vince e ridurre il numero dei Comuni, sia pure con il fine di aumentare l'efficienza degli enti locali, irrobustirne l'autonomia e dilatare il livello partecipativo dei cittadini, è certo impresa impopolare, troppo rischiosa per meritare la considerazione attenta dei politici. Chi, tra questi, azzardasse pronunciarsi favorevolmente troverebbe l'immediata ostilità di amici e avversari, giustamente preoccupati delle reazioni delle innumeri amministrazioni locali, rappresentative di quel tal pulviscolo elettorale su cui si regge, spesso, il clientelismo frantumato, ma profìcuo di voti, di una fetta abbastanza grande del Paese. Soprattutto vigorosa e immancabile sarebbe l'opposizione dei comuni minori, con il loro piccolo esercito di ventisettemila e più amministratori (2), agguerrito nella difesa ad oltranza di antiche prerogative e di un'autonomia risolventesi, spesso, nella mera tutela di interessi di gruppi familiari o personali ma priva, in pratica, di una qualsiasi incidenza politica. Anche le parti più provvedute, di fronte alle troppe difficoltà, si vedono quindi costrette a disarmare rinviando a tempi più maturi la risoluzione radicale del problema che, se è politico, ha tali e tanti risvolti, in termini di tradizione, nel minuto piano locale, da creargli infinite remore nelle sedi e per i motivi più diversi. D'altronde è noto che di analogo problema soffrono quasi tutti i Paesi europei, al pari e talvolta più del nostro inflazionati dalla parcellizzazione dei Comuni, a cui i relativi quadri politici non hanno saputo finora dare risposte soddisfacenti per ridurla entro limiti ragionevoli (3). Occorre però dare atto che in alcuni Paesi (ad esempio Inghilterra, Germania) si sta lavorando seriamente per ovviare agli inconvenienti ormai macroscopici che tale frazionamento reca con sé, mentre in altri (e tra questi la Francia) si va da tempo insistendo su una politica di interco-munalità con la formazione di « groupements » di comuni, cui vengono demandati compiti di pianificazione (urbanistica, di servizi essenziali, ecc.) diversamente impossibili. Come uscire, dunque, dal vicolo cieco entro il quale ci si va a cacciare ogni qualvolta si affronta il problema della rifondazione del potere locale? Ed è davvero tanto vincolante e insormontabile la norma costituzionale da rendere improponibile una diversa organizzazione e una più aggiornata delimitazione (di ruoli, oltre che ter- ritoriale) degli enti locali col semplice ricorso alle leggi ordinarie? Su codeste questioni gli apporti dottrinali di studiosi e uomini di partito sono ormai cosi numerosi, spesso ripetuti, sebbene senza esito, che riesce arduo coglierli con la dovuta sistematicità (4). Questa notazione non impedisce di rilevare, nell'insieme delle argomentazioni svolte prò e contro l'una o l'altra tesi, una vasta gamma di proposte e impostazioni metodologiche spesso tra loro discordanti: quanto basta per alimentare la confusione sul piano della concretezza e dare esca agli oppositori alle riforme, solitamente ancorati alle concezioni centralistiche di ottocentesca memoria. L'entrata in funzione delle Regioni a statuto ordinario rappresenta, peraltro, un punto fermo nella realtà politica e sociale del nostro Paese, al (2) Distribuiti in oltre 1815 Comuni con meno di mille abitanti residenti. (3) In una delle sessioni del convegno di Salisburgo i delegati francesi, pur lamentando il gran numero di Comuni (oltre 36.000) del loro Paese, hanno ammesso che la questione non ha vie d'uscita poiché nessun politico se la sente di proporre l'eliminazione di un comune, per quanto piccola sia la sua ampiezza demografica (ed in Francia sono parecchi i comuni con pochissime decine di abitanti). Testimonianze non dissimili hanno offerto i delegati dell'Inghilterra (7500 consigli di parrocchia), della Germania (24.368 comuni), del Belgio (2600 comuni), Austria (3436 comuni). Assai meno grave è la situazione in Olanda (873 comuni), Danimarca (1350), Svezia (1000), Norvegia (466): in ognuno di codesti paesi già si è proceduto alla fusione di molti piccoli comuni (nel 1952 i comuni in Svezia erano 2500, in Norvegia 744 nel 1950) o si sta operando in tale direzione (in Olanda si conta di ridurli a circa 300 e in Danimarca a non più di 300-400). Per più vaste informazioni sull'argomento si rinvia al rapporto di Jurgen Hahn, I rapporti istituzionali fra i Poteri Locali, le Regioni e gli Stati nazionali in una Europa federale, in « Comuni d'Europa », organo dell'Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni d'Europa, Roma, giugno, 1970. (4) Si vedano, tra i molti, i contributi di Giancarlo Mazzocchi, Proposte per una nuova legge comunale e provinciale (in « Atti del Convegno regionale degli amministratori D.C.. Boario Terme, 22-23-24 ottobre 1971, supplemento al n. 1/2 di Esperienze Amministrative) e di Silvano Labriola, Relazione di base al Convegno del P.S.I. sulle Autonomie Locali, Firenze, 24-25 ottobre 1975 (in supplemento al n. 11 di novembre 1975 di «Il Compagno »). Il primo di detti Autori propone « una normativa di principio » a carattere nazionale, che si limiti a « dettare i principi di garanzia e di esplicazione dell'autonomia provinciale e comunale... determinando nel contempo il contenuto funzionale di questa autonomia ». Analoga posizione si rileva nel secondo autore, che avanza la proposta di un'abrogazione della vigente legge comunale e provinciale, da sostituirsi con una legge quadro delle autonomie locali, contenente pochi ed essenziali principi, rinviando la disciplina particolare alla specifica legislazione regionale ». Una citazione a sé, per l'ampiezza e l'acutezza dell'analisi, merita il volume di Enzo Modica, I Comunisti per le autonomie (ed. Lega per le autonomie e i poteri locali, Roma, 1972), di cui si ricordano, in particolare, i paragrafi sul sistema delle autonomie e sui rapporti con gli enti locali (pagg. 94-98) ed il capitolo III della parte terza « Per un nuovo ordinamento delle autonomie » (pagg. 154-170). 62 CRONACHE ECONOMICHE