i N 3i inuiwp pag-11 ■■dei libri del meseHII Chiamatemi Fautore _ di Marisa Bulgheroni <11 analitico; ma le suggestioni di meto- do restano, in ogni caso, di grande interesse. Così un discorso a parte merite- rebbe, infine, la sezione dedicata al- la prosa non narrativa (pp. 853-1159): dai trattati sul comporta- mento (G. Patrizi) alle citate Forme della comunicazione scientifica; dal trattato politico e utopico (M.S. Sa- pegno) alla prosa morale (L. Celleri- no); dall'oratoria (L. Bolzoni) alla storiografia (A. Biondi) e ai libri di famiglia (A. Cicchetti e R. Morden- ti). Non manca forse qualche traccia di casualità, che lascia adito ai rituali interrogativi sulle eventuali assenze (perchè non la memorialistica, o i li- bri di viaggio?), ma anche qui è l'in- dicazione di metodo che conta. Da ultimo, ci si potrebbe chiedere se a un'indagine sulle forme del testo non avrebbe potuto fomite materia degna di considerazione anche uno sguardo sulla letteratura marginale, popolare e di massa: siamo certi che questa composita tradizione sia solo passivamente tributaria delle forme ricevute, per degradazione, dalla letteratura ufficiale, in una deriva che procede unicamente dall'alto verso il basso? o i rapporti reciproci non rispondono a una dinamica più complessa? Se non altro, l'ipotesi andava verificata, anche e forse so- prattutto in una sede come questa. Come che sia, una tavola dei pregi (incontestabili) e dei difetti (opina- bili) non è poi così interessante. È buona norma valutate un libro per quello che ci dà, e non persistere a chiedergli, secondo i capricci del re- censore, quello che non si propone- va di dare. Il problema è semmai un altro. L'incontro tra metodologie critiche diverse si rivela, in queste Forme del testo, quanto mai fecon- do. Sul piano teorico, tuttavia, l'in- contro sembra avvenire in una dire- zione sola: in altri termini, la critica che un tempo si definiva marxista sembra aver qui rinunciato a far va- lete su un piano di parità program- matica il suo stesso principium indi- viduationis, ossia l'idea secondo cui i fattori cosiddetti estrinseci hanno una funzione rilevante proprio in ambito teorico, e proprio nel proces- so di formazione istituzionale della specificità letteraria. Che questo principio sia stato usato in genere as- sai male non è più ormai neppure materia di contesa. Ma l'idea conser- va a mio avviso una sua indiscutibile evidenza, e contiene una domanda legittima. Nessuno dubita che siano i testi a dover essere interrogati: non è per la verità una scoperta recente, e comunque anche questa è una bat- taglia già chiusa da un pezzo. Il fat- to è che i testi non potranno rispon- dere, a loto volta, se non agli inter- rogativi che veniamo loro ponendo. Forse l'incontro sarebbe stato persi- no più fecondo se, nel momento cruciale del confronto con le opere, anche quella domanda fosse suonata più chiara, e non solo affidata alla buona volontà, o alla memoria, del lettore. joan dldion, Democracy, Fras- sinelli, Milano 1984, trad. dall'inglese di Rossella Bernasco- ne, pp. 200, Lit. 16.500. Romanzo politico travestito da storia d'amore o anomala storia d'amore sotto le parvenze del ro- manzo politico? Indagine sullo stato attuale della democrazia americana condotta con mano ferma da Joan Didion, la giornalista, esperta del Centro America e del Sudest asiati- co, o abile utilizzazione romanzesca degli esotici fondali e degli arazzi oceanici trapunti di atolli ai quali si estendono le strategie e le sperimen- tazioni difensive e offensive dell'im- pero americano? Questi dubbi, que- sta percezione inquietante di un'ambiguità originaria, volontaria e irrisolta, che accompagnano di pa- gina in pagina il lettore di Democra- cy (quarto romanzo di Joan Didion) si trasformano alla fine in certezza. L'autrice ha inteso formulare con quasi didattica precisione i termini di un teorema, quantificare e quali- ficare narrativamente l'impatto del "pubblico", della "storia", sul pri- vato e sull'esistenziale; ha inteso co- struire un romanzo politico interpre- tando quelle tracce, quelle spie e in- dizi di romanzesco che lo sguardo del giornalista coglie talvolta nella marea dell'informazione verbale e visiva come relitti, a lungo inaffon- dabili, di vicende esemplari accadu- te e mai raccontate, delegando al narratore il compito di salvarle dal grande