N. 6/7 pag. 4 II Libro del Mese Una storia che ci riguarda di Goffredo Fofi Mario Vargas Llosa, Storia di Mayta, Rizzoli, Milano 1985, ed. orig. 1984, trad. dallo spagnolo di Angelo Morino, pp. 312, Lit. 18.000. Uno scrittore peruviano cerca e intervista (1984) le persone che hanno conosciuto Mayta, un rivoluzionario troskista limeno della fine degli anni Cinquanta, protagonista di una sollevazione in una scuola militare andina. L'episodio risale al '58, alcuni mesi prima dell'ingresso di Fidel Castro in Cuba, ed è stato il primo del genere in Perù. Gli incontri, le interviste servono allo scrittore, lo afferma a metà libro, "per mentire con conoscenza di causa". Mayta, dice, è stato suo compagno di scuola; e questo è già una spia, per il lettore avvertito, che sa che Vargas Llosa aveva nel '58 poco più di vent'anni, mentre di Mayta si dice che avesse già superato i quaranta. L'autore dirà verso la fine del libro che si è trattato appunto di una menzogna, di un'invenzione romanzesca. Storia di Mayta (la traduzione di Angelo Morino è ottima, e col pregio per me importante di italianizzare disesotizzandoli, contrariamente alla moda corrente, termini come indios, barbudos ecc.) accoglie nella sua struttura i suggerimenti di certi "romanzi-inchiesta", ricorda opere come l'antesignano Cuore di tenebra, l'Ambler di La maschera di Di-mitrios e L'eredità Schirmer, certo Capote, il film Citizen Kane, o anche — ma questo era tutto documentario — La breve estate dell'anarchia di Enzensberger, e come quest'ultimo narra di un militante rivoluzionario, figura non poi abituale nella letteratura del secolo (Malraux, Serge, Semprun, chi altro?). La costruzione è a flash-back, in veloce montaggio alternato, con passaggi da oggi a ieri a oggi in continui incastri e sovrapposizioni (un personaggio di oggi risponde a una domanda di ieri o continua un'azione di ieri, e viceversa), e ricorda piuttosto il cinema di Resnais che non altri romanzi. La gente del presente è immersa in un'atmosfera già futura (ma senza flash-on), con un Perù alle soglie di una guerra (truppe castriste e boliviane ne superano i confini, si attende l'intervento americano) e dilaniato, più di quanto non sia, da esplosioni, sequestri, terrorismi, squadroni della morte, una generale insicurezza da pre-guerra civile. La storia di Mayta e del piccolo sollevamento di cui è stato protagonista vuol essere, almeno nelle intenzioni del narratore-inchiestatore protagonista (che è Vargas ma che è anche altro da Vargas, se l'inchiesta è inventata e il romanzo è romanzo) un punto di riferimento, il punto di partenza, il primo episodio di una storia che dilagherà dal ' 58 a tutti gli anni successivi fino a conseguenze allora inimmaginabili. È, almeno cronologicamente, il primo anello di una catena, la prima palla di neve di una valanga. Vargas è un romanziere — e che romanziere! — e ritiene a ragione, anche se è tra i pochi a continuare a pensarlo, che il romanzo può dire più dell'inchiesta e più del libro di storia. La sua ricostruzione della vicenda e del personaggio di Mayta nasce dunque da un'ambizione di "totalità", come era del grande romanzo di un tempo, però scoprendo subito le carte del romanzesco. Ci fa assistere al romanzo nel suo farsi, co- struisce il romanzo momento per momento, a partire dalle indicazioni che le testimonianze gli offrono, aggiungendo e precisando a seconda di quelle o prevedendo, sulla base di vaghi accenni e battute, suggestioni quasi subliminali (per esempio, l'omosessualità di Mayta; mentre carcerati, eccetera — e via via la storia cresce, si precisa, si fa romanzo. Negli incontri dell'autore "gli appunti sono la cosa meno importante; quello che non rimane nella memoria non serve per il romanzo": quello che la memoria del narratore non filtra per i suoi fini, che sono quelli del va esserci; e la morte di Vallejos, l'arresto di Mayta. Siamo però in anni ancora non pericolosi per il potere, e Mayta se la cava con poco. Nel vivo dell'azione, Mayta fantastica (l'autore lo fa fantasticare) su come sarà il Perù "dopo" (dopo la vittoria della rivoluzione), ed espri- Bibliografia di Ernesto Franco La bibliografia intorno a Mario Vargas Llosa e alla sua opera è ormai molto ampia. Oltre alle monografie e agli studi accademici che ne prendono in considerazione singoli aspetti, si contano decine di articoli o brevi interventi sulla realtà politica e culturale dell'America Latina. Per la parte in lingua italiana sembra qui opportuno indicare qualche testo di più immediata, o meno problematica, reperibilità; per la parte in lingua spagnola