Un lungo racconto sulla donna che ispirô Mistero napoletano Quando la storia cessô di respirare di Mario Marchetti La comunista (Due storie napoletane, pp. 144, € 12, Giunti, Milano 2012), ultimo affascinante lavoro dell'infaticabile Ermanno Rea, tardivamente approda-to alla scrittura d'invenzione (Rea è del 1927, e il suo primo testo pienamente narrativo, Lultima lezione, sulla scomparsa di Federico Caffè, risale al 1992), ma ormai affermatosi come una delle più originali pre-senze délia letteratura italiana contemporanea, in real-tà contiene due racconti lunghi, il primo che dà il titolo al volume, e un secondo, Locchio del Vesuvio. Forse il più riuscito, narrativamente, è quest'ultimo, ma certo il più suggestivo è il primo, per gli echi che suscita e per il suo inanellarsi con le opere precedenti di Rea. Come sempre Napoli è al cuore di entrambi i racconti, quella Napoli intensamente amata e disama-ta da Rea, città da lui respinta e alla quale è tornato per indagarla nel suo présente e nel suo passa-to, nel suo destino di città investi-ta da una lunga glaciazione, in cui tutti i vizi italiani sembrano distil-larsi; ma anche le virtù, se voglia-mo, come emerge dalXOcchio del Vesuvio e dall'amabile figura del professor Ammenda che sa legar va umilmente sottomettersi, emerge in tutta la sua anomalia, come peraltro vale per Lapiccirella, con il suo incontaminato gusto per la verità (insomma, un italiano atipico: sull'idiosincrasia degli italiani per la responsabilità individuale, Rea ritorna nel bel saggio del 2011 La fabbrica dell'obbedienza recensito in questa stessa pagina). La Napoli e il Pci di allora erano inconciliabili con Francesca, subdolamente addi-tata come reproba da Cacciapuoti (e non solo): ave-va avuto due figli da un uomo con cui non era spo-sata, figli che le erano stati sottratti, si era imposses-sata di alcune coperte non sue in una Latina bom-bardata (e fu, per questo, processata per saccheggio), conviveva, more uxorio, con Lapiccirella. Un partito perbenista e moralista com'era il Pci (basti pensare si di un'inedita amicizia con "l'uomo delle mani d'oro", il fale-gname polacco che eseguirà una sorta di mausoleo barocco per i suoi preziosi libri, mausoleo de-stinato a un lento e rovinoso oblio in quella "landa asservita al de-monio" che è l'area tra il Vesuvio e la costa partenopea. Ma chi è "la comunista"? È quella Francesca Spada, morta suicida nel 1961, alla quale Rea dedicô il suo memorabile Mistero napoletano, una ricostruzione sullo sfondo délia Napoli del-l'immediato dopoguerra, fino a tutti gli anni cinquanta, delle vi-cende del Partito comunista, ricostruzione incentrata sulle figure di Francesca, appunto, e di Renzo Lapiccirella, il suo com-pagno, che rinunciô alla passio-ne medica per la passione politica. Una Napoli "sequestrata dalla guerra fredda", diventata la base délia Sesta flotta e del Co-mando delle forze alleate del-l'Europa méridionale (Afsouth), una Napoli che rinuncia gioco-forza - con l'aiuto, paradossal-mente, proprio di un armatore, il carismatico "comandante" Achille Lauro, dalla misteriosa e travolgente carriera politica - alla propria vocazione marittima (e di qui il célébré titolo di Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli), da una parte, e, dall'al-tra, un Pci ingessato sotto la fe-rula dello stalinista Salvatore Cacciapuoti, un partito timoroso e sprezzante nei confronti di una città plebea e del suo Lumpen-proletariat, patria, per di più, degli eredi di Bakunin (il professor Caccioppoli, suo nipote) e di Amadeo Bordiga, partito in cui il potere era largamente in mano ai pru-denti Giorgio Amendola e, poi, Giorgio Napolitano. Il teorema di Rea è in sintesi questo: il declino irre-versibile délia città sarebbe da ascrivere a una sorta di convergenza triangolare, mai pienamente esplicitata (e forse neanche del tutto consapevole da parte del Pci), fra Stati Uniti (Nato), governo italiano e leadership locale comunista. In un simile contesto la figura di Francesca Spada, questa "beËissima borghe-se", dal turbolento passato, con la sua passionalità, il suo afflato misticheggiante e utopistico, con la sua inosservanza delle regole, aile quali tuttavia desidera- Italiani, brutta gente! Aispirare il libro La fabbrica dell'obbedienza (Il lato oscuro e complice degli italiani, pp. 219, € 16, Feltrinelli, Milano 2012) - nato dalle successive rielaborazioni