N. 3 pag. 12 Scrivere, scrivere per uscire dal cerchio di Guido Massino Giuliano Baioni, Kafka: lette- ratura ed ebraismo, Einaudi, To- rino 1984, pp. 302, Lit. 26.000 Friederich Thieberger ebreo pra- ghese, di alcuni anni più giovane di Kafka e suo maestro d'ebraico, ricor- da come lo scrittore, già gravemente malato, gli mostrasse dalla finestra della propria camera lo spazio limi- tato entro cui era vissuto tracciando un cerchio che racchiudeva la casa natale, la scuola elementare, il gin- nasio, l'università e l'ufficio. Per lo scrittore, allontanatosi raramente dagli ambienti praghesi, il cerchio immaginario veniva probabilmente a delimitare, come il perimetro dell'antico ghetto demolito agli ini- zi del secolo, un inconfondibile spa- zio ebraico. Praga, la "mammina delle mani artigliate", città amata ed odiata, è per Kafka anche sempre cifra della propria condizione di ebreo praghese, grande palcoscenico dell'ebraismo occidentale, della sua trasformazione e della sua crisi, che per lo scrittore assurge a vera catego- ria storica, a destino del proprio tempo chiamato nelle lettere infatti "westjudische Zeit ". L'"epoca ebraico-occidentale" di Kafka è ora oggetto dell'illuminante saggio di Giuliano Baioni che in questo suo ultimo libro, dedica den- si capitoli al contesto ebraico pra- ghese, da sempre problema irrisolto della critica kafkiana. Il clima cultu- rale praghese viene illustrato da Baioni attraverso una documentaris- sima ricostruzione del dibattito sull'ebraismo nella cultura di lingua tedesca fra i due primi decenni del secolo. Il chassidismo di Martin Bu- ber e di Nathan Birnbaum, gli arti- coli dalla rivista "Selbstwehr", gli interventi di intellettuali vicinissimi a Kafka come Max Brod e Hugo Bergmann, di Karl Kraus e Franz Werfel, degli antisemiti tedeschi e dei più accesi nazionalisti sionisti si rivelano riferimenti spesso indispen- sabili per la comprensione dell'ope- ra kafkiana. Sottraendosi interamente alla consuetudine di tanta critica che fa di Kafka il punto di indifferenziata convergenza delle più disparate ten- denze e suggestioni, Baioni riesce a leggere attraverso il filtro oscuro e mai esplicito dei testi narrativi ed ex- tranarrativi dello scrittore praghese la cronaca di un rigoroso e continuo confronto con il mondo ebraico con- temporaneo. Il processo, Nella colo- nia penale, Un medico di campa- gna, Prometeo, Il silenzio delle sire- ne, si mostrano attraverso la magi- strale analisi di Baioni nella loro es- senza di lucide, anche se cifrate, ri- flessioni sulla storia e sulla parola, sul destino dell'ebraismo e della let- teratura. Lo studio di Baioni prende le mosse dall'influsso che fra il 1909 e il 1913 Martin Buber, filosofo, tra- duttore e divulgatore dei racconti chassidici, esercitò sui circoli ebraici praghesi. Il sionismo culturale di Buber, che opponeva all'ebreo inca- pace di sentire e di creare della pro- paganda antisemita la calda ed ine- sauribile vitalità chassidica, trovò negli ambienti praghesi un terreno fertilissimo. L'ebraismo praghese, infatti, vi aveva conservato una rela- tiva unità, non aveva conosciuto, co- me la provincia ceca, la spinta di- sgregante dell'antisemitismo, ed era l'unico che potesse porre il proble- ma di ridefinire positivamente la so- stanza della tradizione e dell'iden- tità ebraica. In realtà, rileva Baioni, il revival chassidico buberiano affon- dava le radici nella cultura del nazio- nalismo romantico e dell'irrazionali- smo tedesco. Sullo schema del mes- sianismo germanico, nazionalismo fichtiano e profetismo nietzscheano animavano l'ideale di un artista-de- miurgo fondatore di una nuova epo- ca della spiritualità ebraica. L'ebreo occidentale, vissuto da sempre nella identità di scrittore moderno, chia- mato a rappresentare i dolori dell'uomo contemporaneo; dalla fe- de in un ideale di letteratura assolu- ta che, eliminato ogni compromesso con la storia, la polemica ideologica, l'attualità, sollevasse il mondo, co- me scrive Kafka, "nel puro, nel vero e nell'immutabile". Baioni si soffer- ma a lungo sul rapporto di Kafka con la letteratura e sottolinea come la novità e l'eccezionalità dell'opera dello scrittore praghese convivano spesso con le convenzioni della for- mazione giovanile, con l'idea ro- mantico-borghese della "letteratura come martirio della conoscenza", annullamento della vita nell'opera della propria vita trae linfe preziose per alimentare il supremo piacere della scrittura. Colpa e significato della letteratu- ra sono, probabilmente, il motivo Viaggiare senza valigia di Luisa Timo Heinrich Boll, Che cosa ne faremo di que- sto ragazzo? Einaudi, Torino 1984, pp. 79, Lit. 6.500. «Quarantotto anni — dal 1981 al 1933 — all'indietro