In. 4 pag. 4 _// Libro del Mese_ Caso Moro: la mappa dei poteri Mimmo Scarano, Maurizio De luca, II mandarino è marcio, Terrorisimo e cospirazione nel caso Moro, Editori Riuniti, Roma 1985, pp. 276, Lit. 16.500. Maurizio De Luca e Mimmo Scarano hanno scelto, per il loro libro sul caso Moro, un modello e un metodo che si allontanano sostanzialmente dagli schemi più spesso adoperati per questo tipo di ricerche: che sono, poi, quello della ricostruzione lineare della vicenda, nel tentativo di accertare la "verità"; o quello dell'analisi dell'azione sul versante della storia e dei comportamenti dei terroristi. Essi, invece, hanno puntato quasi esclusivamente sul contesto politico, largamente inteso, nel quale il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro maturano e si realizzano. Ed alla linearità dello svolgimento hanno preferito un metodo che punta tutto sull'accumulazione dei dati, giovandosi soprattutto del ricco materiale ormai consegnato alle fonti ufficiali. Questa scelta corrisponde ad un innegabile dato di fatto. Aldo Moro era stato (e, al momento dell'agguato di via Fani, era ancora) al centro di una fitta trama di rapporti internazionali, di operazioni di politica intema, di tessitura di equilibri nel corpo del suo partito. Questi diversi piani di azione, nella fase che sarebbe stata l'ultima della sua vita, si erano sempre più venuti avvicinando, talvolta sovrapponendosi quasi completamente. La ragione è ben nota. La strategia cosiddetta del "compromesso storico", che contrassegnava quella fase della nostra storia politica e in cui Moro si trovava più di altri impegnato, era guardata con attenzione o preoccupazione nelle sedi più diverse, per gli effetti che avrebbe potuto produrre sulla dinamica del sistema politico italiano e sul ruolo internazionale dell'Italia. La scomparsa di Moro sarà determinante per la definitiva liquidazione di quella strategia, che già s'era svolta lungo tragitti tutt'al-tro che tranquilli. E dunque un cambio di fase politica che, nel libro, viene indagato, un cambio sollecitato, per la prima volta nella nostra storia, da un assassinio. L'altezza del bersaglio scelto dai terroristi chiama in campo le forze più diverse: le incognite, ancora, riguardano la possibilità di stabilire se qualcuno intervenne già nella fase della cospirazione e chi cercò d'intervenire a complotto avviato. De Luca e Scarano, quindi, accumulano materiali che riguardano la sfaccettata presenza di Moro sulla scena politica. E l'apertura è proprio sul contesto internazionale, sulle cose dette e scritte da Henry Kissinger: una via — non dimentichiamolo — indicata con molta determinazione dalla signora Moro, riflettendo preoccupazioni che Aldo Moro aveva manifestato, tra gli altri, a Giulio Andreotti. C'è, poi, l'intreccio dei segnali, mai integralmente decifrati, che precedono, accompagnano, seguono il rapimento. Ci sono le presenze degli uomini dei servizi segreti, italiani e stranieri. E ci sono le forze politiche ufficiali, il cui schieramento si rimette in movimento proprio durante i cinquantacinque giorni della prigionia di Moro. Proprio perché si tratta di una ricerca costruita attraverso l'accumulazione, non è qui possibile dar conto di tutte le questioni che emergono nel corso del lavoro. Ad ogni modo, la ricchezza dei dettagli non apre soltanto la strada ad una infinità di congetture, a molteplici collegamenti. Mostra quanto fosse ampio l'arco delle conseguenze politiche che la morte di Moro avrebbe potuto produrre (ed ha prodotto) e, di conseguenza, quanto fosse largo e dira- mato l'arco delle forze che erano spinte ad intervenire nella vicenda. C'è, quindi, una ulteriore chiave di lettura che può essere suggerita per il libro di De Luca e Scarano: siamo di fronte ad una mappa dei poteri concretamente operanti in Italia, pubblici e privati, legali e occulti, interni e internazionali. Disegnando questa mappa, entità ritenute compatte si rivelano solcate da profonde fratture, al posto di un unico soggetto compare una ancor più inquietante articolazione dei protagonisti. E questo è già visibile se si considerano i primi attori del dramma: da una parte, le Brigate rosse e, dall'altra, i partiti. Per quanto riguarda le Br, nel libro non c'è solo la conferma di una tesi tante volte enunciata in via generale, e