pag. 5 L 'Intervista di intolleranza a cura di laura Gonzales Nel suo ultimo romanzo lei utilizza un procedimento narrativo analogo a quello utilizzato da Wajda in "L'uomo di marmo ". Ma nel film polacco il vecchio militante e i suoi eredi, malgrado la sconfitta, continuano a lottare, mentre Mayta e un fallito e i suoi eredi polìtici sono dei cavalieri dell'Apocalisse. La sua è una profezia o un ammonimento? È più un ammonimento che una profezia. L'idea del romanzo è seguire con l'immaginazione, con la fantasia lo sviluppo di questo processo di estensione e in certo modo di legittimazione della violenza, come strumento di azione politica. Il romanzo descrive un Perù apocalittico in cui questo processo è arrivato all'estremo limite, creando una situazione di vera e propria ecatombe nazionale nella quale è ormai impossibile distinguere la violenza buona da quella cattiva, in cui la violenza mostra il suo volto crudo come puramente negativo. Ma questa è fondamentalmente una visione immaginaria che non pretende affatto di interpretare rigorosamente la storia. Direi anzi che una delle convinzioni che sta dietro il romanzo è che la storia non può mai essere letta come un insieme di regole scientifiche decifrabili e addirittura governabili dall'uomo. Ora, si tratta di un romanzo, il che mi sembra importante, di una storia, cioè, in cui l'elemento immaginario e l'elemento formale sono fondamentali, più importanti di quelli puramente storici o morali o ideologici. Lei descrive nel romanzo una visita al Museo dell'Inquisizione di Lima che rivela allo scrittore-narratore il nesso tra cattolicesimo e marxismo, vissuto da Mayta come una fede religiosa. Perché' oggi il nesso tra religione e ideologia politica, soprattutto il marxismo, è così forte in America Latina? Sì, quello è proprio il momento culminante nel romanzo, in cui al narratore capita di visitare il museo dov'è esposto in modo emblematico tutto ciò che significò l'intolleranza religiosa; allora il vincolo, il legame, il ponte, con quell'altra forma di intolleranza, apparentemente laica, quella marxista, rivoluzionaria, gli appare chiarissimo. Credo che il marxismo nel Terzo Mondo sia diventato la religione del nostro tempo. E un fenomeno oggi ben visibile in America Latina che spiega d'altronde in buona parte la facilità con cui certi settori religiosi, cattolici, si siano avvicinati alle posizioni marxiste, malgrado le apparenti insormontabili distanze che li separano. Naipaul nel Viaggio tra i credenti rileva lo stesso fenomeno per quanto riguarda l'islamismo. Sì, a me interessa molto l'atteggiamento di Naipaul, perché in questo senso è un grande critico dell'utopia. Credo però che quello che mi separa da lui sia il suo pessimismo. Naipaul, perlomeno nei suoi saggi, nei suoi romanzi, non sembra vedere alcuna via di uscita per il Terzo Mondo. Io non sono un pessimista e ritengo invece che il Terzo Mondo abbia una via d'uscita. Credo che la soluzione che potremmo chiamare democratica, di contrattazione, di compromesso, di consenso, possa perfettamente offrire al Terzo Mondo una via verso lo sviluppo. Il sottotenente Valle jo trascina nel suo tentativo insurrezionale il vecchio militante marxista che, a sua volta, plagiandolo, offre una giustificazione, urrà base ideologica alla sua azione militare. Non crede che il guerriglierismo latinoamericano abbia salde e remote radici nella tradi- favore delle verità relative, che è l'unica cosa che ci può indurre ad accettare, dal punto di vista teorico e morale, la necessità del compromesso, del consenso, della coesistenza nella diversità. È questa la grande rivoluzione che va fatta in America Latina. Quando i popoli latinoamericani sono consultati, la risposta è chiarissima: non optano mai per la soluzione apocalittica, per il terremoto. Sono gli intellettuali della sinistra che optano per queste soluzioni. Ma i popoli, guardi un po' l'Argentina, l'Uruguay, il Perù, il Brasile, la loro risposta è orientata realisticamente verso forme moderate di consenso, non di intolleranza. Quindi l'uomo comune latinoamericano a me sembra molto più sensa- andava appurando e raccogliendo su Mayta, articoli di giornali, testimonianze di conoscenti, di amici o di nemici, per inventare, far emergere dalla fantasia un Mayta che non era tanto il Mayta storico quanto un Mayta letterario, un Mayta inventato da lui. Questo spiega l'esistenza dell'ultimo capitolo del romanzo in cui appare un Mayta che è come un'altra versione, totalmente diversa, del personaggio. Una versione diciamo più oggettiva, meno soggettiva del Mayta dei capitoli precedenti. Ora, qual è il vero Mayta? Forse è una sintesi impossibile tra questi due Mayta. Flaubert, che lei ammira moltissimo, diceva: "Madame Bovary c'est L'iperrealismo di Vargas di L. G. Mario Vargas Llosa è stato prevalentemente letto in Italia come un grande affreschista alla Balzac, in contrapposizione