e quattro — dal 1933 al 1937 — in avanti... Qui il sessantatreenne sorride all'indietro verso il quindicenne, il qindicen- ne non rivolge il sorriso all'insù verso il ses- santatreenne». Riprendere le fila della propria vita, rac- contarsi, come fa Boll, scegliendo una ironia ormai provata e matura, rifuggendo da ogni auto-celebrazione da scrittore togato, ha la fi- ne malinconia di un definitivo distacco dal ragazzo serio e chiuso nell'impegnativo me- stiere di vivere, cosicché il tono, quasi sempre lieve e disincantato, sembra ormai ufficial- mente sancire il passaggio spietato del tem- po. Allora lo «stravagante» studente Boll, in realtà più allievo della vita che della scuola, vive a Colonia in una apparente fuga da ogni obbligo, alla caparbia ricerca della propria in- dividualità. L'ambiente familiare, di forma- zione cattolica, è chiaramente non borghese ed anticonvenzionale:il padre è un poetico «Micawber» di stampo dickensiano, che vive al di là delle proprie possibilità: la madre odia visceralmente il nazismo, vedendone le potenzialità di morte; fratelli e pensionanti fanno da coro. Le scelte culturali sono precise: Giovenale, imposto dall'insegnante, Antigone, tradotta volontariamente, sono un chiaro segno di ri- fiuto e di interpretazione dei tempi, così co- me sono un "porsi altrove" la lettura di Mann, Remarque, Dostoevskij, imprevedibil- mente Balzac, faticosamente acquistati con i preziosi risparmi. L'osceno Mein Kampf vie- ne riassunto a scuola, ma, ecco lo sberleffo, molto in breve, privilegiando la sintesi così distante dalla logorrea del Eùhrer, e la ginna- stica è la materia più odiata. Lo sguardo non è volto solo al versante culturale e familiare, ma anche al semplice vivere quotidiano: il piace- re delle sigarette di contrabbando, il solitario vagabondare in bicicletta, l'andare al cinema di straforo, costituiscono, insieme alla vittoria olimpica di Owens e di Metcalfe, un negro ed un negro cattolico, le gioie rubate alla tristez- za dei tempi. L'epoca non fa da semplice cornice, ma è sottesa a tutto il racconto, con toni di ironico distacco estetico e culturale, di sdegno per il rogo dei libri, non solo increscioso ma «mise- rabile», di angoscia per la sorte degli ebrei, di terrore di fronte alla cieca violenza delle pri- me esecuzioni, di orrore allo sguardo vitreo, da morfinomane, di Gòring. Il periodo si può riassumere in un « vivere per la morte»: muoiono infatti, sul fronte franchista, i primi compagni e per Boll, *viaggiatore senza valigia», l'essere diverso e voler «vivere per la vita», fuggendo non dalla Germania, cosa per lui impensabile, ma «di- sertando verso l'interno: a casa». Il titolo dellibro, l'ansiosa domanda: « Che cosa faremo di questo ragazzo?» diventa il motivo conduttore degli ultimi capitoli. Rim- piangiamo soltanto che l'autore non abbia avuto la «serietà» e la vocazione di un altro giovane, Hans, protagonista di Opinioni di un clown che, con caparbia volontà, diceva ai genitori allibiti: « Voglio diventare un clown». Il nostro outsider diventerà, dopo un esame farsa, bibliotecario: una nicchia tranquilla, un rifugio. Per quanto tempo ? cultura tedesca, era per Buber il solo a possedere, come scrive Baioni, "gli strumenti ideologici per dare origine alla rinascita della cultura ebraica", per "rieducare alla totalità e all'ar- monia la monca umanità dell'ebreo della diaspora". Di questo clima cul- turale, in cui il pathos espressionista si confondeva spesso con i toni della più intransigente militanza ideolo- gica, Max Brod divenne ben presto l'esponente più autorevole. Kafka, invece, pur servendosi spesso delle categorie critiche del pensiero sionista e seguendo con ammirazione l'attività di Brod, nel 1922 ricordava all'amico la propria assoluta mancanza di "tetteno ebrai- co sotto i piedi"; e con Milena si de- finiva "il più occidentale degli ebrei occidentali". Secondo la tesi di Baioni, però, l'impossibilità di aderire al sionismo è determinata in Kafka non tanto da un'istanza ideologica o morale, quanto dall'intuizione — fonda- mentale — del legame elettivo fra la crisi ebraico-occidentale e la propria assoluta che Kafka aveva appreso dall'amatissimo Flaubert. "Kafka — scrive Giuliano Baioni — ha di Flau- bert il gusto dell'oggetto estetico as- soluto che risucchia in se medesimo tutta l'umanità del suo costruttore". Baioni insiste particolarmente su questa esperienza autodistruttiva, totale ed inumana della scrittura, gettando nuova luce sul significato della colpa degli eroi kafkiani. Il bi- sogno di perfezione è infatti per Kafka anche desiderio di vivere in tutta la sua intensità il piacere esteti- co del testo, una pulsione elementa- re e torpida che impone allo scrittore