o inglese si vogliono ricordare solo alcuni testi fondamentali dai quali poter, anche bibliograficamente, partire per più approfondite e aggiornate ricerche. In italiano: Angelo Morino, "Introduzione ", in M. Vargas Llosa, I cuccioli, Editori Riuniti, Roma 1978, a partire dall'opera introdotta prende spunto per qualche intelligente incursione su altri testi; Teresa Cirillo, "La condizione umana nelle 'conversazioni' di Mario Vargas Uosa", in AA.W., Terra America fa cura di A. Morino), La Rosa, Torino 1979, e Luis Fernando Vidal, "Cronaca del disincanto. Approssimazione all'opera di Mario Vargas Llosa ", in Storia di una iniquità (a cura di Pier Luigi Crovetto), Tilgher, Genova 1981, si confrontano con l'autore secondo differenti prospettive metodologiche svolgendo, nel complesso, due fra gli interventi più incisivi ed estesi che il lettore italiano abbia a disposizione. Per la parte in lingua straniera è forse opportuno partire da un 'opera senz 'altro datata, ma che in qualche modo rimane un punto di riferimento stabile per gli studi sul nuovo romanzo ispanoamericano: Luis Harss, Los Nuestros (l'intervento dedicato a M. Vargas Llosa è "Mario Vargas Llosa, o los vasos comu-nicantes"), Sudamericana, Buenos Aires 1966, versione in parte modificata dell'originale inglese "Into the Mainstream ". Si tratta di una raccolta "militante " di studi biografi-co-critici sul romanzo ispanoamericano il cui intendimento e ben espresso da queste parole: "Abbiamo voluto essere fedeli allo spirito delle opere che trattavamo e fare giustizia ai nostri autori, identificandoci con i loro punti di vista ed esponendo pienamente le loro opinioni anche quando non erano le nostre Segue l'opera fondamentale di Jose Miguel Oviedo Mario Vargas Llosa. La invención de una realidad, Barrai, Barcelona 1970, in seconda edizione ampliata fino a considerare Pantaleone e le visitatrici, 1977; si tratta di uno studio biografico-critico che comprende un'interessante appendice sull'opera critica di Vargas Llosa e un 'imponente bibliografia. Homenaje a Mario Vargas Llosa. Variaciones intexpretativas en torno a su obra, (a cura di Helmy F. Giacoman e J.M. Oviedo), Las Americas, New York 1971, è una raccolta di saggi dei quali ricordiamo, oltre a "La htera-tura es fuego " dello stesso Vargas Uosa, almeno "Sobre 'Los Cachorros'" di Julio Ortega, "Madurez de Vargas Llosa " di Emir Rodriguez Monegal e "El afàn totalizante de Vargas Uosa " di Carlos Fuentes. Jose' Luis Martin e autore del minuzioso La narrativa de Vargas Llosa. Acercamiento estilìstico, Gre-dos, Madrid 1974. Sono inoltre da ricordare: Luis Alonso Dtez, Mario Vargas Llosa's Pur-suit of the Total Novel, Centro Intercultural de Documentación, Cuernavaca 1970; Ricardo Cano Gavira, El buitre y el ave fénix. Con-versaciones con Mario Vargas Llosa, Anagra-ma, Barcelona 1973; Rosa Boldori, Vargas Llosa, Un narrador y sus demonios, Fernando Garda Cambeiro, Buenos Aires 1974. scarta gli accenni, meno attendibili, che potrebbero portarlo a un Mayta agente provocatore). Intendiamoci, il procedimento non è nuovo anche se Vargas lo controlla magistralmente, ma permette a lui quella possibilità di distanza (dal "romanzo storico" banale e unilaterale e in definitiva dalla politica, dal tema vero del romanzo) che permette a sua volta al lettore di "farsi una sua idea", di capire di più. Capire cosa? Ma appunto i dilemmi della politica, della "Rivoluzione" come vissuti da due generazioni diversissime tra loro di militanti, nel corso degli ultimi quasi trent'anni. In questo senso la Storia di Mayta riguarda direttamente anche noi, sia pure in un contesto occidentale e "sviluppato", e anche la nostra storia. Il narratore incontra personaggi e ambienti tra loro diversissimi — suore moderne della chiesa della liberazione, popolani e popolane, ex militanti divenuti grandi intellettuali al di sopra delle parti o senatori moderati, anzi moderatissimi, insegnanti di scuole militari, carcerieri e romanzo. Anche Mayta cresce e si definisce. Un'infanzia religiosa, seguita dalla conversione al marxismo e da una militanza sorda nei gruppetti, dal PC alle dissidenze trotzkiste, degli anni Cinquanta, onesta e dottrinaria ma retta da una moralità salda e dalla modestia del "servire". Il matrimonio e un figlio, ma è in realtà omosessuale, e la moglie lo scopre abbandonandolo. L'incontro casuale con un ventenne, Vallejos, incolto allievo militare che però crede nella rivoluzione e rivela a Mayta stanco quarantenne le possibilità e il fascino della "pratica", l'insostenibilità delle dispute dottrinarie e del continuo