al realismo magico di Marquez. Ma questa lettura è fuor-viante. La ricchezza della sua vena, infatti, è stata fin da La città e i cani, che lo rese famoso a livello internazionale, costantemente sorretta da una ricerca e sperimentazione di nuove tecniche e architetture narrative. Come contro esempio di questa lettura riduttiva, basti pensare al virtuosismo con cui Vargas opera la scomposizione temporale e il trapasso dei piani narrativi in La Casa verde, Conversazione nella Cattedrale, Pantaleone e le visitatrici, e alla funzione stilistica del semi-personaggio del narratore che ha introdotto come co-protagonista nei suoi ultimi romanzi. Con un procedimento analogo a quello utilizzato da Andrzej Wajda in L'uomo di marmo, Storia di Mayta parte e si organizza intorno a un'indagine. In questo romanzo, come nel film, i piani temporali del racconto — presente e passato — si accavallano e si dissolvono continuamente l'uno nell'altro. Ma mentre in Wajda le incursioni nel passato servono per individuare il punto dì partenza dell'"attuale" crisi polacca e ricostruirne, attraverso la vicenda del personaggio, il filo conduttore, in Vargas Llosa l'intreccio dei piani temporali ha la funzione di individuare il personaggio senza mai imprigionarlo in nessi causali. Il futuro fantapolitico che descrive è una lettura iperrrealista del presente in chiave ammonitrice. Il paese apocalittico in cui si muove lo scrittore-narratore della Storia di Mayta e il Perù di oggi, focalizzato dal microscopio di uno scienziato che esplora una cultura dì microbi. Ma il suo non è un atteggiamento distaccato dall'orrore del pre- sente. Anche a Vargas interessa capire come e perché ci si è arrivati, ma non propone una lettura a tesi della sanguinosa cronistoria latinoamericana degli ultimi trent'anni. La fa in modo indiretto, mescolando fatti, ipotesi e interpretazioni in un blend in cui è impossibile districare l'invenzione dalla realtà. Perché Vargas, che e un empirista, ha coscienza dei limiti della ragione storica e si domanda — come suor Maria nel romanzo — "se qualche volta si riesce a conoscere la storia con la maiuscola, o se non vi sia in essa altrettanta o più invenzione che nei romanzi". Perciò il protagonista della Storia di Mayta e tutti gli altri personaggi, perfino e soprattutto, direi, quello dello scrittore che tesse e ritesse i fili della trama, non sono creature emblematiche, costruite sulla realtà, ma trapiantate dalla realtà nell'invenzione letteraria, conservando intatta la complessa polivalenza dell'azione umana. In questo, e solo in questo, Vargas Llosa è uno scrittore realista. E il potere persuasivo della lucida e spietata analisi della sinistra latinoamericana e dei suoi miti che il romanzo racconta, è essenzialmente dovuto all'"intelligente simpatia" con cui Vargas rappresenta i suoi personaggi. Come Naipaul, Vargas è drammaticamente consapevole dell'arretratezza socio-culturale dei paesi del Terzo Mondo e della virulenza con cui sugli scempi di colonizzazioni e genocidi vi attecchiscono movimenti utopistici e vi fioriscono strani ibridi religiosi culturali. Ma lo scrittore indiano è più pessimista e vede il risultato di questa commistione dì culture come una spirale discendente verso una desolazione infinita, mentre Vargas mantiene una speranza, i suoi personaggi sono dei perdenti, non dei vinti come quelli di Naipaul. zione golpista e militarista del subcontinente più che in quella rivoluzionaria della 111 Internazionale? Credo che abbia radici romantiche. C'è senz'altro una tradizione che deriva fondamentalmente dal romanticismo ed è la visione dell'azione eroica individuale che trasforma la storia, che fa tabula rasa dell'esistente e inizia la storia dal principio. E una visione romantica della storia, direi, quella che sta dietro il guerriglierismo latinoamericano. Le grandi figure di guerriglieri sembrano calcate sui modelli romantici. Dietro questa tradizione che è una tradizione ispanica, c'è anche l'idea che la forza dà diritti, che l'uomo che conquista il potere mediante l'azione eroica, la pistola, il rischio, ha diritto di fare uso di questo potere in modo assoluto e non ha nessun motivo di condividerlo e delegarlo. Questa è l'eredità che abbiamo alle spalle: una tradizione di intolleranza. La grande rivoluzione che bisogna fare in America Latina è la rivoluzione della legalità , la rivoluzione contro le verità assolute, a to dal punto di vista del pensiero politico e del modello politico delle nostre avanguardie intellettuali e politiche. Nella tecnica narrativa molto cinematografica del suo ultimo romanzo c'è una continua dissolvenza dallo scrittore-narratore al personaggio di cui egli sta ricostruendo la storia. Questa tecnica, utilizzata con mirabile padronanza, finisce per imporre al lettore come protagonista del romanzo più lo scrittore che Mayta. Sì, credo che Mayta in molte occasioni serva al