N. 2 pag. 4 ■ II Libro del Mese Solo per gli antichi romani? di Cesare Cases Franco Fortini, Insistenze. Cinquanta scritti 1976-1984, Garzanti, Milano 1985, pp. 305, Lit. 23.000. Uno medita tutta la vita sui saggi !■ t. «i 1' cercarle in venti articoli e al decimo hanno perso ogni forza. Quelle armi della critica che si credevano spuntate dall'inflazione della parola ritornano taglienti nel pennino di Fortini. E sul "Corriere"! Si prenda un altro esempio, il me- Sull'inattualità di Gianni Vattimo Ciò che colpisce e provoca, nel libro, e su cui in un certo senso si tratta di decidersi fin da principio (una decisione che mette in gioco parecchi aspetti della nostra storia intellettuale recente) e la sua professata inattualità. Fortini appare e si presenta esplicitamente come inattuale, nei molteplici sensi che il termine ha fin da Nietzsche: un distacco dall'epoca che tuttavia non è affatto estraneità assoluta, ma anzi si fa notare proprio come un contrappunto che, nella sua riducibilità all'attuale, lo evidenzia, e insieme si evidenzia come qualcosa di disturbante e persino irritante. Il libro, dunque, si legge con sentimenti misti, che si sciolgono solo analizzando le ragioni della sua inattualità. Inattuale, il discorso di Fortini lo è anzitutto in quanto intende resistere a quella che si può chiamare la modernizzazione della cultura di sinistra italiana degli ultimi dieciquindici anni, cioè il dissolversi, in essa, delle Sh. xlC'x posizioni radicalmente critiche nei confronti della razionalizzazione tecnico-scientifica del mondo operata dal capitalismo. Dopo il sessantotto, mentre una parte del movimento si distruggeva nei sanguinosi rituali della lotta armata, un 'altra parte ha scoperto il nesso di pensiero negativo e razionalizzazione, per usare l'espressione di Cacciari-, cioè l'ineludibilità, per qualunque discorso rivoluzionario o di rinnovamento, di una critica radicale della metafisica (sulle vie indicate da autori come Nietzsche e Heidegger, molto più che da Marx) a cui si accompagna, come suo esito, un 'esplicita assunzione del destino scientifico-tecnologico dell'umanità moderna, in termini difficilmente riportabili entro un discorso marxista. In corrispondenza di questo atteggiamento, anche la posizione della sinistra nei confronti dell'industria culturale — dalla letteratura ai mass media — è cambiata. Mentre gli anni cinquanta e sessanta erano stati dominati dallo sforzo di smontare i meccanismi di manipolazione dell'industria culturale scoprendovi il riflesso dei rapporti di potere, negli anni più recenti si è tornati a guardare alla cultura e ai suoi prodotti con un atteggiamento feticistico, chiudendo gli occhi su ciò che determina la loro produzione, sulle strutture di dominio che essi nascondono e servono. Eppure, l'industria culturale è una realtà sempre più determinante, molto più oggi di quanto non lo fosse negli anni del boom economico del dopoguerra. Proprio l'intensificazione della sua presenza e pervasività è il fattore decisivo delle trasformazioni dell'esistenza individuale e sociale nel mondo che si usa chiamare post- ai tortini senza avere il coraggio di parlarne e poi gli dicono che deve fare la recensione di un suo libro in un giorno solo. Finirà per dire "Si figuri! " come il sarto manzoniano. Il libro in questione è una scelta di articoli, quasi tutti di giornale e quasi tutti (trentaquattro, cioè il 68%) apparsi su un solo giornale, il "Corriere della Sera". Eravamo in molti, tra gli amici di Fortini, a essere perplessi quando egli iniziò la collaborazione a quel quotidiano. Eravamo tutti antichi romani, le cui prische virtù si erano un po' offuscate dopo la fine della Repubblica (ammesso che sia mai esistita) e che scrivevano talvolta negli organi dell'Imperatore, ognuno assicurando che il suo era il meno peggio e che lo faceva soltanto perché i tribuni della plebe tacevano ed era meglio che parlasse lui, sia pure in sordina, piuttosto che Vatinio o Badilo. Ma vedere Fortini l'Uticense apporre la sua firma accanto a quella di costoro, nella speranza di soverchiarne la voce, nientemeno che sul "Corriere", questo non poteva non preoccupare. Invece aveva