oblio, dal macero finale. "Chiamatemi l'autore" invita pe- rentoriamente Joan Didion (p. 7) ci- tando il "Chiamatemi Ismaele" di Melville per assumere in prima per- sona il molo di narratore/testimone; ma l'imperativo è qui una maschera d'inquietudine e una partecipazione d'incertezza. Nel gioco metanarrati- vo con i "materiali di scena", i "do- cumenti", i "feticci", gli oggetti/ve- rità presentati come fondamenti del romanzo nel suo farsi, si riproduce ossessivamente il contrasto tra la pre- sunzione di oggettività del reporter, che si annulla dietro cataloghi di no- mi, di sigle, di date, di fatti, e il di- ritto del romanziere alla vertigine della totale soggettività che si affer- ma nell'ipotesi visionaria, nella divi- nazione dei segni. La divergenza lin- guistica tra i due metodi narrativi — d'azione e d'invenzione, cronaca e memoria — produce un deliberato frantumarsi del testo, smosso da continui piccoli sismi, assestamenti, erosioni, perpetuamente costretto ad adattarsi a un sistema in muta- mento come le configurazioni geolo- giche "precarie" delle isole del Paci- fico, che l'autrice elegge a correlati- vo oggettivo della propria tecnica (p. 9). Tra le molte ambizioni che, rea- lizzate o no, lasciano una forte vi- brazione in Democracy c'è anche questa, di portare sulla pagina, tra una tessera e l'altra del mosaico de- gli eventi, le tensioni attuali del ro- manzo americano, diviso tta il polo metanarrativo della finzione po- stmoderna e quello fattuale della te- stimonianza diretta, tra la scrittura nata dalla scrittura e quella prodotta dall'attrito con la storia. Il titolo del romanzo è una sfida che Joan Didion lancia a se stessa: come in Democracy (1880) di Henry Adams, il grande modello del ro- manzo politico in America (oggi in edizione italiana) la diagnosi del funzionamento del potere democra- tico è affidata a una donna. Ma, una volta evocato, il fantasma di Adams viene esorcizzato: non in una riscrit- tura, ma in un ruvido aggiornamen- to, in una risposta formulata al di qua del baratro di un secolo. Per la sagace, attiva e distaccata Madeleine Lee di Adams la lucidità intellettua- le è lo strumento del riscatto dalla connivenza con le distorsioni del po- tere: lasciandosi alle spalle Washing- ton, e la sfera d'azione del maschile, rifiutandosi al matrimonio con un corrotto rappresentante dell'Ameri- ca della Ricostruzione, ritrova intat- te le ottocentesche potenzialità fem- minili assegnatele dall'autore. In Democracy di Joan Didion il molo femminile, al pari della scrittura, si dissocia: in lucido patimento e in strenua delucidazione. Da un lato Inez Christian Victor, l'eroina che patisce e agisce in funzione delle sue molteplici identità, di figlia, di mo- glie di un noto uomo politico, di madre, di donna che ama con tenace intermittenza un uomo coinvolto nella gestione dei poteri occulti della democrazia. Dall'altro, Joan Didion che di Inez ricostruisce la saga fami- liare di fughe, follia, violenza; la vi- cenda pubblica vissuta sotto l'occhio delle telecamere; e quel vuoto nelle biografie ufficiali, quel cono d'om- bra che è la sua storia d'amore. En- trambe, eroina e narratrice, impe- gnate a tessere la sfrangiata tela di Penelope del passato. Il prezzo più alto della vita pubblica è "la memo- ria", "una specie di elettrochoc" (p. 36), afferma Inez; e una sequenza iterata di "ricordo... ricordo... ricor- do" sostiene come una chiave di vol- ta la testimonianza di Joan Didion. Nell'impeto economico dell'Ameri- ca post-industriale, incorporeo e senza confini, esteso da Washington al Pacifico all'Asia, scalfito da guerre che i politici di Democracy archivia- no come "normali turbolenze" o "imprese di assistenza", il rischio della democrazia non è tanto nella corruzione, inerente al sistema, quanto in una sorta di lobotomia, di mutilazione del nervo vivo che radi- ca l'individuo nell'evento storico. Come si scriverà la storia politica d'America se la memoria individua- le non ne serberà traccia, se sarà me- morizzata soltanto nelle deperibili e ambigue cronache dei media, nel filmato ripetibile all'infinito senza che riveli un indizio, nella voce se- polta nel registratore? Per conservare intatto questo nervo della coscienza storica personale Inez recide ogni al- tro legame e sceglie la marginalità: profuga elettiva tra i profughi del Vietnam; americana, ma