L'ndicf ■■dei libri del mese^bb Longhi contemporaneo di Paolo Fossati Roberto Longhi, Scritti sul- l'Otto e Novecento. 1925-1966, voi. XIV, Sansoni, Firenze 1984, pp. 256, Lit. 70.000. Se è vero che Longhi non sotto- scrive il verdetto di un Ottocento se- colo stupido, è anche vero che il suo giudizio non sceglie vie diverse da quelle che fan pronunciare a Leon Daudet la celebre formula. La que- stione è che, almeno per l'Italia, è secolo inorganico: il rapporto costu- me, civiltà, cultura non sfocia in un territorio artistico (ed in una società culturale) tali da fornire garanzie di sostanza e serietà. Come invece acca- de in Francia, e non solo sul versante classico dell'impressionismo ma an- che su quello che bene si esplora ba- dando ad incisori, disegnatori e cari- caturisti. Il parere di Longhi, su que- sto punto, non fornisce lumi di grande novità: il parere positivo sul- la fantasia artigianale (e sul ruolo di castigatori) che tocca ai grafici è, mi pare, l'unico dato nuovo percepibi- le. Quel parere, però, si fa interes- sante se dall'Otto si transita al Nove- cento: secolo che è il suo, di Longhi, e su cui il giudizio (ancor più il sen- timento) longhiano è fortemente ambivalente. Può uno studioso del calibro del nostro, alle prese con no- di come quello cinquecentesco e quello, da lui tutto restituito (o qua- si) a novità, del Seicento, non valu- tare che il tessuto artistico patrio è tenue, che i tentativi alla grande dei futuristi per portar Milano fuori dal circuito locale si sono velocemente normalizzati, e così via? C'è, in fon- do alle cose che Longhi scrive dopo il '20 sui suoi contemporanei, una neppur troppo velata sfiducia: li ve- de in una luce di crisi, la decadenza di costume culturale e di serietà arti- stica non consente ad alcuno di reg- ger la fiaccola che passa di mano in mano da Cimabue in poi. Colpa del secolo stupido, che ha disorganizza- te le forze capaci di tenerla desta, colpa di società che han create le condizioni perché una continuità fosse messa in forse e scomparisse dalla buona volontà degli artisti. D'altro canto, questo benedetto secolo XX è pur sempre quello cui i Longhi di turno han fornito intelli- genza storica e pragmatismo cono- scitivo, cioè condizioni essenziali per fare un'arte che non si illuda inge- nuamente di poter contare solo su ispirazione e potenza espressiva in- condite. Di fronte a quello che, un poco acidamente, potremmo defini- re uno spenglerismo che lambisce un Longhi ben attento a non lasciarsi contagiare da stereotipi emotivi, c'è il Longhi che si rimbocca le maniche e si dà da fare, interviene, consiglia, ammonisce, proprio mentre pubbli- ca alcune idee sull'antico e talune analisi del medesimo che restano fondamentali per la cultura italiana, in qualunque modo la si voglia in- tendere. Dire che ognuno degli in- terventi, sull'Otto e il Novecento, è non solo un contributo critico, cono- scitivo, informativo sull'artista o sul fatto artistico, ma è una decisione d'azione (appunto: un modo molto attento d'intervenire) significa co- minciare a capire un Longhi che in- terpreta il suo lavoro di storico dell'arte come colui che fa in qual- che modo storia. Ma vuole anche di- re che i pareri di Longhi sul secolo sono circoscritti di vaghezza. E in- somma l'esemplarità degli esempi che vien prescegliendo deriva da qualcosa che non sta tutta nelle ope- re di chi sta guardando. Tranne pro- babilmente le belle pagine su Ziveri, e pagine a mio avviso giuste: dove è colto un turgore di vita dentro l'at- tenta cultura storico-artistica del pit- tore, come se Ziveri non solo avesse capito il senso storico, che all'arte italiana Longhi va restituendo, ma lo vivesse in quanto attore di vita quotidiana. Forse le più note pagine su Maccari sono meno intense, an- che se Longhi tributa onori non di- versi anche al toscano: ma c'è in Zi- veri (e non solo nel Ziveri secondo Longhi) una grana spessa di vitalità ca. L'astrattismo come decadenza perché resa a un gusto borghese da impiegati e da bottegai, mentre (co- me in Ziveri o in Maccari) altri ideali sociali premono alle pone longhia- ne; la scultura degli Arp o dei Moore come gioco e fatuità, ancora, di sa- lotti; e così via. Impicci, dicevo, ne incontra. Questo, ad esempio (forse di origine culturale non impossibile da ricavare): che in Longhi la vera contemporaneità resta quella della sua attività di storico, non l'interesse per dei contemporanei cui è necessa- rio ricostruire antenne ed anche arti. E siamo tornati all'oscillazione del nostro a fronte del suo secolo. Il volume di cui stiamo parlando, ratrice non chiariscono. "Il diverso spessore e la diversa destinazione dei numerosi scritti" portano la Bacci a costruire una sequenza che va da saggi e testi per cataloghi, per pre- sentazioni di mostre, ad articoli per