n 3 L'INDICF ^BIdei libri del meseBH L'incomprensione del diverso di Giuliano Gliozzi Tzvetan Todorov, La conqui- sta dell' America. Il problema dell'"altro", Einaudi, Torino 1984, trad. dal francese di Aldo Serafini, pp. 321, Lit. 24.000. Se l'opera di Todorov, che la casa editrice Einaudi ha ritenuto oppor- tuno proporre al pubblico italiano (con una tempestività che in altre occasioni s'è fatta desiderate), fosse comparsa in una collanina di divul- gazione storica, probabilmente non varrebbe la pena di parlarne. Ma il nome dell'autore, semiologo di fa- ma, unitamente al prestigio della collana, tendono opportuna qualche considerazione. Sul titolo, innanzi tutto: che nella sua poco fantasiosa descrittività potrebbe far pensare ad una ricostruzione fattuale delle fasi della conquista, se il sottotitolo non avvertisse che si tratta invece dell'esame di un problema. Un pro- blema antropologico, quello del ri- conoscimento dell'"altro" (nel caso specifico, gli Amerindi), ma anche storico, perché si tratta di vedere co- me tale problema venne risolto (o non risolto) nel secolo successivo alla scoperta di Colombo, e in particola- re in Ispagna, al cui ambito Todorov limita la sua indagine. Un problema che negli ultimi anni è tornato all'attenzione degli storici — dopo aver ispirato, nell'anteguerra, gli studi ormai classici di Chinard e di Atkinson sulla nascita di un suppo- sto "mito del buon selvaggio" — i quali si arrovellano a ricercare le ca- tegorie culturali della tradizione eu- ropea che in qualche modo condi- zionarono l'immagine del "selvag- gio": il loro maturare, le loro frattu- re, l'emergere di nuove concezioni. Di questo arrovellarsi, che si ritrova in studi per altro diversissimi come quelli di Landucci e di Pagden, di Meek e di Prosperi, si troverà scarsa traccia nell'opera di Todorov. Si ha piuttosto l'impressione che Todorov torni a guardare al problema con gli occhi vergini e ingenui dei Chinard e degli Atkinson. Come quegli stu- diosi di cinquant'anni fa, ancora le- gati alla storia letteraria di impronta positivistica, Todorov ricerca negli autori che studia la manifestazione di tendenze psicologiche ricorrenti nello spirito umano. E come Chi- nard e Atkinson ritenevano una co- stante dello spirito umano l'idealiz- zazione dell'esotico, così Todorov analogamente, ma all'opposto (la decolonizzazione non è avvenuta in- vano) afferma che "la prima reazio- ne spontanea nei confronti dello straniero è quella di immaginarlo come inferiore, perché diverso da noi" (p. 92). Per la verità, Todorov va più in là. Se da un lato sponta- neamente la percezione della diffe- renza si converte in dottrina dell'ineguaglianza, dall'altro la dot- trina dell'eguaglianza umana tende a combinarsi con una percezione della identità (a scapito della diffe- renza). Dalla combinazione di que- sta duplice coppia di opposizioni ri- sultano "le grandi figure del rappor- to con d'altro, che ne disegnano l'inevitabile spazio" (p. 177). La possibilità di comprensione dell'al- tro è però legata — sembra presup- porre Todorov, senza tuttavia mai dirlo esplicitamente — ad un supe- ramento della tendenza spontanea all'aggregazione di ineguaglian- za/differenza da un lato e egua- glianza/identità dall'altro: e preci- samente — chi ha letto un po' di letteratura antropologica contempo- ranea non se ne stupirà — alla com- binazione eguaglianza (dei dirit- ti)/differenza (dei costumi). Quasi a smussare l'impressione di astrattezza che può generare nel let- tore questa coppia di opposizioni (impressione inevitabile, ma in qualche modo legittimata, trattan- dosi di strutture mentali), Todorov articola poi il suo discorso eviden- ziando quattro figure fondamentali del rapporto con l'altro (che intitola- no anche le quattro parti del sag- gio): "Scoprire", "Conquistare", " Amare ", " Conoscere ". Quattro gradini di un processo che si volge nel Cinquecento spagnolo, ma an- che, par di capire, quattro tipi ideali del rapporto con l'altro. Il capitolo "Scoprire" è ovviamente dedicato a Colombo, del quale è messa in risal- to la contraddizione tra una tenden- za medioevale a vedere "segni" ovunque e a interpretarli finalistica- mente, e un gusto tutto moderno per la natura e i suoi nuovi aspetti, nei quali Colombo è portato a inclu- dete, ahimè, anche gli indigeni del Nuovo Mondo. Fin qui, Todorov non fa che riprendere le considera- zioni svolte da Gerbi nel suo monu- mentale studio su La natura delle In- die