EDITORI ALE la moltiplicazione dei controlli formali, nell'assenza più totale di controlli di merito sull'efficienza e la giustizia dell'operato della Pubblica Amministrazione. Lo statalismo corporativo è ormai diventato una mentalità difficile da sradicare, perché si regge sul circuito perverso che lega burocrazia, sindacato, classe politica, grandi gruppi industriali e finanziari. Ecco, in sintesi, il circuito: una burocrazia orientata all'adempimento delle norme anziché a produrre risultati, ma nello stesso tempo paralizzata dalla proliferazione delle norme, trova sostegno in un sindacato terrorizzato dall'idea di introdurre elementi di competizione e di meritocrazia; una classe politica all'affannosa ricerca del consenso di brevissimo periodo, e perciò inevitabilmente ricattabile e corruttibile, deve poter contare sul sostegno dell'apparato burocratico e sindacale; i grandi gruppi industriali e finanziari, abituati a godere di rendite da monopolio tenacemente difese, coltivano rapporti privilegiati con gli apparati burocratici, sindacali e politici che sfociano in leggi e provvedimenti discrezionali in loro favore: il cerchio così si chiude. Naturalmente, in questo quadro, la grande assente è una sana competizione. In Italia, infatti, la sana competizione non ha avuto spazio per manifestarsi, se non per quel 30% dell'economia aperto alla concorrenza internazionale. Così, ci troviamo in una situazione in cui il 53% del PIL è fatto di spesa pubblica (il che è già abbastanza grave: lo stesso dato per i Paesi dell'ex socialismo reale è talvolta più basso!). A quel 53% si deve aggiungere che interi settori, formalmente privati, di fatto sono controllati dalla mano pubblica: basti pensare alle banche, alle telecomunicazioni, ai trasporti. Altri settori, sostanzialmente privati, finiscono poi per dipendere largamente dalle decisioni e dal sostegno pubblico: l'agricoltura, ad esempio. In queste condizioni non c'è da stupirsi del fatto che il mercato borsistico sia asfittico, che sia determinato dall'azione dei soliti pochi grandi gruppi e che anche le privatizzazioni finiscano per essere occasioni perse e ridursi a poco più che "una finta". I nodi dello statalismo corporativo sono venuti al pettine: dalla crisi del debito pubblico alla crisi della lira, dalla sfida del cambiamento tecnologico a quella della competitività internazionale delle nostre imprese, dallo svuotamento di potere reale degli Stati-nazione ai nuovi assetti geopolitici aperti dalle integrazioni regionali e dalla crescita asiatica. Non è più tempo di manovrine e di ritocchi marginali alla concezione statalistico-corporativa, che non viene certo messa in discussione dall'introduzione di un po' di "mercato". È tempo di scelte; e anche il rimandare è una scelta: quella sbagliata. In questo statalismo corporativo diffuso, che non lascia spazio alla sana competizione, è abbastanza evidente che non bastano a sbloccare realmente la situazione né l'ingegneria istituzionale (dalle riforme elettorali alle leggi di riforma della Pubblica Amministrazione), né la lotta alla corruzione (da "mani pulite" all'illusione che i nuovi e gli onesti garantiscano efficacia ed efficienza). Sia le riforme istituzionali che la lotta alla corruzione, naturalmente, sono strumenti giusti e necessari, ma sono insufficienti a cambiare dal di dentro le relazioni fra società, economia e politica. Per farlo occorre, essenzialmente e semplicemente, mettere in questione la cultura statalista e corporativa che pervade l'atteggiamento dei singoli e delle istituzioni. Purtroppo, il dibattito politico-economico nel nostro Paese non sembra accorgersi dell'urgenza di guardare in faccia alla realtà e cincischia su questioni che apparentemente riguardano i massimi sistemi, ma che sono solo ideologiche nel senso deteriore del termine. Invece di cogliere le sfide dell'efficienza e della giustizia, il dibattito appare insterilito nella contrapposizione tra false alternative. Quanto agli scenari futuri, alla rassegnazione ad un improbabile "sviluppo senza occupazione", diffusa tra i professori, si contrappone la rivendicazione di una impossibile tutela della 6 "occupazione senza sviluppo", diffusa tra i nostalgici del "meno orario a parità di salario".