del testo letto nefl'estate 2009 al Middlebury College, tra i boschi e le brughiere del lontano Vermont - è il filosofo Bertrando Spa-venta con il suo Rinascimento Riforma Controriforma del 1928. Ma è proprio in pieno Rinascimento che va rintracciato l'altro nume tutelare di questo gustoso e invelenito pamphlet: l'eretico Giordano Bruno, autore del "più eroico 'no' mai pronunciato". Non a caso Rea - che lascia il romanzo-saggio per un vero saggio (anche se mette le mani avanti proclamando di non essere né storico né saggista) - si abbandona, delineando il "carattere degli italiani", a una feroce invettiva contro la chiesa catto-lica, responsabile di un'indole che dispone aU'obbedienza passiva. Se non per scatti di ribellione come in Bruno, la cui figura viene recuperata anche per il significato di "modello" per liberi pensato-ri. Il Nolano incarna cosi l'"uomo nuovo" rinascimentale, il ribelle sperimentatore in ogni campo ca-ro a Eugenio Garin. Ma con il rogo di Bruno si è combusto tutto il Rinascimento, la cui eredità passa alla filosofia tedesca, da Kant a Hegel. Che è quanto sostiene Bertrando Spaventa, che trova un preciso awio per il declino italiano: la Controriforma. "Spaventa è perentorio: - scrive Rea - da quel momento l'Italia è costretta a vivere 'come separata' dalla vita universale". E il cittadino responsabile diventa un suddito deresponsabilizzato. La Controriforma appare "come motore di una vera e propria mutazione antropologica". Riprendere lo "spirito hegeliano", e svelarne la matrice italico-ri-nascimentale, significa allora per Spaventa riprendere anche il filo délia nostra migliore tradizione fi-losofica. Ma forse oggi, sembra dire Rea, è troppo tardi e anche di quello stesso spirito hegeliano resta poco: "Abbiamo tutti (no, non tutti, ma tanti, troppi) sposato la Controriforma; ci siamo fatti Chiesa noi stessi; i nostri peccati ce li assolviamo da soli, evitando di recarci perfino al confessiona-le. Come tanti Provenzano, le nostre case pullulano di santini e di refurtiva". Un lungo percorso storico che attraversa fascismo, craxismo e berlusconismo. Gobetti sentiva in Italia ancora un bisogno di protestantesimo (bisogno che in letteratura, nota Rea, emergeva nel 1921 in Rubè di Borgese), per awiare finalmente alla libertà, alla serietà morale e a un'educazione mo-derna. La risposta fu la repressione clerico-fascista. Sarà Malaparte a dire come il fascismo volesse ri-destare la Controriforma con un rigore e uno spirito dogmatico che hanno un'impronta méridionale e orientale che è nell'essenza stessa délia civiltà latina. Malaparte finisce cosï per adattare aile sue esigen-ze idee di Leopardi, contrapponendo "lo spirito critico, di natura occidentale e nordica" a "quello dogmatico di natura orientale e méridionale". Non sembra poi che Mussolini si sia mai lamentato d'essere stato infilato nelle vesti d'un principe délia chiesa. "Identica comunque la missione da parte di entrambi (fascismo e Controriforma): imporre attraverso la violenza il pensiero unico, cioè la mordacchia al dis-senso". Se con Mussolini si instaura un regime, di norma "la Chiesa non chiede formalmente alla politica di uccidere la democrazia. Chiede di limitarla nei suoi impulsi autocorrettivi; di porre un freno al dissenso, alla dialettica, al cambiamento". E siamo cosi alla perpetuazione dello spirito controriformi-sta fino al secondo dopoguerra, a prima e seconda repubblica. E in quello snodo tra prima e seconda nell'accoppiata Craxi-Berlusconi, a partire dagli "infami anni ottanta". Rea sottolinea qualcosa che mol-ti dimenticano: i giudici non si sono accaniti contro il premier di Arcore quando questi è sceso in politica; piuttosto il contrario, Berlusconi scende in politica perché già assediato dai problemi giudiziari. Lo "scontro" con la magistratura risale aile origini dell'impresa berlusconiana, a quel 1984 quando i pre-tori di Torino, Roma e Pescara fanno disattivare gli impianti per impedire le trasmissioni sul territorio nazionale. Finivest si preparava cosï a unificare nel berlusconismo quel Paese troppo lungo di cui parla Giorgio Ruffolo in un libro (Einaudi, 2011), le cui idee in qualche misura riprende Rea, che, certo non sospetto di simpatie filo o neoborboniche, considéra provocatoriamente, alla stregua di Mario Marto-ne nel bel film Noi credevamo (2010), una "iattura" l'unità d'Italia, non in