Nove (1975). Suo è invece un al- tro tipo di considerazioni, connesso con l'individuazione delle opposi- zioni sopra ricordate. Dunque, Co- lombo considera gli americani "de- gli oggetti viventi" perché "non ri- conosce loro il diritto di avere una propria volontà" (p. 58). Egli "ha scoperto l'America, non gli america- ni", per il suo "rifiuto di considerarli un soggetto che ha gli stessi nostri diritti, ma è diverso da noi" (p. 60). Il che equivale a dire: Colombo non ha scoperto gli americani perché non l'ha pensata come un onesto funzio- nario dell'Unesco dovrebbe pensare. La figura "Conquistare? ha come attore storico Cortés, grande innova- tore rispetto agli altri conquistadores perché "ciò che vuole prima di tutto non è prendere, ma comprendere" (p. 122): di qui le sue inchieste per conoscere le popolazioni con cui en- tra a contatto, il suo considerare gli Aztechi non più come barbari bruta- li ma come popoli intelligenti e civili paragonabili agli stessi spagnoli. Ma perché poi in Cortés il "comprende- re" diventa "prendere", distruzione dell'oggetto conosciuto? Anziché ri- cercare una risposta a questa doman- da nelle peculiari condizioni storiche in cui Cortés si trovò ad operare (per esempio nel fatto di dover legittima- te una conquista compiuta senza al- cuna autorizzazione preventiva). Todorov la trova beli'e pronta nel suo schema semiologico. A ben guardare Cortés si interessa ai pro- dotti materiali della civiltà azteca, non ali 'io che li produce; e "se il comprendere non si accompagna al pieno riconoscimento dell'altro co- me soggetto, allora questa compren- sione rischia di essere utilizzata ai fi- ni dello sfruttamento, del 'prende- re'" (p. 161). Per spiegare poi perché il "prendere" si trasformi in distruzione, Todorov non si accon- tenta di "richiamare alcune caratte- ristiche immutabili della 'natura umana'" come 1'"aggressività" e la "pulsione di morte": egli avanza l'ipotesi che queste tendenze natu- rali si manifestino in modo differen- te nella "società del sacrificio" azte- ca, fortemente strutturata, e nella poco coesa società coloniale, alla cui tipologia Todorov dà il nome di "so- cietà del massacro" (pp. 174-76). Nella parte intitolata "Amare" Todorov analizza l'episodio nel qua- le più manifestamente trovò incar- nazione storica l'opposizione se- mantica eguaglianza/ineguaglianza: il celebre dibattito di Valladolid (1550-51) tra Las Casas e Sepùlveda, nel quale Todorov vede contrapporsi l'egualitarismo cristiano e l'inegua- litarismo aristotelico. E il vecchio schema interpretativo di L. Hanke, che il semiologo sposa per rendere più evidente l'opposizione, ma che la storiografia più recente ha messo in crisi, sottolineando il contributo di Las Casas — aristotelico non me- no convinto di Sepùlveda — alla tesi dell'inferiorità (fisica) dell 'indio, e per altro verso il molo determinante del metro biblico nella definizione della natura corrotta dell'umanità d'oltre Oceano. Ma Todorov preferi- sce presentarci l'immagine di un Las Casas accecato dall'amore, che nella convinzione che gli indiani "si com- portano da buoni cristiani" non rie- sce a comprendere, dell'oggetto del suo amore, assolutamente nulla. Il quadro cambia con la figura "Conoscere", con la quale si conclu- de il libro. Ma inaspettatamente non cambia l'attore. Questi è infatti an- cora Las Casas, ma un Las Casas tra- sformato, successivo al 1550, "dopo il suo definitivo ritorno in Messico" (p. 226). Purtroppo non risulta che dopo quella data il vecchio prelato abbia più posto piede fuori di Spa- gna; né è chiaro quale opera lettera- ria possa considerarsi espressione di questa nuova, supposta fase del pen- siero lascasiano, dato che l'Apo- logetica Historia, alla quale si po- trebbe pensare, era stata annoverata nel capitolo precedente tra le opere dell'incomprensione, dove "la storia si fa apologia" (p. 200). Ma tutto ciò poco importa. Lo schema semiologi- co di Todorov non si lascia sbaraglia- re da queste minuzie da erudito. L'importante è che ora Todorov pos- sa affermare che il nuovo "Las Casas scopre quella forma superiore di egualitarismo che è il prospettivi- smo, nel quale ognuno è messo in rapporto con i valori propri, anziché essere commisurato a un ideale uni- co" (p. 233). Finalmente si realizza così la coniugazione di eguaglianza e differenza. E occorre ammettere che le pagine in cui Las Casas cerca di mostrare che i sacrifici umani non sono contro la legge di natura — alle quali Todorov fa riferimento a que- sto punto — presentano aperture concettuali di grande interesse. Ma le conseguenze che Todorov preten- de di trarne sarebbero eccessive per- fino se riferite a Montaigne, che pu- re dista già le mille miglia dal buon vescovo di Chiapa. Questi rinunce- rebbe d'un tratto alla stessa verità della sua religione: "ognuno ha il diritto di avvicinarsi a dio per la stra- da che è per lui la più confacente. Non esiste più un vero Dio (il no- stro), ma una coesistenza di universi possibili" (p. 231). Il paragone con Giordano Bruno e il suo abbandono della teoria geocentrica a questo punto era inevitabile (pp. 233-34). Ma inevitabile è anche, nel lettore dotato di un briciolo di sensibilità storica, la sensazione di aver rag- giunto, per amore del paradosso, i limiti del surreale. Se il contributo di un semiologo alla storiografìa poggia sulla pretesa di cogliere intuitivamente i signifi- cati delle idee del passato sovrappo- nendo ad esse categorie concettuali condivise da una limitata cerchia di "scienziati sociali" contemporanei; se essere semiologi in campo storico significa pretendere di operare sulle strutture costanti della mentalità umana, saltando a piè pari il mo- mento della ricostruzione contestua- le, che solo può restituire alle idee il loro significato storico; se insomma significa dimenticare che la "que- stione dell'altro" si pone non soltan- to a proposito del rapporto degli eu- ropei del XVI secolo con gli indigeni americani, ma anche a proposito del nostro rapporto con i primi: allora lo studio di Todorov è un bell'esempio del fallimento dell'applicazione del- la semiologia agli studi storici. To- dorov d'altronde confessa che il pre- sente lo interessa assai più del passa- to, e che il suo interesse "è meno quello dello storico che del morali- sta" (p. 6: peccato che il traduttore, dimenticando il meno, gli faccia di- re il contrario). Ma al suo moralismo potremmo contrapporre il nostro, basato anch'esso sulla preoccupazio- ne del presente, anzi del futuro: che la semiologia possa diventare un ali- bi — specie per chi non porta il no- me di Todorov — per trovare vie d'accesso ai testi del passato rispar- miandosi lunghe e tediose ore in bi- blioteca. Siegfried Kracauer Il romanzo poliziesco Editori Riuniti, Roma 1984, ed. orig. 1971, tr. dal tedesco di Renato Cristin pp. 124, Lit. 7.500 Lo stesso Kracauer architetto, critico cine- matografico, sociologo, narratore, si occupò anche del romanzo poliziesco e tra il 1922 e il 1925 scrisse questo saggio, che venne pubbli- cato postumo nel 1971; in Italia esso era già apparso dieci anni fa, in un volume di suoi scritti sociologici. Questa nuova versione, cui il traduttore premette una nota introduttiva chiarificatrice ma anche semplificatrice, va forse letta come un contributo a una certa tendenza del costume che vede gli intellet- tuali teorizzare sui più svariati argomenti, an- che su quelli che a prima vista sembrerebbero di poco conto. In poco più di un centinaio di pagine, che — per una migliore comprensio- ne — si potrebbe forse suggerire di leggere a partire dal fondo, come /'Etica di Spinoza, l'autore prende in esame una serie di "figu- re ", di tòpoi del romanzo giallo, le analizza secondo i presupposti e i metodi del pensiero dialettico, svelandone gli inquietanti tratti di prodotti di una realtà deformata e capovolta. Là dove gli scogli del linguaggio non abbiano scoraggiato il lettore poco equipaggiato o di- mentico di Kierkegaard e di Kant, ci si trova di fronte a una prosa che anticipa il miglior Adorno dei Minima moralia, /' "amico " cui il saggio è dedicato, tutta tesa a denunziare l'assenza di senso nelle realtà più quotidiane ed apparentemente innocue. Così il romanzo poliziesco, già affermatosi negli anni '20 co- me letteratura di massa, diventa il luogo let- terario in cui si trova dispiegato il potere au- tonomo ed assolutizzante della ratio imma- nente, che non si rapporta ad altro da sé, e il detective ne è l'incarnazione; la sua attività intellettuale testimonia di una razionalità ap- pagata, che fa piazza pulita del mistero, sem- plicemente eliminandolo, riducendolo a un nulla. Attraverso l'esame del concetto di le- galità si sviluppa il discorso critico sul razio- nalismo dei sistemi onnicomprensivi, mentre un incalzare di argomentazioni esamina i meccanismi psicologici connessi alla lettura del romanzo poliziesco: la paura, la suspense, l'umorismo. (p.l.)