IL VALORE SOCIALE DELLA PICCOLA IMPRESA di Giancarlo Rovati Il valore sociale della piccola impresa è sicuramente connesso alle sue prestazioni economiche, cioè al contributo che questa costellazione di attività produttive fornisce al reddito degli individui, delle famiglie, del sistema locale e nazionale; questo metro di giudizio non è tuttavia sufficiente per cogliere interamente i complessi meccanismi del consenso che di fatto fanno vivere l'impresa. Basti osservare che in un dato momento il "bilancio economico" di un'impresa (o di un sistema di imprese) può essere positivo, mentre il suo "bilancio sociale" può essere negativo. Solo raramente peraltro, e per un breve periodo, può verificarsi il contrario. Un bilancio economico positivo è in pratica una condizione necessaria ma non sufficiente perché sia positivo anche il bilancio sociale. In ogni caso, se queste due condizioni restano per troppo tempo divergenti, è inevitabile che vengano seriamente compromessi il funzionamento e la sopravvivenza dell'impresa. Nessuna istituzione può sopravvivere se viene meno la capacità di corrispondere alle aspettative prevalenti dei suoi più importanti destinatari (diretti o indiretti). Per comprendere il senso di tali affermazioni occorre tener presente che l'impresa è un sistema organizzato di relazioni tra persone (uomini che lavorano), cose (beni strumentali) e simboli (valori, significati, beni immateriali); che i protagonisti delle relazioni che consentono la vita dell'impresa sono molteplici (si pensi alle interazioni tra l'imprenditore, i dipendenti, i fornitori, i clienti, gli organismi sindacali, l'apparato politico-amministrativo, il sistema delle imprese); che questi attori detengono un potere differenziato e sono portatori di interessi in parte concordi e in parte conflittuali. L'equilibrio problematico e sempre instabile tra i fattori sopra indicati non impedisce il formarsi di opinioni prevalenti e il raggiungimento di punti di accordo sostanzialmente maggiori dei punti di disaccordo; non impedisce, in sostanza, la formazione di un consenso sociale di fondo che va oltre i sempre presenti e inevitabili motivi di insoddisfazione. In tutti i casi, è bene ricordare che la "concordia" e la composizione dei conflitti tra le parti non vengono raggiunti solo in base ai rapporti di forza e/o di convenienza, bensì presuppongono un accordo sulle cosiddette "regole del gioco", che in concreto implicano il consenso sui fini (costituiti da interessi ma anche da valori) e sui mezzi (materiali ma anche relazionali) per conseguirli. In termini storici è facile osservare che la legittimazione sociale della piccola impresa ha attraversato nel nostro Paese fasi alterne, a seconda delle valutazioni e dei sentimenti prevalenti in un certo periodo, sia tra gli "addetti ai lavori", sia tra l'opinione pubblica non qualificata. A una fase di sostanziale sfiducia (dagli anni '60 fino alla prima metà degli anni '70) è subentrata una fase di elevato e forse anche eccessivo ottimismo (fino alla prima metà degli anni '80), per poi avviarsi alla fase - tuttora perdurante -di incertezza per le sorti della PMI, nel contesto di una sostanziale ristrutturazione della divisione internazionale del lavoro. Se gli orientamenti dell'opinione pubblica (qualificata e generica) non forniscono di per sé il metro di giudizio "più giusto", né la visione più corretta della realtà, è anche vero che essi danno il polso dei sentimenti collettivi, i quali rappresentano, in ogni caso, una risorsa che concorre a promuovere o a comprimere le possibilità espressive dei diversi attori sociali. La valutazione della piccola impresa si basa sul bilancio economico e su quello sociale. Negli ultimi trent'anni la legittimazione sociale della piccola impresa ha attraversato fasi alterne. 17