Dopo la morte di Jobs, una riflessione su editoria e fantascienza Un uomo venuto dal futuro di Marco Lazzarotto La crisi dell'idea di futuro è uno dei "grandi te- mi" di inizio Duemila, e non è azzardato dire che una parte di responsabilità ce l'abbia Steve Jobs. Certo, le vere cause vanno ricercate altrove, ma qui si parlerà dell'uomo di Cupertino, del chief executi- ve officer della Apple, e di fantascienza: perché, in letteratura, a fare le spese della crisi dell'idea di fu- turo è stato proprio il genere fantascientifico. Pren- diamo due autori di riferimento del cyberpunk, che tanto andava di moda tra gli anni ottanta e novanta, e che aveva saputo intuire il nostro presente: Wil- liam Gibson e Neal Stephenson. Il primo ha inven- tato concetti come il cyberspazio e anticipato la real- tà virtuale (si vedano l'antologia La notte che bru- ciammo Chrome, 1986, e soprattutto il romanzo Neuromante, 1984), ma a partire da IL accademia dei sogni (2004) ha cominciato ad ambientare i suoi ro- manzi nel presente; mentre Stephenson, autore di due capolavori cyber come Snow Crash (1992) e Ce- ra del diamante (1995), con i romanzi del Ciclo ba- rocco (2004-2005) ha creato un colossale affresco storico che, mescolando personaggi reali e di fiction, ricostruisce le grandi sfide scientifiche dal Seicento in avanti in chiave awenturoso-picaresca. Dunque, una crisi del genere fantascientifico pro- prio in corrispondenza del Duemila, come se fosse venuta meno una data con cui confrontarsi, verso cui tendere. Una data con la quale identificare l'idea di futuro. Ma negli anni Duemila c'è stato anche l'apice della carriera di Steve Jobs. Nella corposa biografia scritta da Walter Isaacson {Steve Jobs, ed. orig. 2011, trad. dall'inglese di Paolo Canton, Laura Serra e Lu- ca Vanni, pp. 642, € 20, Mondadori, Milano 2011: opera su Jobs voluta da lui stesso, di fronte alla mor- te imminente), il capitolo conclusivo elenca i prodot- ti lanciati da Jobs che "hanno rivoluzionato interi set- tori", cioè, nel primo decennio del secolo, iPod, iTu- nes Store, iPhone, App Store, iPad, iCloud. L'uomo che ha inventato il futuro, così recita il sottotitolo ita- liano di un altro uscito dopo la morte di Jobs e scrit- to da Jay Elliot, ex vicepresidente esecutivo di Apple, con William L. Simon (Steve Jobs, ed. orig. 2011, trad. dall'inglese di Ilaria Katerinov, pp. 256, € 19,90, Hoepli, Milano 2012): e se invece fosse "l'uomo che ha annullato il futuro"? Uno dei punti di forza della fantascienza è la capacità di stimolare, se non addirit- tura condizionare, il nostro immaginario proprio per quel che riguarda l'idea di futuro, creando un senso di attesa per quello che sare- mo, o che potremo diventa- re, o che sarebbe meglio non diventassimo; forse, anche un po' presuntuosamente, ha preteso di fissare delle tappe, dei punti di arrivo dello sviluppo dell'umanità. Il problema è che le inven- zioni di Jobs sono state così geniali e avanti con i tempi che gli scrittori di fantascien- za non hanno nemmeno avuto il tempo di immagi- narle, e quindi di condizio- nare il nostro immaginario e di "prepararci". (Forse Ste- ve Jobs stesso è un perso- naggio di fantascienza, uno di quegli "uomini venuti dal futuro" che, portando con sé le conoscenze della pro- pria epoca, diventano dei ve- ri e propri messia). Il volume di Isaacson ri- porta un episodio molto in- teressante. Nel 1983, per lanciare il primo Macintosh, la Apple fa realizzare un (costosissimo) filmato di sessanta secondi (reperibile su YouTube): lo scenario è cupo, fumoso, postindu- striale, "futuribile". Lo spot (che a Jobs piacque tantissi- mo) sembra quasi suggerirci che Jobs stesso, nell'i- deare i propri prodotti, abbia ingaggiato una sfida con la fantascienza, o meglio, con l'idea di futuro creata dalla fantascienza. Ha vinto, e non solo: l'ha sorpassata. In Mao II di Don DeLillo (1992), uno dei protagonisti, lo scrittore Bill McGray, parla così del suo mestiere: "C'è un curioso nodo che lega roman- zieri e terroristi. In Occidente noi diventiamo effigi famóse mentre i nostri libri perdono il potere di for- mare e di influenzare. (...) Anni fa credevo