ragione lui. Avvenne l'imprevedibile, molto spesso il "Corriere" spariva e restava solo Fortini, agli occhi non solo degli antichi romani ma di moltissimi lettori (e quel giornale, nonostante le sue penose vicende, ne ha ancora tanti). Si legga l'articolo Gli operai dell'Alfa (apparso sotto altro titolo il 31.8.1982). Vi si tratta della sentenza di un pretore milanese che reintegrava negli organici della ditta un gruppo di operai licenziati illegalmente per ragioni politiche e che suscitò una vera tempesta sia tra i sindacati che nella stampa. A questo "concerto di proteste" che si stupisce della sentenza, Fortini oppone lo stupore del cittadino "che negli avvenimenti quotidiani cerca di intravedere il disegno di legge generale del proprio tempo", poiché costui non concepisce che il sindacato si indigni con chi dà ragione ai lavoratori. Fortini parte di qui per sottolineare come il mantenimento "non già della democrazia parlamentare, ma del ceto economico-amministra-tivo che ci amministra" proceda "su un doppio binario": "da un lato la teoria e la pratica della nuova libera concorrenza non può non sciogliere le mani imprenditoriali nelle aziende per cacciare ammalati, sobillatori e forza-lavoro non riciclabile; da un altro bisogna mantenere, con i costi che conosciamo, il mito del 'governo di tutto il popolo', giustizialista e assistenziale, interclassista e, proprio per questo, fautore della 'modernizzazione'." Fortini cita un avvocato, difensore dei cassintegrati, che richiede che non si parli più "solo di diritto dell'organizzazione sindacale ma di partecipazione sindacale ai processi di ristrutturazione", cioè immagina qualche cosa di simile alla camera dei Fasci e delle corporazioni. Secondo Fortini, sta aumentando il numero delle persone che non accettano il doppio binario, esprimendosi se non altro attraverso l'astensionismo. C'è qualcuno che dice le stesse cose di questo articolo? Forse sì, ma bisogna morabile articolo del novembre 1983 che commentava una foto in cui un militare americano a Grenada trascinava per i piedi un nemico ucciso. Fortini, "conoscendo lo spirito militare", suppone che "quel modo di traslare i cadaveri dei nemici" sia stato istillato ai soldati dai loro superiori, e stabilisce delle connessioni che vanno dal cadavere di Ettore alla guerra del Vietnam all'avvento di Pinochet, quando si trascinavano i corpi delle "bestie marxiste". Fortini voleva denunciare l'esibizione intimidatoria delle atrocità in un mondo in cui "invece di punire i colpevoli degli orrori si premia chi li fotografa", e questo sempre e dappertutto, tant'è vero che includeva nella carrellata storica anche piazzale Loreto. Ma il fatto che partisse da Grenada e la ricollegasse al Vietnam suscitò un putiferio di proteste, capitanato dal futuro direttore del "Corriere", Piero Ostellino. S'infrangeva il tabù, ormai parte integrante dello spirito di "unità nazionale" (o internazionale) da destra a sinistra, per cui certe cose accadono solo in Afghanistan. Sorry, ma accadono anche dove gli USA sono ridotti a fare dell'imperialismo formato cartolina. Il che non significa affatto che non accadano in Afghanistan. Dove ci si bea nell'unità naziona- le, Fortini semina zizzania. Dopo la morte di Dio e di Marx, è Nietzsche che ci unisce e che serve a tutti gli scopi: feroce e benigno, matto e savio, con un baffo rivolto a destra e l'altro a sinistra, nichilista ma anche il contrario di nichilista, ottimo per distruggere e rifondare valori, per sguazzare nell'anarchia o per invocare la tirannia dei migliori, per lamentare il deserto della tecnica o aspettarne la salvezza, per plaudere all'aristocrazia dello spirito o immergersi nei mass media, Nietzsche è il filosofo ideale in una situazione in cui chi tutela gli operai è lo stesso che li defenestra. Poiché l'essenziale non è questo bensì la fine della metafisica occidentale e dell'aspirazione all'unità di pensiero e di essere, che determinano il nichilismo Nietzsche non è riuscito a farli fuori, Heidegger nemmeno, ma tutti ci si riprovano e così se non ammazzano la metafisica ammazzano il tempo suo figliuolo. E tutti i partecipanti a questo gioco si