Ma la Fiat è davvero così forte? di Giuseppe Volpato ^ a recente lettera agli m azionisti del gruppo Fiat ^ e l'iniziativa dei sabato di lavoro straordinario hanno confermato, persino oltre le aspettative, il recupero produttivo e finanziario della casa automobilistica. Si tratta di un successo che acquista un significato speciale, non solo per il ruolo simbolico che da molti decenni la Fiat gioca nella definizione dell'immagine industriale del paese, ma anche per il fatto che si manifesta in un settore industriale in cui le difficoltà, innescate dal rincaro petrolifero e dalla saturazione dei mercati, non sono ancora state superate da altre importanti case costruttrici europee, nonostante condizioni economico-generali mediamente più favorevoli (mercati nazionali più vasti, minor inflazione ecc.). Di fronte alle difficoltà innegabili, anche se diversamente graduate, di Renault, Austin-Rover, Ford, Citroen, ecc., anche chi si trova con un contenzioso aperto con la casa torinese non può soffocare un sottile ma tenace senso di legittima soddisfazione «nazionale». Aspetti della riorganizzazione In caso di crisi, le imprese operanti in settori in cui la componente dei costi fissi è particolarmente rilevante, come nel caso automobilistico, tentano tradizionalmente di ricostituire l'equilibrio economico attraverso una intensificazione del livello produttivo, che consenta una diminuzione dell'incidenza di questa voce di costo per unità di prodotto. Una iniziativa che ovviamente richiede sul piano commerciale una tattica decisamente aggressiva nei confronti della concorrenza, che porta alla riduzione dei prezzi. Se la perdita di prezzo a cui si deve andare incontro è inferiore alla riduzione di costo unitario, dovuta al maggior volume di produzione, l'operazione risulta conveniente. Ma nel caso dell'automobile, questo genere di politica è apparso scarsamente praticabile. Il ristagno delle vendite non derivava tanto da una debolezza intrinseca della domanda, quanto dal fatto che la domanda esigeva un tipo di prodotto che le case costruttrici avevano grosse difficoltà a fornire: essenzialmente vetture a bassi consumi (con una grossa incidenza dei tipi diesel) all'interno dei vari segmenti di mercato. Senza il prodotto adatto, una riduzione di prezzo non era in grado di attivare nella misura necessaria l'elasticità della domanda. D'altra parte proprio la presenza così rilevante di costi fissi creava una consistente barriera all'uscita. La politica di riduzione dei listini avrebbe innescato una vera e propria «guerra dei prezzi» che tutti i produttori avevano interesse a scongiurare, visti i fortissimi investimenti di razionalizzazione richiesti da una consistente riprogettazione del prodotto e del processo produttivo. L'impostazione di un nuovo approccio non fu immediato. Anche negli Stati Uniti, dove la presenza della concorrenza giapponese si manifestava liberamente, solo all'inizio degli anni '80 si mise in moto una organica strategia alternativa, volta ad eliminare le produzioni obsolete e ad impostare radicali innovazioni di prodotto e di processo. Anche la Fiat perse degli anni preziosi, ma per fortuna la natura generale del ritardo nella risposta evitò un deterioramento della situazione che avrebbe potuto essere fatale per un national champion come la casa torinese, che non poteva contare su forme di sostegno dirette e indirette quali quelle mobilitabili (e in alcuni casi mobilitate) all'occorrenza da paesi come la Germania, la Francia e l'Inghilterra. Le modalità della riorganizzazione La sopravvivenza della Fiat veniva quindi a legarsi alla capacità di raggiungere un equilibrio tra costi e ricavi su un livello produttivo più basso, investendo contemporaneamente nel rinnovo della gamma dei prodotti, non sufficientemente aggiornata, e nei processi di produzione, introducendo cioè ulteriori sistemi di automazione1. Come è noto i «costi» di questo programma sono stati: una drastica riduzione degli organici, passati da 139.949 (occupati in Italia) nel 1979 a 89.657 nel 1984; un rapido ritiro da tutti i mercati esteri non «vitali» (USA, Spagna e Sud America, con l'eccezione del Brasile); una severa selezione di aziende nell'indotto; una pronunciata pressione nei confronti della rete distributiva: passaggio da commissionari a concessionari, riduzione dei margini di vendita, compartecipazione alle spese di promozione delle vendite.