rinvio dell'azione, delle beghe tra "partiti" formati da dieci, venti membri. Il suo tentativo di convincere i compagni di gruppo dell'utilità di questo rapporto, della necessità dell'azione "esemplare". La sua storia d'amore con un giovane militante del suo gruppo. L'allontanamento o espulsione dal "partito". E infine l'azione, che fallisce per circostanze non chiarite, per l'assenza all'appuntamento di chi dove- rne le aspirazioni e i sogni "ingenui" che hanno retto sul fondo tutti i rivoluzionari di base, i non dottrinari e non capoccia, ivi comprese quelle della propria personale liberazione (sessuale e non, ma anche sessuale), quelle della "felicità". Ma Mayta è così e non è così. L'ultimo capitolo del libro pone il narratore di fronte alla propria creazione: Mayta è vivo (il lettore ha sempre creduto il contrario, anche se Vargas non l'ha mai detto) ed è molto diverso dal Mayta che il narratore ha costruito. Per cominciare, non è omosessuale, è un povero gelataio con moglie e figli, che anzi detesta gli omosessuali per tutto quello che ha visto di loro nel suoi lunghi soggiorni carcerari. Sulla sollevazione di Jauja, dice al romanziere: "mi accorgo che lei è più informato di me". E un episodio della sua vita, e non quello vissuto come centrale. Egli appare dapprima come un uomo apatico e forse cinico, "distrutto dalla sofferenza e dal rancore, che ha perduto persino i ricordi". Ma poi affiora l'altra storia, per lui più importante, di un secondo incarceramento per una rapina sostenuta per finanziare i contadini sindacalizzati da Hugo Bianco, i cui soldi la gente che Mayta ha messo insieme per compierla se li è spartiti, lasciando lui in carcere. E appare "un terzo Mayta, dolente, lacerato, con la memoria integra". È quello che è venuto dopo Jauja che ha oppresso il vero Mayta e non la storia del '58, sono gli anni della perdita della speranza. Non so se è questo il romanzo più importante di Vargas Llosa, credo sia possibile preferirne altri, ma è certamente significativo che egli abbia scontentato alcuni suoi estimatori abituali proprio con le due ultime opere, La guerra della fine del mondo e questa. La prima delle due è una sorta di grande romanzo storico, senza narratore e senza giochi pirandelliani e resnaisiani, che assumerà probabilmente sempre di più il valore di una "summa" sul terzo mondo del passato e delle sue rivolte. Il secondo è un romanzo politico, ed è direttamente politico nonostante o grazie a tutta l'abilità profusa da Vargas nel costruirlo "letterariamente". E un romanzo che ci riguarda più di ogni suo altro perché, ripeto, potrebbe essere anche la nostra storia. Romanzi di questo genere in Italia non se ne scrivono, e ci piace a volte sognarle, magari seguendo i destini dei membri di certi gruppetti dei primi Sessanta. Chi l'avrebbe mai detto, per esempio, attorno al '62, che ci saremmo ritrovati oggi con un libro così torvamente narciso come L'ultimo paradosso, però così specularmente simile a Pipe-line? Dei due autori sappiamo, grazie a queste opere, l'intimo che ci vogliono far conoscere, e non sfigurerebbero tra i personaggi minori e meno simpatici di Storia di Mayta. Ecco due "personaggi da inventare", tra mille altri, per un romanzo italiano, ma giustificabili letterariamente solo come contorno a quelli "di base": che fine hanno invece fatto certi operai, certi militanti senza firma, di allora e di dopo? Materia ce ne sarebbe a volontà, ma gli scrittori dove sono? Non mi pongo invece il problema, dibattuto da alcuni anche qui e da moltissimi in America Latina, delle posizioni politiche attuali di Vargas Llosa, che peraltro credo di poter condividere per la gran parte (ho molto apprezzato, tra l'altro, la paginetta su Cardenal). Ma resta che le sue "menzogne" romanzesche mi sembrano tra le più utili alla comprensione di un passato che è buona educazione, nell'intellighenzia italiana e tra i suoi ex-militanti, dimenticare. Sono menzogne necessarie, e le sole a essere tali. Per capire e capirci e far capire. Checché ne dicano gli adoratori del Grande Cieco e i non-ex del '63, il romanzo è vivo, e non solo in America Latina ha materia su cui dire, più concretamente e più attivamente e. più "narrativamente". Si possono amare o stimare autori molto diversi da Vargas e magari anche i puri letterati o i puri metafisici o i puri narcisi che un tempo definivamo, non a torto, "borghesi", ma la Storia resta, e i suoi problemi e le sue istanze, e Vargas Llosa è tra i pochi a saper ancora vivere e narrare il presente come figlio del passato o, meglio, "il presente come storia".