sembra trovare quasi naturalmente il suo alveo nell'attività editoriale. Per Bompiani Vittorini contribuì a impostare e realizzare non solo la nota Americana, ma anche altre antologie importantissime: sulla narrativa e il teatro tedeschi, sulla narrativa e il teatro spagnoli, sui Narratori russi, sul romanzo francese prima dell'Ottocento, eccetera eccetera; e seguì o impostò o diresse collane preziose ed esemplari come quelle dei "Grandi ritorni" o la "Corona universale", oltre naturalmente a occuparsi dei narratori contemporanei permettendo all'editore una concorrenza diretta con la onnivora Medusa monda-doriana. Né si direbbe che Bompiani sapesse essergliene grato quanto doveva, a giudicare da alcune terribili letture vittoriniane a lui indirizzate negli anni di guerra e nei periodi di semiclandestinità o clandestinità dell'autunno '43. È appassionante vedere come Vittorini seppe collegare a questa sua attività intellettuali di estrazioni diversissime, sia rinomati e illustri che giovani quasi alle prime armi (allora poverissimi e quasi mendicanti traduzioni e curatele molto più che la pubblicazione di loro opere, e perfino l'invio di libri omaggio, per loro carissimi): da Bontempelli a Pintor, da Bilenchi a Pratolini, da Pavese a Falqui, da Traverso a Bo, da Guar-nieri a Savinio, da Gadda a Landol-fi, da Alvaro a Debenedetti, da Luzi a Cecchi... E d'altronde, anche lasciando da parte "Il politecnico", come dimenticare che "sotto" Vittorini pubblicarono molti anni dopo presso Einaudi le loro prime o primissime opere, nei "Gettoni" da lui diretti, Calvino e Fenoglio, Ottieri e Lucentini, Cassola e Arpino, Sciascia e Testori, Pirelli e la Romano, per non parlare di quelli che "piazzò" altrove? Restando agli anni Trenta, colpisce anche, e sempre di più col passare degli anni, la ricchezza di "nomi" di cui la nostra cultura allora godeva, e, ancora una volta, la ri-duttività e la superficialità con cui a quel periodo hanno guardato i nostri storici della letteratura, specialmente quelli più "ideologici" e di sinistra. E un altro discorso, ma è forse anche lo stesso, se vogliamo, qualora si consideri la profonda miseria della "società letteraria" succeduta agli anni del boom, diventata oggi fin plateale. Questi meriti sono stati riconosciuti abbondantemente a Vittorini, da sempre (unitamente a quelli riguardanti i suoi, di libri, che invece mi paiono esagerati: Vittorini è stato più importante come organizzatore di cultura che non come scrittore, e come scrittore va notevolmente ridimensionato), ma non si è molto insistito, ripeto, sul carattere politicamente ambiguo di questo ruolo: da un lato, di propugnatore di idee e autori nuovi eclettico e fecondissimo; dall'altro, di funzionario di un'industria la cui logica di fondo non era in contrasto con bisogni di consenso che non sono stati solo quelli del fascismo, ma anche degli anni della ricostruzione e del predo- ^O LEGGERE NARRATIVA COLLANA DIRETTA DA SALVATORE GUGLIELMINO propone testi fondamentali della narrativa italiana e mira a della narrativa italiana e mira a fornire funzionali strumenti per una lettura che utilizzi con equilibrio gli apporti delle più recenti metodologie di lettura. Ogni testo proposto è corredato da una serie di ausili volti a dare consapevolezza e spessore all' "operazione lettura" (a scuola e fuori della scuola): una introduzione, un attento apparato di note a piè di pagina, una rubrica di integrazioni a conclusione di ogni capitolo, una appendice con testimonianze e documenti, un elenco di praticabili ipotesi di lavoro. La collana comprende un manuale/antologia (H. Grosser Narrativa) che ne costituisce quasi una introduzione teorica. Il progetto di Vittorini un'industria