sé, ma per come è stata rea-lizzata, tutta a svantaggio del Sud: che è quanto già Gramsci sosteneva sottolineando, con toni che sem-brerebbero liberisti, l'incapacità délia borghesia industriale settentrionale postunitaria. L'amarezza con cui Rea addita (in uno dei periodi più bui délia storia d'Italia, tanto da "vergognarsi di essere italiano") mancanza di dignità, conformismo e servilismo nei confronti del potente di turno, investe anche il suo campo, la letteratura, nella quale si levano poche voci di dissenso. E anche questo è "controriforma". Enzo Rega sione alla reticenza e alla rimozione": gli ex o non ex compagni "vestono tutti bene, tessuti di buona quali-tà, camicie, cravatte, foulard, il che, per carità, non implica nulla di disdicevole, ma diventa disdicevole allorché appare segno di un benessere vissuto come traguardo, appagante punto di arrivo". Lo scrittore, dopo aver completato la sua trilogia su Napoli (Mistero napoletano del 1995, La dismissione del 2002 e Napoli ferrovia del 2007), torna sul luogo del delitto con La comunista, testo dalla prosa più aerea, dal ta-glio più libero, meno legato alla documentabilità, che lascia spazio aile emozioni e ai sentimenti: immagina un suo incontro, lui vecchio ultraottantenne, con Francesca, ormai un'ombra dell'Averno virgiliano, impalpabile e reale al tempo stesso, e con lei intreccia un dialogo-confessione. Natu-ralmente non tutto, se esiste un tutto, viene detto o puô essere detto. Racconta a Francesca del persistente fastidio che il nome di lei suscita ancora (i pettego-lezzi continuano, le "comari" parlano sempre), le racconta del tentativo di far passare, da parte dell'intellighenzia napoletana di sinistra, Mistero napoletano per un "romanzo", per una storia di alla vicenda dello stesso Togliatti con Nilde Iotti, per non dire dell'Ufficio quadri e delle biografie che bi-sognava stilare sulle proprie manchevolezze) non po-teva accettare tutto ciô, e a un certo punto Francesca viene sospesa da tutti gli incarichi di partito. Rea, nel 1993, a vari decenni dai fatti, décidé di condurre un'inchiesta, di compiere un viaggio "nel passato e nel non tempo", in una città in cui "im-prowisamente, un giorno, le lancette si bloccarono" e "la storia cessô di respirare" e dove venne soppres-sa "la possibilité stessa di un'etica délia salvezza". Come scoprï Rea, i nervi in proposito erano ancora sco-perti o, meglio, si trovô di fronte a "un'enorme pul- pura invenzione, per un roman-zetto d'amore (e in certo senso, e ironicamente, Rea, in una sorta di palinodia, ammette di essere stato catturato dal fascino di Francesca). Mentre passeggiano per Napoli, nei pressi délia chiesa di San Ferdinando (dove a metà degli anni novanta si è ce-lebrato una sorta di processo a Rea e al suo libro), e mentre di tanto in tanto la cara ombra scompare, emerge con forza il tema, concreto e simbolico, dei rifiuti ("Abbiamo taciuto tutti! Siamo stati tutti complici dei cri-minali"). Ritorna la città-melma, la città-palude: se prima Napoli era congelata dalla guerra fredda trasformandosi in un mercato a cielo aperto di merci di contrab-bando, adesso è diventata una discarica universale di veleni. Rea chiede una parola di conforta e Francesca suggerisce di "so-gnare e lottare per l'impossibi-le". Ma, di fronte aile repliche pessimistiche di Rea, l'ombra scompare e resta solo "il buio e il silenzio". Sulla copertina délia Comunista spicca, da uno sfondo incerto e oscuro, il bellissimo volto di una donna napoletana, che allude owiamente a Francesca: la fotografia proviene dal-l'archivio di Rea e si trova ora raccolta nel volume 1960. Io reporter. Nel 1957, Rea décidé di lasciare "L'Unità". Attraversa un momento di confusione, la sua "linea d'ombra", e cerca nuove strade: tenta di darsi alla narrativa, ma, all'epoca, recede dopo essersi sentito dire da un amico: "Il fatto è che non conosci la vita, e come si fa a raccontare quello che non si sa?". E cosï Rea, abbandonate le velleità letterarie, decise di affrontare l'animo umano con l'ausilio di una Leica. Viaggio molto per il mondo, fece inchieste fotografiche nella sua Napoli e nel Sud, cercando sempre di cogliere un guizzo segreto, di partire dalla superficie per andare oltre la superficie, come farà poi nelle sue opere di narrativa, di narrativa-indagine, non a caso. ■ m. ugomarchettig gmail. coin M. Marchetti è insegnante e traduttore