quotidiani o periodici, a testi più brevi. Così le montagne russe dell'indice portano il lettore ad aver sottomano questa sequenza cronolo- gica: 1949, 1950, 1952, 1937, 1926, 1948, ecc. ecc. Ora, la cronologia avrebbe ridato tempi e quantità e occasioni e modi, stilistici anche, al lavoro di Longhi e alle sue occasioni e possibilità di intervento e relative diverse strategie. Si sarebbe soprat- tutto recuperato quello che la cura- II sottosuolo di Roma di Salvatore Settis Filippo COARELLI, Roma sepolta, Curcio, Ro- ma 1984, pp. 192, Lit. 31.000. Filippo Coarelli e singolare (anzi, unica) figura di studioso, che dalla grande lezione di Bianchi Bandinelli ha ricavato un personale patrimonio di tensione alla conoscenza globa- le del mondo antico, e specialmente dell'an- tica Roma. Mettendo a frutto le tecniche più sottili dell'antiquaria, della topografia, della filologia, dell'epigrafia, Coarelli ha inventato un nuovo e fresco approccio al suolo madido di storia di Roma: e non è mero collage, ma compenetrazione intima dei vari tipi di testi- monianze, che dà al lettore la sensazione di muoversi per le strade dell'urbe, ma gli resti- tuisce al tempo stesso il meccanismo (e la fati- ca) del processo ricostruttivo o della scoperta. Ottimo esempio di questa ricerca è stato un altro libro di Coarelli, Il Foro romano. Perio- do arcaico (1983), destinato a un pubblico più specialistico. Questo Roma sepolta ha un diverso carattere, un più vasto pubblico ne è il destinatario: e però l'estrema chiarezza del linguaggio non nuoce mai alla precisione tec- nica o alla puntualità dell'informazione. Il titolo va preso alla lettera: i dieci capito- li presentano altrettanti casi in cui brandelli dell' antica Roma, sepolti sotto edifici più tar- di, sono ritornati alla luce, spesso grazie a sca- vi mal fatti, sconsiderati e rimasti inediti e sconosciuti anche agli specialisti. In alcuni ca- pitoli (I L'area sacra di S. Omobono; lì II pa- lazzo dei re di Roma) si presentano scavi già noti, ma con nuove interpretazioni e propo- ste. In altri (IV Horologium Augusti; V II frontone del tempio di Apollo Sosiano), ven- gono presentate scoperte recenti di grande importanza e fascino: il grandioso orologio solare (da gnomone faceva l'obelisco di piaz- za Montecitorio) recuperato da scavi di G. Buchner, e il frontone greco classico che Eu- genio La Rocca ha saputo estrarre e ricompor- re da polverosi magazzini dei Musei Comuna- li di Roma. Ancor più attraente è il cap. VI (La casa di Augusto sul Palatino), dove i "tra- slochi" di Augusto dall'una all'altra delle sue case vengono visti, persuasivamente, come ri- flessi della lenta elaborazione dell'ideologia augustea, e ogni casa diventa (col suo pro- gramma decorativo) proiezione dell'immagi- ne pubblica del principe. Sorprese clamorose vengono da altri capitoli: il III (Il sepolcro dei Cornelii) presenta due sarcofagi, di eccezio- nale importanza storica, del IV secolo a. C., scoperti già nel 1956 e rimasti in pratica igno- rati; nel VII (La casa di Flavio Sabino e il tem- pio della gente Flavia) si mostrano per la pri- ma volta splendide pareti decorate a mosaico (c. 50 d.c.) scoperte pochi anni fa sotto la ca- serma dei corazzieri al Quirinale e mai pub- blicate; nell'VIII, La casa privata di Traiano viene collocata e ricostruita, e se ne presenta- no (anche qui per la prima volta) gli straordi- nari resti: fra l'altro, un 'aula basilicale colon- nata con decorazione dipinta interamente conservata. Un altro scavo frettoloso e rimasto inedito, che solo questo libro ci rivela. Non possiamo desiderare divulgazione migliore di questa: dove lo specialista non scende verso il pubblico, ma accortamente di- scorre con esso, e anzi lo sceglie per raccontar- gli, per primo, scoperte e novità. Possiamo azzardare la scommessa che più d'uno specia- lista ne rimarrà scandalizzato e irritato. che lo accomuna a ideali popolari, magari trasteverini, senza cadere in quella trivialità che popolo e Traste- vere rischiano di avere se non è Belli ma Pascarella il loro interprete. Cose che restano vive in una nostalgia di vita che accompagna ogni tanto Lon- ghi sulla pagina. E il pittore gliele ri- propone. Come si vede questa è una spia non da poco, che un lettore attento potrebbe usare sistematicamente en- tro il volume di cui stiamo parlando: non alla caccia di un Longhi auto- biografico (e perché no, infine? Nel- le lunghe pagine dedicate al torinese Reycend ci sono dati, per un biogra- fo non superficiale, notevoli: tanto più utili perché di redazione tardi- va), quanto di un Longhi che confes- sa taluni impicci nella sua attività di intervento e di distributore di moli e funzioni. Non solo, ma per segnarne anche tappe e limiti cronologici: perché l'appartenenza generaziona- le, e la piena maturità fra le due