TINDCF « ■ dei libri del meseHH Una micro-epopea _di Luciana Stegagno Picchio J0A0 GuimaràES Rosa, Grande Sertào, Feltrinelli, Milano 1985, ed. orig. 1956 (Impronte-Serie Maggiore), trad. dal brasiliano e glossario di Edoardo Bizzarri, pp. 449, Lit. 22.000. A quindici anni di distanza dalla prima edizione nella sua collana dei Narratori, Feltrinelli ristampa Grande Sertào di Guimaràes Rosa: un capolavoro riconosciuto della letteratura brasiliana e, seppure neanche un trentennio ci separi dalla sua prima pubblicazione, che è del 1956, un classico ormai della narrativa del nostro secolo. Il classico è quel testo (prosa, poesia, narrativa, musica, pittura, teatro, non importa) che consente e sopporta tutte le interpretazioni, a tutti i livelli, nel tempo e nello spazio. Un testo che gli anni accrescono di senso, prestandogli a ogni diversa esecuzione sempre nuovi significati. Un testo con cui ogni lettore in ogni luogo e in ogni tempo può istituire un dialogo, ravvisando in esso valori a lui congeniali, sincronici. Così è, o così ci appare oggi, a quasi tre decenni di distanza, il Grande Sertào: Veredas di Joào Guimaràes Rosa. La traduzione italiana di Edoardo Bizzarri, una traduzione sapiente e impegnata, anche se per noi leggermente datata, legata ad una convenzione letteraria che imponeva di tradurre tutto, a cominciare dai nomi che oggi preferirem- Geoffrey Parker Un solo re, un solo impero Filippo II di Spagna Storia e cronaca, ruolo pubblico e vita quotidiana nella biografia del più potente monarca della cristianità Ezio Raimondi Le pietre del sogno Il moderno dopo il sublime Tra Piranesi e Alfieri, il configurarsi della sensibilità moderna, l'itinerario di un'arte che si apre alla vertigine del sublime, alle ombre inquietanti dell'inconscio Dolf Sternberger Panorama del XIX secolo I decenni del trionfo borghese e il suo bric-à-brac culturale: un'eccentrica collezione di oggetti inusitati e emblematici nei saggi dell'amico di Brecht e Benjamin, della Arendt e di Bloch Mary Douglas Antropologia e simbolismo Religione, cibo e denaro nella vita sociale Tra «primitivi» e «civili», il linguaggio dei riti quotidiani, il senso delle regole non scritte che cementano e perpetuano le società il Mulino mo ritrovare nella loro iconicità e nel loro suono-colore originali, riduce il titolo opacizzandolo. Perché se il grande sertào è l'interno tutto dei Campos Gerais del Brasile centro-settentrionale, dallo stato di Minas su fino al Piaul e al Maranhào, le veredas sono i sentieri, terre verdeggianti e corsi d'acqua in cui, come nelle vene e nelle arterie di un corpo sterminato, pulsa la vita: fino a confluire tutte nel San Francisco che, con il suo corso imponente di oltre 3.000 chilometri da sud a nord, da Minas ad Alagoas, è l'unico vero fiume del sertào ( "Rio è soltanto il San Francisco. Il resto piccolo è vere-da" ). Un universo chiuso, con le sue leggi e le sue opposizioni manichee: Dio e il diavolo, il bene e il male, il lato chiaro e il lato oscuro, l'ordine e il disordine, la guerra e la pace, la legge e i fuorilegge, la siccità e l'abbondanza; ma dove spesso la contingenza e il punto di vista mescolano le tessere così che l'interpretazione ne appare più che stravolta, inaccessibile. "Vivere è molto pericoloso". L'affermazione scandisce come uno slogan tutto il racconto di Riobaldo il quale, più che protagonista della vicenda (se il vero protagonista, eponimo del romanzo, è l'universo sertào e la sua legge), si presenta a noi, in termini di straniamento brechtiano, come lo storico, il narratore. La narrazione è diretta a un interlocutore fuori campo, di diversa estrazione sociale: un "dottore" di città di molta scienza e maggiore considerazione, in cui possiamo identificare il diplomatico Guimaràes Rosa che, in tempi di ferie, si aggira a cavallo per i meandri del sertào attorno alla sua nativa Codi-sburgo e interroga, annota, rievoca. Così che, pur nell'onnipresenza dell'"io" — Riobaldo e del "noi" — jagungos — fuorilegge della banda di Riobaldo, con alla testa ogni volta i capi carismatici, da Medeiro Vaz a Joca Ramiro, e a Zé Bebelo fino allo stesso Riobaldo-Urutu Bianco-Tata-rana (ogni incarnazione, ogni stadio della vita ha il suo proprio nome), questo racconto, più che monologo, vuol essere dialogo. Un dialogo in cui le battute dell'"altro", nel silenzio in cui si materiano, vengono solo indicate dalle sospensioni, sottoli- neature, assensi, chiamate in causa da parte del narratore. Parla questo narratore di sé e della propria vicenda dalla cornice del "dopo", in un regime di alterità e oggettività straniata che conferisce a tutto il romanzo l'aureola attonita e atemporale dell'epopea. Grandi passioni e grandi conflitti, sofferenze e moni, su cui il tempo, pur storicamente fissato da date frammesse alla narrazione, ha steso la coltre della riflessione e della pa-radigmaticità. Ed ecco Riobaldo, vecchio jagungo rientrato nella norma e nella rispettabilità pur sempre entro l'universo sertào, Riobaldo sposo felice di un'Otacilia che fin dalle origini ha rispecchiato il lato chiaro, solare, della sua natura di uomo, ricostruire in parole per l'amico dottore le vicissitudini di quel tempo oscuro di lotte, ritagliandole nella memoria come in diapositive di analitico colorismo. Eccolo risvegliare il suo struggente e ambivalente sodalizio