specificamente confermata dalla vicenda italiana: quella secondo cui la presenza di un terrorismo stabile e diffuso richiama l'attenzione di altri soggetti (servizi segreti solitamente), che cercano di utilizzare a propri fini la presenza terroristica, senza che questa debba necessaria- di Stefano Rodotà mente perdere la sua identità e la sua ailtonomia. C'è pure l'affermazione della esistenza di un'altra "componente" della Brigate rosse, di cui gli autori registrano almeno sei apparizioni (pp. 266/8). Più rozza nelle formule e nelle analisi, "questa componente mostra di pos- sedere attrezzatura e conoscenza 'professionali' da servizi segreti" (p. 266). Individuata una possibile "disaggregazione" dell'entità brigatista, almeno per il modo in cui questa si manifesta durante la gestione del sequestro Moro, una analoga operazione viene condotta sul versante dei partiti. Qui la disaggregazione investe i due schieramenti noti come partiti della "fermezza" e della "trattativa", di cui si mette in evidenza il carattere composito. In essi, anzi, la presenza di interessi diversi fece sì, da una parte, che obiettivi diversi, e più direttamente politici, finissero con il sovrapporsi a quelli che venivano dichiarati; e, dall'altra, che di entrambe le linee venisse esaltata la fragilità. Vale la pena di riportare per esteso alcune considerazioni dedicate specificamente a questi problemi. La linea della trattativa, nella versione oggettiva anche se non manifesta, postulava in effetti la fine dell'unità nazionale in un rimescolamento di poteri del quale tentavano di ren- dersi garanti i socialisti. Anche se la svolta all'indietro s'era caricata di proiezioni più estreme: di ribaltamento negli assetti istituzionali in proporzioni al momento non immaginabili (...). Se quella linea mostrava al suo interno significati tanto contraddittorii, nel largo coagulo della linea opposta convivevano istanze che si riveleranno poi del tutto incompatibili con gli impegni di fermezza che la guidavano. La resistenza al ricatto eversivo presupponeva una altrettanto ferma azione degli apparati di Stato: che mancò o rimase impantanata in ambigue posizioni di disimpegno e di attesa, come era accaduto prima del blitz di via Fani. Quando non lasciò il campo a desideri di 'vendetta' o di rivalsa verso i teorici dell'unità nazionale" (pp. 202/3). Sia o no da condividere l'insieme di queste valutazioni, certo contribuisce a chiarire come sull'iniziale dilemma (trattare o non trattare per salvare la vita di Moro?) si fosse via via venuto sovrapponendo un più variegato e complesso gioco in cui alcune forze soprattutto tenevano d'occhio piuttosto l'evoluzione di più generali dinamiche politiche. Il punto di distinzione tra i due schieramenti, allora, non può essere individuato nella propensione ad accentuare i valori umanitari o quelli della ragion di Stato. De Luca e Scarano non hanno dubbi in proposito: "la fermezza è una linea che si richiama alla Costituzione, la trattativa è anche una linea politica alternativa di governo" (p. 210). Qui, e non altrove, dev'essere allora cercata la debolezza di quest'ultima linea. Torna così il tema della consapevolezza dell'apertura di una fase politica nuova, in cui il nuovo protagonismo socialista fa la sua prima impegnativa prova e la De, tra "un ambiguo pazientare e un disperato sperare", mostra la sua ormai declinante capacità di direzione politica, che tante conferme avrebbe poi ricevuto nei tempi successivi. Chi impersona pienamente la linea della fermezza, infatti, è il Pei. Ma proprio come linea proiettata al di là del caso Moro, e assunta come pietra di paragone tra diversi modi d'intendere lo stato, quella della fermezza andò incontro a più di uno scacco. Non c'è soltanto la contraddizione, già ricordata, tra una fermezza dichiarata e una azione degli apparati dello Stato così debole da far pensare ad inefficienze "pilotate". E non c'è soltanto la smentita a quella linea che si avrà nei casi D'Urso e Cirillo. La motivazione forte della linea della fermezza risiedeva non nella ragion di Stato, ma nell'affermazione che le regole dello Stato di diritto non possono essere modificate per la forza della violenza e del ricatto, pena il passaggio ad un tipo di Stato di cui proprio queste ultime sarebbero divenute le regole fondative. Con la