guerre, si irrigidiscono a volte in tic, condivisibilissimi magari, ma d'epo- e della cui importanza spero sia evi- dente l'indicazione, ha per titolo Scritti sull'otto e novecento, appare come estremo tomo della sequenza delle Opere complete di Roberto Longhi, il quattordicesimo per la cronaca: appena l'editore avrà licen- ziati l'XI di studi caravaggeschi po- stbellici e il XII, sul Sei e Settecento, e ci avrà fornito l'importante XIII (Critica d'arte e buon governo) avre- mo un comodo tutto Longhi. Ag- giunto che dei presenti Scritti il sot- totitolo dà le date 1925-1966: chi voglia seguire dagli inizi la serie dei rapporti tra Longhi e il Novecento dovrà andarsi a riaprire il primo to- mo delle Opere, che giunge al 1925, e avrà un archivio completo. Che il lettore tragga tutto il frutto che vorrebbe (e che il volume, insi- sto, merita) dall'edizione curata da Mina Bacci, non direi. E per una ra- gione molto semplice, che la materia non è data per ordine cronologico, come era giusto e necessario atten- dersi, ma con un criterio che le due soavi paginette d'apertura della cu- trice chiama il processo linguistico di Longhi che, così, non solo viene sov- vertito, ma sembra risultare total- mente sganciato dal referente pub- blico. In realtà la scelta proposta con un indice del genere altro non è che un percorso di lettura prestabilito, un binario ufficiale che dovrebbe con- dizionare chi legge. Si comincia con un testo come L'impressionismo e il gusto degli italiani, si passa ad una identificazione della cultura formale di Seurat di cui è ribadita l'origine primitivistica, ante pierfrancescana, poi si giunge a Reycend, ad un Carrà in clima di ufficializzazione 1937, e così via. Che il decorso logico ed in- tellettuale di Longhi sia in favore di un formalismo neppure classicistico, ma di "disperata serietà di ricerca" in quelle aree preclassiche che si in- dicano per Seurat, lo si può anche accogliere come vero. E la cosa è sta- ta di recente confermata sulla stessa rivista di Longhi, "Paragone", nel 1981, quando sono stati pubblicati alcuni inediti su Picasso che, nel tempo, Longhi aveva portato a reda- zione in pratica definitiva, ma mai pubblicato: segno che la via di simili verità è sempre più tortuosa e com- plessa del previsto. Si può anche es- ser d'accordo che il critico annetteva grande importanza culturale alla funzione del gusto come travaso di esperienze artistiche diverse: ma non si comprende perché siffatte "con- clusioni", del resto spaventosamente generiche, debbano divenire armi in mano ai curatori. Col risultato che sia loro cura aiutarci a non capire. Con pazienza perciò il lettore voglia ripristinare da sé l'ordine degli ad- denti (e il prodotto muterà in toto): a partire dalle lunghe paginette de- dicate alla probità di Socrate come pittore che sono una gran polemica a metà anni venti sul mestiere dell'ar- tista e sulla sua coscienza (certo non artigianale per Longhi) tecnico-stori- ca, stilistica ma anche simbolica del lavoro pittorico. Che non è un addio al futurismo (quando? dodici anni dopo i testi boccioniani del nostro?), ma una presa di posizione contro quanto di naturalistico, di irsuta- mente colto o addirittura appena geograficamente colto, la Sarfatti va predicando essere il destino dell'arte italiana. Sicché leggendola viene in mente la conclusione di un testo tut- to giovanile di Longhi, la Breve ma veridica storia della pittura italiana, che ha la data luglio 1914 (Sansoni 1980): "l'essenziale non è che ci sia- no degli artisti italiani ma semplice- mente degli artisti". Ma forse il motivo di una così av- ventata considerazione della cura di un volume come questo è altrove. E mi pare che solo in parte vi abbia posto rimedio il convegno che a Fi- renze fu dedicato a Roberto Longhi nella cultura del nostro tempo, di cui sono ora gli atti, a cura di Gio- vanni Previtali, in un bel volumetto, L'arte di scrivere d'arte, (1981). La questione, cioè, sta in una intrinseca svalutazione della presenza di Lon- ghi nel tempo suo da parte degli stessi uomini della sua cerchia, stori- ci o filologi d'arte che siano. Voglio dire che il ragionamento è di ricava- re la modernità dello studioso dagli apporti strettamente interni alla di- sciplina entro cui ha lavorato, come se non fosse stata preoccupazione preminente di Longhi inverare la storicità del lavoro storico da com- piere, con una sistematica presenza pubblica che trascendeva gli steccati di laboratorio della disciplina. Come i presenti Scritti si incaricano di mo- strare. Al punto che, in attesa della buo- na volontà di chi studi Longhi glo- balmente nella cultura che gli fu propria e lo ebbe per attore, non sarà male se questi Scritti giaceranno sul tavolo di quanti, storici dei fatti o delle idee, si interessano alle vicen- de del nostro tempo.