narratore per parlare di se stesso o per riconoscersi attraverso Mayta. E questo il motivo per cui si produce quel salto grammaticale dalla prima alla terza persona nel romanzo. Ora, rispetto al tempo, lei ha usato la parola dissolvenza che mi sembra esatta. Vale a dire, ciò che intendevo mostrare era come il narratore passava da una documentazione o una supposta indagine documentaria all'invenzione letteraria. Come gli servivano tutte le cose che moi". In Storia di Mayta come si conciliano il ruolo dello scrittore-narratore con quello dello scrittore-personaggio? Credo che lo scrittore sia diverso quando non scrive, da quando scrive. Nel momento in cui egli si siede a scrivere riversa sui fogli non solo le cose che crede, che pensa, ma anche tutto un lato oscuro della sua personalità che si proietta in ciò che scrive. Ma questa proiezione può avvenire solo attraverso un intermediario che è un'invenzione, una creazione, che è il narratore. Ora questo narratore in alcuni casi è una specie di mediatore tra l'autore e la pura invenzione, il puro personaggio. Ebbene il narratore, soprattutto dei miei ultimi romanzi, è questa specie di mediatore, un personaggio che non è l'autore, ma che non è nemmeno un personaggio totalmente diverso, bensì una specie di ibrido di entrambe le cose che per me è la definizione dell'invenzione letteraria. Credo che l'invenzione sia questo. L'invenzione letteraria non è mai pura invenzione, ma non è mai nemmeno pura storia, vale a dire pura realtà. È una storia che è fatta parzialmente di storia e parzialmente di falsificazione della storia, di aggiunte che sono immaginarie, ed è questo che definisce il campo della letteratura, un campo strano, ambiguo, che è fatto di verità e di menzogna simultaneamente o per meglio dire un campo nel quale la verità traspare solo attraverso la menzogna, cioè attraverso la falsificazione o riorganizzazione arbitraria della realtà. È il tema centrale delle sue opere teatrali. Sì, è un tema che mi affascina molto. Forse perché malgrado siano tanti anni che scrivo non sono mai riuscito a capire razionalmente, al cento per cento, questo misterioso processo della creazione narrativa. Il suo ultimo romanzo, a differenza degli altri, è stato letto da molti come un apologo. E una forzatura? Non so se si possa considerare un apologo. A me interessava scrivere una storia e fin dal titolo, Storia di Mayta, è presentata come tale. Riconosco che forse alcune implicazioni di tipo politico, di tipo sociale, di tipo morale sono in questo romanzo più esplicite che negli altri miei romanzi. Ma non mi sono mai proposto di valermi di Mayta e dell'aneddoto del romanzo come un mero pretesto per proporre certe verità o certe tesi, assolutamente no. Direi anzi che se mi chiedessero di formulare i termini della supposta allegoria, non saprei farlo; perché mi sembra che come in ogni romanzo le implicazioni morali e politiche sono sempre soggettive, ambigue, non sono soggette a interpretazione. Il dibattito che si e scatenato negli ultimi dieci anni tra gli intellettuali latinoamericani ricorda la polemica che si svolse in Francia nel dopoguerra tra Sartre, Merleau-Ponty, Aron, Camus, ecc.. Lei ba scritto che gli intellettuali europei di quella generazione, marxisti, cattolici, liberali o esistenzialisti, ad eccezione di Camus, e io aggiungerei di Aron, avevano in comune l'idolatria della storia. Perché crede che a tanti anni di distanza un dibattito così datato continui da voi ad essere attuale? Ritengo che a differenza degli artisti, degli scrittori, in America Latina gli intellettuali, saggisti, pensatori politici, sociologi, antropoioghi, politologhi, siano ancora profondamente arretrati, nel senso che non hanno superato una visione mitica della realtà sociale e si muovono ancora all'interno di una cena bigotteria ideologica. Questo mi sembra oggi in Europa largamente superato. Esiste una critica pragmatica, una difesa del pragmatismo, in Europa, che mi sembra molto salutare e che in America Latina disgraziatamente è ancora da fare. Forse il motivo per cui l'intellettuale latinoamericano non ha compiuto questo passo verso il realismo, che mi sembra fondamentale nel campo politico e sociale, è perché i terribili condizionamenti sociali ed economici della nostra realtà lo spingono verso lo schematismo, verso le formule assolute e lo inducono a proporre tesi che, come dire, rappresentino l'antagonismo totale all'esistente, alla situazione vigente. Questa forma di alienazione è secondo me uno degli ostacoli maggiori che impedisce all'America Latina di uscire dal sottosviluppo. Ed è strano che da noi dove ci sono un'arte e una letteratura così sviluppate, nel campo politico vi sia invece un sottosviluppo tenace, una mancanza di originalità, di creazione di idee proprie, manchi una visione veramente geuina, percorribile, pratica. In questo siamo ancora profondamente arretrati. s>