scelta di quella linea si voleva indicare anche l'abbandono di un modo d'intendere la politica che aveva lentamente e profondamente eroso alle fondamenta il sistema sociale e quello politico-istituzionale: un modo per cui tutto era, o poteva o doveva essere, negoziabile. Non è un caso che in quei giorni, sia pure con diversi spiriti, osservatori stranieri si chiedevano se in Italia non stesse per nascere un "nuovo modo di governare" (p. 217). Ma il nuovo indirizzo sopravvisse di poco all'assassinio di Moro, ebbe una manifestazione coerente solo nell'iniziativa decisa del Pei di chiedere le dimissioni di Giovanni Leone. Poi, fin troppo rapidamente, tutto tornò come prima. Certo, non c'era nulla di meno "moroteo" di quella linea, visto che la pratica della mediazione e della negoziazione incarnava, agli occhi di Aldo Moro, l'essenza stessa della politica. Per questa via, tutto diventava "integrabile", in un universo di cui la De rimaneva comunque il garante della stabilità. Era l'operazione pensata, e riuscita, nei confronti del Psi al tempo del centro-sinistra; era l'operazione che, con la versione morotea dell'unità nazionale, si stava tentando nei confronti del Pei; era l'operazione che, in scritti anteriori e nelle lettere. Moro riteneva possibile nei confronti dello stesso "partito armato". Ma, forse, quella strategia dell'at-tenzione/integrazione non era più adeguata ai nuovi soggetti con cui doveva fare i conti: il Pei chiedeva molto più di semplici aggiustamenti, e cominciava a rendersi conto della inadeguatezza del quadro che veniva messo a punto; e le Br praticavano un tipo di lotta rispetto alla quale l'integrazione si palesava impossibile o eccessivamente costosa, tale da stravolgere i caratteri stessi del sistema politico. Non è un caso che l'ultima, e più impegnativa, operazione politica non sia sopravvissuta a Moro. E che, sull'altro fronte, egli abbia perduto la vita. Terrorismo e stabilizzazione di Gian Giacomo Migone Il libro di Scarano e De Luca è importante per due motivi. In primo luogo si affianca a Operazione Moro (cfr. la recensione di Giorgio Galli su "L'Indice", n. 1/85) in una ricostruzione dei fatti che non consentirà più di considerare il terrorismo e il caso Moro come semplice opera di un gruppo di fanatici che agiscono in una sorta di vuoto pneumatico. Utilizzando soprattutto atti processuali e della commissione parlamentare d'inchiesta, gli autori dimostrano, al di là di ogni ragionevole dubbio, che esisteva una precisa e diffusa consapevolezza dello stato di pericolo in cui versava Moro, ben prima del rapimento. Questa consapevolezza non solo non ha ac- fa p fu mJ centuato la vigilanza intorno alla sua persona, ma sembra avere avuto l'effetto opposto. La ridda di errori, omissioni ed imprudenze è diventata ancora più fitta a rapimento avvenuto, al punto di costituire una connivenza almeno oggettiva con i rapitori. Ma il contributo forse più importante di questo libro è quello di porre con chiarezza l'esigenza di collocare il terrorismo e il caso Moro in un contesto politico, interno ed internazionale. Qualche volta gli autori operano delle forzature, soprattutto quando sembrano eccessivamente condizionati dalle polemiche attuali tra Pei e Psi. Ma, in linea generale, la rete di interessi ostili a Moro e, soprattutto, alla sua elezione a presidente della repubblica era così fitta da non poter essere ignorata oltre, ne può essere esorcizzata da liquidazioni sprezzanti di un metodo di ricerca della verità fondato sul cui prodest. Inoltre, l'inchiesta di Scarano e De Luca, per quanto ancora incerta nella ricostruzione di un contesto storico, fornisce uno stimolo ad altri ricercatori ad inoltrarsi su questa strada. Non è il caso di correre dietro a tutte le ipotesi, soprattutto dettate da convenienze politiche presenti, ma nemmeno possono essere ignorate le conseguenze di un delitto. Se mia zia viene assassinata e io eredito un miliardo, ciò non fa di me un assassino. Ma, ai fini delle indagini, e certamente utile sapere che io beneficio della sua morte. Ciò è tanto più vero se la vittima non è mia zia, ma uno degli statisti che hanno segnato la storia del paese in questo secolo. Per dirla con Popper (e con Giorgio Galli), occorrono "congetture e confutazioni" per tentare delle vie d'uscita dal campo delle tu*-