di trasformare continuamente la vita fissandola nel fuoco della pagina e che lo tende simile all'animale della Tana, uno degli ultimi racconti kaf- kiani, ma anche all'inquietante in- setto della Metamorfosi. Così se Max Brod indicava nei racconti di Kafka l'espressione più intensa del dram- ma dell'anima ebraica, lo scrittore riconosceva in se stesso l'esteta kier- kegaardiano, il "menteur" che dai dolori della propria generazione e segreto di quasi tutte le opere dello scrittore praghese. Nel Processo, ad esempio, Josef K. decide di licenzia- re l'avvocato Huld e di scrivere egli stesso un memoriale. Secondo Baio- ni l'ordine interno del romanzo (ini- ziato pochi giorni dopo la rottura del fidanzamento con Felice Bauer) corrisponde agli avvenimenti della vita di Kafka: la decisione di licen- ziare l'avvocato è la decisione di scri- vere il romanzo, è la decisione per la letteratura, seguito al rifiuto ed all'impossibilità di radicarsi nell'ebraismo attraverso il matrimo- nio ed il servizio a favore della co- munità. La notissima parabola Da- vanti alla Legge, che anche stilistica- mente costituisce una cesura nel ro- manzo, viene allora a rappresentare, secondo Baioni, proprio la dimen- sione della vita estetica e dell'arte. Per la prima volta il tribunale, regno del caos e della promiscuità, appare nella parabola disposto secondo la li- neare gerarchia delle porte e dei guardiani. Tuttavia, scrive Baioni, "lo spazio prospettico della Legge, disegnato dalla progressione delle porte e dei guardiani, non è vera- mente una via, ma solo l'immagine di una via, è una prospettiva 'rap- presentata', una bella forma bidi- mensionale che [...] in nessun caso può rappresentare un punto di tran- sito verso la verità". La porta della Legge è il punto d'osservazione da cui l'esteta riduce la caotica essenza del mondo nella linearità della rap- presentazione, ma che lo trattiene anche, per tutta la vita, al di fuori della verità e della Legge. Nella bel- lezza impenetrabile della parabola viene ad esemplificarsi così quella scissione di haggadah e halakhah, dell'elemento estetico della lettera- tura talmudica da quello normativo, eticamente fondante, che il poeta ebraico C.N. Bialik indicava nell'ar- te dell'ebraismo occidentale Questa esclusione dalla verità dell'ebreo occidentale votato alla letteratura si pone però nell'opera di Kafka, a partire dagli anni '16-'17, sempre più come condizione univer- sale dell'uomo contemporaneo. In questo senso Baioni individua un momento decisivo per l'arte kafkia- na nel rinnovato interesse dello scrit- tore per il mondo ebraico-orientale, il cui esito si può sintetizzare nella presa di coscienza di un mondo chassidico fondato sull'autorità de- gli zaddikim, le guide spirituali del- le comunità orientali, veri e propri alter ego del minaccioso padre kaf- kiano, che esercitavano un potere senza legittimazione, tenendo sa- pientemente il popolo nell'ignoran- za della legge, e sostituendosi di fat- to all'autorità divina. La riflessione sull'ebraismo orientale, che smenti- va così l'immagine diffusa del chas- sidismo buberiano, confluisce nel ci- clo di frammenti Durante la costru- zione della muraglia cinese, a cui Baioni dedica alcune delle più belle pagine del libro. I sudditi cinesi che edificano il baluardo difensivo se- guendo gli ordini oscuri di una ri- stretta casta dirigente, si servono di grandi blocchi squadrati su cui anti- chi popoli nomadi hanno tracciato segni incomprensibili. L'imperato- re, unica persona che potrebbe chia- rire il significato della costruzione, risiede nella lontanissima Pechino ed il suo messaggero, come racconta la celebre leggenda kafkiana, non raggiungerà mai il suddito perché l'infinita serie di cortili ed i detriti del mondo circondano il palazzo im- periale. Il compito che Kafka intuisce sempre più chiaramente a partire dal 1917-' 18, ed a cui Baioni dedica i capitoli conclusivi del suo saggio, consiste allora nel rintracciare i con- torni della propria vita, nel fare del- la letteratura lo strumento che scar- dina il potere e la menzogna delle "verità amministrate", che pone al centro dell'universo la domanda ir- resolubile sulla verità e sul significa- to della bellezza, e distrugge se stes- so come "estasi e piacere della lette- ratura" per divenite "testimonianza negativa della verità". E la consape- volezza di questo compito, secondo Baioni, la forza che anima l'ultima stagione artistica dello scrittore, una forza che non diviene però mai cer- tezza del mandato di rappresentare il mondo, che conserva anzi tutta la problematicità e l'ambiguità degli ultimi eroi kafkiani, dell'inseducibi- le Ulisse del Silenzio delle sirene e dell'agrimensore del Castello.