consapevo- le che quell'esenzione dalle "leggi comuni" che gli americani, secondo Adams, rivendicano come un dirit- to, non ha più validità oggettiva né soggettiva. Il situarsi lucidamente nella storia è dunque un'arte femminile? La scelta della marginalità volontaria può, ancora una volta, ptoporsi co- me esemplare atto di resistenza alle micidiali astrazioni di chi si illude di essere al centro? Democracy, libro nato, dichiaratamente, dal naufra- gio di altri libri possibili, non offre prescrizioni; vuole imporsi, in ogni senso, come una lezione di inquie- tudine. □ Guida editori 80135 Napoli ■ via Yentaglieri 83 Tel. (081) 341843 Novità Poesia Folco Portinari RELAZIONI DI VIAGGIO Introduzione di Giorgio Barberi Squarotti pp. 42 Lire 5.000 Antonio Spagnuolo CANDIDA Introduzione di Mario Pomilio pp. 65 Lire 6.000 Utopisti Charles Brockden-Brown ALCUIN O IL PARADISO DELLE DONNE A cura di Rosella Mamoli Zorzi pp. 104 Lire 10.000 La vedova e il senatore di Massimo Bacigalupo HENRY Adams, Democrazia. Un romanzo americano, trad. dall'inglese e introduzione di Maria Vittoria D'Amico, Nistri-Lischi, Pisa 1984, Lit. 18.000. E strano che lo schifato autore della indi- menticabile Educazione di Henry Adams, il riservato contemporaneo e amico di Henry Ja- mes, l'estensore d'una massiccia storia degli S. U. e delle geremiadi di La degradazione del dogma democratico, sia anche responsabile d'uno dei più godibili e istruttivi romanzi dell'Ottocento non solo americano. Pubbli- cato anonimo nel 1880, questo Democracy andò a ruba e se ne stamparono a non finire edizioni pirata sui due lati dell'Atlantico. So- lo gli editori italiani sembrano non essersi ac- corti della leccornia, finché il compianto Ro- lando Anzilotti non l'ha voluta nella collana specialistica ora diretta da Agostino Lombar- do. Siamo nella Washington del 1868 circa. Madeleine Lee, trentenne, piacente vedova newyorkese, decide di studiare da vicino la politica e il processo democratico e, accompa- gnata dall'istintiva sorella Sybil, apre casa su Lafayette Square riempiendo le sue stanze di raffinatezze giapponesi e appendendo sul ca- minetto il suo pezzo forte, un Corot. Made- leine mira dritto al cuore del sistema e in bre- ve ha ai suoi piedi il meglio della società go- vernativa e diplomatica, e soprattutto il sena- tore dell'Illinois Silas P. Ratcliffe, eminenza grigia alle spalle d'un inetto presidente, e quasi certamente destinato alla Casa Bianca. Machiavellico "gigante dell'lllinois" Rat- cliffe è un impasto di rozzezza e sagacia poli- tica, il simbolo di quella democrazia che "giustamente intesa, è il governo del popolo, per il popolo, a beneficio dei senatori". Ma- deleine ne è genuinamente affascinata e cir- cuita: la loro unione potrebbe essere quella di vecchio e nuovo, di finezza radicale (lei è "in fondo al cuore un po ' comunista ") e di intel- ligenza bruta, di est e ovest. Scambiate le parti, di Tancredi Falconieri e Angelica Sedàra. Ma il matrimonio non si fa, Madelei- ne ha un parente virginiano innamorato di lei che provvede a rivelarle per lettera nel mo- mento decisivo la bassezza di Ratcliffe, bas- sezza che del resto Madeleine conosceva già ma che ora le appare inaccettabile. Infatti es- sa s'accorge che Ratcliffe era uno strumento della sua stessa ambizione: "ilpeggio non era la delusione ma la scoperta della propria de- bolezza e capacità di autoinganno ". Così il romanzo brillante delle relazioni sociali di marca settecentesca (il libretto tra- bocca di spassose macchiette) si apre alla di- sperazione moderna di Adams, essa stessa og- getto d'ironia. "Voglio andare in Egitto", conclude Madeleine. "La democrazia mi ha fatto a pezzi i nervi. Che pace sarebbe vivere nella Grande Piramide e fissare in eterno la stella polare! " E ancora: "Il risvolto più ama- ro di questa orrenda storia è che nove su dieci dei nostri connazionali direbbero che ho sba- gliato ". Madeleine, come avverte Maria Vittoria D'Amico nella sua ampia introduzione, è la proiezione di Adams, che guarda al mondo politico contemporaneo come la volpe l'uva. Lo rifiuta per il suo gemmeo estetismo reazio- nario (la piramide gerarchica, la stella), ma gli resta il dubbio di avere sbagliato. Che di questa che fu la tragedia della sua vita egli sappia ridere e fare nitida arte narrativa e fat- to che conferma la sua grandezza.