con Diado-rim, l'enigmatico fanciullo dagli occhi verdi (sempre la malia degli oc- chi verdi nell'epica e nella lirica ispaniche) cui solo il travolgente ex-plicit darà ragione e collocazione sociale. Eccolo scrutare in ogni piega eventi e connessioni per trovare la legge, la spiegazione, la risposta all'interrogativo di fondo: il diavolo esiste? "Il diavolo per la via in mezzo al vortice". Anche questo è sottotitolo e slogan, motivo dominante e ricorrente della narrazione. Ma qual è, al di là di questa composita e avventurosa storia di jagungos, entro l'universo sertào, l'ultimo significato di questa micro-epopea? Grande Sertào: Veredas sopporta (o esige) diversi livelli di lettura. Nell'originale lo si può leggere inseguendo l'invenzione verbale che, come un'iridata paletta d'artista (i neologismi, le parole composte, le parole porta-mantello, le sentenze, gli aforismi), inventa, colorandolo di suono, il mondo. Poesia. E così lo si legge dal 1956 in Brasile come un'avventura collettiva, un viaggio inebriante nelle parole, una continua scoperta poetica, un gioco che scioglie i lettori in sorrisi di connivenza, da membri di consorteria, setta segreta. Come se dopo Guimaràes Rosa non solo la letteratura, ma la lingua stessa del Brasile fosse diventata diversa. Come se ci fosse stato con lui, che tutti oggi, più o meno coscientemente, imitano, un passaggio dalla quantità alla qualità, una rivoluzione. Ma anche in traduzione e, in una traduzione sensibile come questa, il classico Grande Sertào offre una fìtta rete di percorsi. Lo si può leggere come un giallo (e non per caso Guimaràes Rosa, a quel tempo medico nel sertào di Minas, aveva esordito quale scrittore di storie poliziesche). Si inseguono allora gli "indizi": la borsa di Diadorim, i suoi bagni not- turni, le similitudini che l'apparentano a un giaguaro femmina nella difesa dei piccoli. Indizi che puntellano il racconto fino al tragico finale e al rimorso d'inadeguatezza che nel "dopo" della cornice del racconto, pungola la vecchiaia del jagungo Riobaldo, sollecitandone il lato speculativo e l'inclinazione all'aforisma. E in questa prospettiva del dopo che si può allora leggere e assaporare questa storia non solo nel suo senso, ma anche nel soprasenso, fissato, come ogni testo di questo complesso narrativo, in schemi platonici. Le storie preesistono e Guimaràes Rosa le intrawedeva riflesse nella corteccia del mondo, le acchiappava a volo allargando le braccia per via. Quattro citazioni da Plotino aprivano, sempre nel 1956, la prima edizione di Corpo di ballo. Fondamentale fra le altre quella che esplicitava; "perché, in tutte le circostanze della vita reale, non è l'anima dentro di noi, ma la sua ombra, l'uomo esterno, che geme, si lamenta e disimpegna tutte le parti di questo teatro di scene multiple che è il mondo". In Grande sertào questo sopra-senso è indicato, suggerito, da presagi, sussulti d'anima, prefigurazioni. Come nell'episodio di Diadorim bambino che rapisce in canoa il non ancora sbocciato Riobaldo. O nell'episodio, centrale, del patto col diavolo: un diavolo che non si presenta all'appuntamento confermando la sua non esistenza, ma che pur agisce nell'interno dell'individuo e del mondo, fatto realtà dal timore, dalla malvagità, dal desiderio di sopraffazione dell'uomo ("Battei i piedi, spaventandomi allora per il fatto che non accadeva goccia di nulla, e l'ora invano passava. Allora lui non voleva esistere? Esistesse. Venisse! Arrivasse, per sciogliere quella congiuntura... E fu così. Fu. Lui non esiste e non apparve né rispose — che è un falso immaginato. Ma io feci conto che lui mi avesse inteso... Come se avesse accolto tutte le mie parole; e chiuso la questione. E io ricevetti in cambio una disponibilità, un piacere di afferrare, e di lì una tranquillità — di colpo. Pensai a un fiume che entrasse nella casa di mio padre. Vidi le ali. Misurai l'impulso del mio potere, in quell'attimo. Poteva essere di più?"). Il soprasenso si salda qui al senso e alla storia, compatta e tesa nella sua vicenda di vita e di morte. Ed ecco che Grande sertào si può anche leggere come un romanzo "realista", come tranche-de vie rusticana: di un sertào brasiliano di jagungos e vaccari, in cui assai labile è il confine tra la legge e il fuorilegge. In questo universo-nomade i personaggi s'incontrano e si scontrano come cavalieri nella foresta ammana: ciascuno seguendo un proprio percorso avventuroso e catartico, ciascuno incarnando in sé un ideale, un modello umano. E il lettore, coinvolto emotivamente nello scontro fra le due bande rivali, mentre insegue il ritmo incalzante della narrazione, sente in lontananza echi di romances cavallereschi, riconosce la donzella guerriera, il traditore (Gano-Ermo-gene), l'eroe solare (Orlando-Rio-baldo) e l'eroe lunare (Olivieri-Rei-naldo-Diadorim). Presentando la prima edizione del romanzo, lo stesso Guimaràes Rosa parlava di libro magico e consolatorio. E non fa meraviglia che oggi, quando i lettori sembrano aver ritrovato il gusto dell'intreccio e della storia chiusa, ad indizi concatenati, mentre continuano a subire il fascino di un realismo magico e atemporale di nuova tradizione latino-americana, Grande sertào ritrovi, dopo trent'anni, una sua imprevista attualità e saturi valenze che allora forse non si erano ancora così apertamente rivelate. □