ancora che fosse possibile per un romanziere alterare la vita interiore della cultura. Adesso si sono impadroniti di quel territorio i fabbricanti di bombe e i terroristi. Ormai fanno delle vere e proprie incursioni nella co- scienza umana. Era quanto solevano fare gli scritto- ri prima di essere mercificati". Aggiornare questo discorso vent'anni dopo significa posizionare in quel "territorio" una nuova categoria di persone: quella dei Jobs, degli Zuckerberg, dei Page e dei Brin... chiamateli hackers, geeks, signori della Silicon Valley, come preferite, ma sono loro, oggi, a fare "incursio- ni nella coscienza umana", anzi, lunghi assedi. È Fa- cebook, oggi, non i romanzi, a formarci e influen- zarci: ha reso quanto mai ambiguo il termine "ami- cizia"; ha annullato la sottile membrana che separa- va il pubblico dal privato; ha creato nuove forme di aggregazione; ha generato l'ansia del "condividere". Le creazioni di Jobs hanno qualcosa di diverso. Se Facebook ha cambiato il mondo a partire da deside- ri esistenti, condivisi, e anche molto bassi ("Vediamo un po' che combina quel mio compagno di liceo che non vedo da dieci anni..."), i prodotti della Apple degli anni Duemila hanno ribaltato l'esistente, creando anche molta confusione. Ad esempio, dopo l'avvento deU'iTunes Store e dell'iPod, ha ancora senso, per un musicista, ragionare sulla propria mu- sica in termini di album? E con la diffusione dell'i- Pad, ha ancora senso pensare ai romanzi come una volta? Oppure è lo strumento stesso che sta offren- do nuove possibilità di raccontare le nostre storie? Il contenitore sta modificando il contenuto, eppure si continuano a organizzare le canzoni in album e i ro- manzi in paragrafi, pagine, capitoli. In un saggio molto interessante di Hubert Dreyfus e Sean Dorrance Kelly, Ogni cosa risplende. I classici e il senso della vita (ed. orig. 2011, trad. dall'inglese di Cristina Spinoglio, pp. XH-218, € 22, Einaudi, Torino 2012), si distinguono i grani pensatori della storia in due categorie: i riformulatori, che "hanno la funzione di mettere a fuoco ciò che è più significati- vo [nella loro cultura] e, nel contempo, lo fanno ri- vivere sotto una veste nuova"; e i riconfiguratori, in- vece, che attuano una trasformazione ben più deci- siva, "così radicale che, per risultare comprensibili, non possono più basarsi su .un linguaggio esistente (...). Di conseguenza spesso non vengono capiti dal- la gente della loro stessa cultura". E questi ultimi "sono o degli dèi o dei pazzi". Il 27 gennaio 2010 a San Francisco Steve Jobs pre- sentò l'iPad. Va detto che il prodotto non era anco- ra disponibile e che la dimostrazione delle sue fun- zionalità avvenne esclusivamente tra le sue mani; ep- pure le prime reazioni furono tutt'altro che entusia- ste: quotidiani e blog lo sbeffeggiarono, e in quei giorni Jobs "era nervoso e abbattuto" (Isaacson). Poi ad aprile l'iPad uscì, e in meno di un mese ne venne venduto un milione di esemplari: in meno di un anno, si raggiunsero i quindici milioni, "il lancio di un prodotto di consumo di maggior successo nel- la storia". Qual è il punto? Quel giorno di gennaio in molti presero Jobs per un pazzo. Sosteneva di ave- re tra le mani un oggetto rivoluzionario, ma che ro- ba era? Non era né un iPhone, né un portatile... non si capiva. Sembrava che, per la prima volta, Jobs avesse fatto un buco nell'acqua. E invece non era an- cora stato capito: l'iPad è un tablet, neppure il Mer- cato sapeva di avere bisogno di un prodotto del ge- nere. E che un oggetto come l'iPad, per usare i ter- mini di Dreyfus e Kelly, non riformula la realtà, ma addirittura la riconfigura. Jobs ha creato dei disposi- tivi che possono fare delle cose che ancora non ci so- no, e che forse lui stesso neanche immaginava, come se il prodotto trascendesse il suo inventore. Premesso che Dreyfus e Kelly attribuiscono una funzione riconfìgurante soltanto a due figure, perlo- meno nella cultura occidentale, e cioè Gesù Cristo e Cartesio, non è esagerato - magari qualche gradino più in basso - dirlo anche di Jobs. Perché, affermano gli autori, l'opera del riconfiguratore potrebbe essere così radicale "che il pubblico potrebbe addirittura non capire quel che gli si richiede e potrebbe avere bi- sogno di un riformulatore", qualcuno che "dia senso (...) e lo renda comprensibile". Chi può, al momento attuale, svolgere questo ruolo di riformulatore? Forse gli scrittori. Dovrebbero raccontare le nuove tecnolo- gie, dare a esse un ruolo di primo piano nei romanzi, e invece sembra che le si stia evitando: forse perché inserire un iPhone in un racconto lo rende meno "letterario"? Va detto pe- rò che stiamo attraversan- do un momento di confu- sione, o di sovraesposizio- ne: ogni giorno spuntano nuovi gadget, app e social network, ed è difficile sta- re al passo, capire come funzionano, farli entrare nelle nostre vite, permette- re loro di modificare le no- stre abitudini, e dunque raccontarli. Però è un'oc- casione per far nascere una nuova fantascienza, o quantomeno una lettera- tura che parli di futuro, che ci sveli i misteri di que- ste tecnologie, che ci dica cosa diventeranno e dove ci porteranno. Magari i ro- manzi, non saranno di nuovo in grado di formare e influenzare le nostre co- scienze, ma quantomeno ci saranno d'aiuto, anche per ricostruire, poco per volta, un'idea di futuro. ■ marcolazzy@libero.it M. Lazzarotto è scrittore La mela bacata di Giuliana Olivero Dopo la sequela di ritratti glorificanti di Steve Jobs che da mesi affollano le librerie e Internet, questo pamphlet di Evgeny Morozov (Contro Steve Jobs. La filosofia dell'uomo di marketing più abile del XXI secolo, ed. orig. italiana, trad. dall'inglese di Massimo Durante, pp. 102, € 6,90, Codice, Torino 2012), senza in realtà porsi "contro", punta al ridi- mensionamento del personaggio e, soprattutto, del- la sua acritica mitizzazione mediatica. Morozov, ri- cercatore di Stanford, giornalista ed esperto del web, è vaccinato contro i culti della personalità, quelli di stampo sovietico (essendo nato in Bielorussia dove persistono retaggi dittatoriali), ma anche quelli pro- dotti dalla "libera" retorica del consumismo. Senza mezzi termini Morozov domanda: "Steve Jobs è stato un filosofo che ha cercato di cambiare il mondo, oppure è stato un genio del marketing, capace di trasformare una normale azienda produt- trice di computer nell'oggetto di una vera e propria venerazione, mentre era indaffarato a regolare i conti con il passato e a nutrire il suo gigantesco ego?". E procede poi con argomentazioni dense ma molto chiare. Nel ricordare, ad esempio, che il tanto decantato design della Apple - "Purezza", "Essenza", "Bellezza" - trova le sue radici negli og- getti della defunta azienda tedesca Braun nonché nel movimento Bauhaus, ispirazione sempre leg- gendariamente dichiarata da Jobs (lo spremiagrumi della sua infanzia...), sottolinea le incoerenze di questa eredità (in oggetti come iPhone e iPad, che fanno mille cose diverse, dov'è il nesso per cui "la forma segue la funzione"?), evidenziando quali so- no semmai gli aspetti ricalcati dal rigido paradigma funzionalista, l'aver creato cioè per i designer (e per i produttori) "l'illusione di lavorare al di fuori del- la realtà grossolana delle logiche di mercato, e di dedicarsi alla ricerca della verità", e per i consuma- tori quella di sentirsi un'élite pur essendo una mas- sa come tante a cui si richiede unicamente di ac- quistare. E non solo, negli anni ottanta, il Macin- tosh fu presentato come un baluardo della contro- cultura e dell'anticapitalismo, con lo spot che mo- strava le truppe delle grandi corporation come la Ibm, colpevoli di schiavizzare gli americani, mar- ciare imperterrite verso l'abisso. "È come se l'ac- quirente di un prodotto Apple fosse indotto a cre- dere di essere arruolato in una missione storica di portata mondiale e rivoluzionaria". Il termine "ri- voluzione" era molto presente nella retorica di Jobs, che nelle interviste usava sempre toni enfati- ci: se la Apple avesse perso terreno, "l'innovazione verrebbe meno e sprofonderemmo in un'epoca buia dell'informatica". Per non parlare, evidenzia ironicamente l'autore, dell'ascetismo buddista di Jobs unito al fatto di aver creato un'impresa diven- tata "il simbolo del feticismo digitale".