trovano prima o dopo a battere alla porta della Legge, possibilmente ebraica, con Rosen- kranz ejabès. Un buon rifugio sicuro contro il nichilismo che non so quanto sarebbe piaciuto a Nietzsche (ma in lui si trova di tutto, in odio al Cristo gli sfugge anche qualche elogio del sacerdozio ebraico). Fortini non ama "il Nietzsche di tutti", come si intitola un suo articolo. Provocatoriamente contrappone al giovane Nietzsche il suo maestro Ritschl e la severa lettera che gli scrisse dopo l'uscita della Nascita della tragedia. Ma siccome senza Nietzsche, tutto e di tutti, non c'è modernità né postmodernità, ecco che Fortini viene punito con l'accusa di essere buono solo per noi antichi romani. Certo egli confessa "senza pentimento di aver passato lo scorso trentennio a imparare e insegnare partendo dal pensiero di Hegel, Marx, Lenin, Trockij, Gramsci, Mao, Lukàcs, Sartre, Adorno" (si veda tutto l'ottimo articolo Quindici anni da ripensare). Questo non significa che non si sia sorbito coraggiosamente molti teorici alla moda e che non abbia trovato un rapporto con i giovani, soprattutto con quelli che chiama i "Fratelli Amorosi" contrapponendoli ai "neognostici". I quali ultimi hanno molti discepoli, ma pochi fratelli. Finisco con un piccolo dissenso. Riguarda l'articolo sul Doppio diario di Giaime Pintor, che provocò la rottura dell'autore con il "Manifesto". È un articolo assai acuto e appassionato che affronta il problema della continuità della classe dirigente intellettuale italiana e della differenza tra piccola borghesia e borghesia medio-alta, la quale ultima attraversa imperterrita i rivolgimenti storici. Fortini ha ragione di dire in nota che il problema è questo e che Pintor è solo l'occasione. Ma per quanto, a differenza di Luigi, non sia sospetto di avere rapporti di parentela con Giaime Pintor, l'articolo continua a lasciarmi un gusto d'amaro come la prima volta che lo lessi. La sacrosanta polemica forti-niana contro i detentori del sapere sembra anzitutto limitarsi a quelli italiani selezionati attraverso il reddito agrario e le grandi famiglie che ne godono, come se ci fosse molta differenza, nel risultato umano se non nell'efficienza, con i prodotti del reclutamento inglese dei civil servants o di quello della gerarchia ecclesiastica. Non credo che i ren-tiers della cultura siano molto peggio dei parvenus. Inoltre, se Fortini stesso parla del suo "risentimento" scheleriano nei confronti del grande borghese che era sempre "in" e sapeva sempre quel che succedeva, a differenza di lui, in questi casi è forse meglio reprimere il risentimento per non dare ragione a Scheler e attraverso di lui a Nietzsche, inventore dell'espressione. Serbiamoci per i neognostici, non prendiamocela con un neognostico avanti lettera, ammiratore di Cari Schmitt, di cui non sappiamo come avrebbe potuto evolvere. All'interno della borghesia ognuno è il figlio di papà dell'altro. A Fortini Pintor sembra tale. Ma a me, che ho passato l'adolescenza alla periferia di Milano, Fortini, che a Firenze incontrava un monumento ogni dieci passi e un poeta ermetico ogni venti, appare un beniamino degli dèi. La verità è che siamo tutti privilegiati in partenza e che il privilegio culturale si è modificato e allargato, ma continua ad esserci. Se vogliamo combatterlo in noi e negli altri, mettiamo una croce sul risentimento. Altrimenti si dirà che è per vincere il risentimento, e non per fratellanza morale e politica, che ho detto a Fortini questo mio "Si figuri! ". Tutto Fortini di Giorgio Luzzi Forse in nessun altro scrittore del dopoguerra l'estensione di interessi coincide, come in Franco Fortini, con la unità delle tensioni entro gli svariati generi, letterari e non, documentari: scrittura di invenzione e scritture critico-letterarie o saggisti-co-poliriche sono pertanto separabili in via puramente convenzionale. Fortini esordisce nel 1946 con la raccolta di versi Foglio di via L'esperienza della guerra e della lotta partigiana, temi dominanti della raccolta, si ritrovano nella prosa memorialistica Sere in Val-dossola (Mondadori, 1963; ma pressoché coevo, per gli anni di stesura, al libro degli esordi). Nel frattempo