare le indagini. Ma non finì lì: gli arrestati tradotti nella caserma di Bolza- neto subirono indicibili torture fisiche e psicologiche. Amnesty International de- finirà l'accaduto come "la più grave so- spensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la fine della II guerra mondiale". Il film ci racconta questa storia terribile in modo scarno, senza compiacimenti grandguignoleschi, anzi con uno scrupoloso rispetto delle carte processuali, che sono l'architrave della sceneggiatura. Lo fa in modo cor- retto e quasi con l'apparente distacco di una ricostruzione documentaristica, non oscurando le pesanti responsabilità dei black-block le cui violenze costituiscono l'antefatto della tragedia, ma in nessun modo la giustificano, anche perché di ra- do la polizia ne fece direttamente le spe- se. Se proprio si può fare un appunto da storico a Vicari, gli si può rimproverare di non chiamare mai in causa i responsa- bili, anche politici, di questi eventi, con i loro nomi e cognomi, tra i quali si dimentica spesso quello del vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini, allora appena "sdoganato" dal suo passato neofascista. Diaz induce a un'altra riflessione. Le persone del- la mia generazione non capirono tutto il valore del- la drammatica cesura che si consumò a Genova, e che il film invece fa capire in maniera dolorosa. A coglierne questo aspetto è stato ancora Scurati, e le sue parole uniscono alla lucidità del giudizio stori- co l'efficacia di una scrittura incisiva come una la- ma: "Fu l'unico e ultimo, debole conato di parteci- pazione attiva alla vita politica da parte di una ge- nerazione cresciuta dopo la grande smobilitazione ideologica degli anni '80. Quella generazione tentò allora di alzare la testa. Fu bastonata e la riabbassò per non alzarla mai più. Soltanto due mesi dopo quel luglio del 2001 venne l'Undici Settembre a seppellire lo slancio del movimento altermondiali- sta. Adesso, dieci anni più tardi, la carne morsa dal- la crisi, ci accorgiamo di quante ragioni ci fossero in quelle azzittite voci di dissenso". ■