specifica e, su basi così massicce, nuova, e infine la democratizzazione della cultura che, volente o meno il regime ne consegue (diverso è il caso della Germania e della Russia, dove vigeva la logica dell'"unica proposta di vendita" sul piano dei contenuti dei messaggi veicolati; e anche dell'America, dove la diffusione della cultura di massa è soprattutto portato capitalistico, bensì veicolante ideologie di pesante sostegno dei valori del sistema) non può essere districato, mi pare, su basi moralistiche, né si può rimproverare a intellettuali di fronda di averci voluto entrare nella speranza di indirizzare le scelte culturali, o almeno avanzarne di diverse e dar loro spa- zio. Venendo a Vittorini, se le lettere raccolte in Gli anni del "Politecnico" (Einaudi 1977) documentavano la prolificissima frenesia di anni brucianti ma sui quali molto già si sapeva, queste del 1933-43 non aiutano molto a capire. Sono lettere raramente "teoriche", e almeno dal '38 — inizio della collaborazione con Bompiani — soprattutto "editoriali", anche quando Vittorini non è ancora, dell'editoria, un funzionario, e coprono quasi due terzi del volume. Quelle prima del '38 documentano le difficoltà personali e professionali del giovane autore, e parallelamente, da "Solaria" in avanti, la crescita di una vocazione di scrittore e i traumi di una vieppiù ampia comprensione politica che ha il suo vero avvio con le vicende della guerra di Spagna. Vittorini ebbe a chiamare questi anni della sua vita "il decennio delle traduzioni", e di esse naturalmente molto si parla, in scambio sovente con il coetaneo Pavese, "americanista" entusiasta co- me lui e come lui con un forte, in fondo benefico dilettantismo. I giudizi sugli scrittori stranieri non sono sempre molto pungenti, almeno non quanto quelli sugli italiani (Gadda, nel '32: "ha stoffa di prim'ordine"; Ugo Betti, nella stessa lettera: "quello sì è un bel fesso!"), e la vivacità degli interessi di Goffredo Fofi Tullio Pericoli: Elio Vittorini Elio Vittorini, 1 libri, la città, il mondo. Lettere 1933-1943, Torino, Einaudi, pp. 281, Lit. 28.000. E opinione ormai acquisita che il periodo in cui la moderna industria della cultura trova lo slancio e l'affermazione di cui a tutt'oggi, nonostante gli sconvolgimenti che si annunciano e che già sono stati avviati grazie ai nuovi mezzi tecnici, continua ad avvalersi è quello degli anni Trenta. Nella Germania di Hitler (e di Goebbels), nella Russia di Stalin, come negli Stati Uniti di Roosevelt e nelle democrazie occidentali. Come anche in Italia, nell'Italia di Mussolini. Questa storia ci è stata poco narrata, in alcuni campi pochissimo. Cosa sappiamo con esattezza, per esempio, dell'intreccio tra regime e editoria, dei rapporti e delle logiche che l'hanno caratterizzato? Molti i libri sulla stampa quotidiana — certo importante, importantissima — ma molto rari quelli sulla stampa settimanale e d'intrattenimento, sulla radio (due, che io ricordi), sull'editoria libraria. Per quest'ultima dobbiamo ancora affidarci a memorie o saggi costruiti all'interno delle singole imprese (per es. le memorie di Valentino Bompiani o quelle recentissime di Mimma Mondadori) o da esse commissionati, in funzione prevalentemente agiografica o di saga famigliare, e che lasciano il sospetto di molte censure. A scavare nei fondi dell'Archivio di stato si scoprirebbe certamente molto di interessante, e francamente di non scandaloso: ché è impensabile che il regime, e Mussolini in prima persona, fossero interessati solo in chiave di censura all'editoria (e su quelle sappiamo moltissimo, sono storie molto raccontate, anche e pour cause nelle agiografie), e non la vedessero (quindi elaborando una politica nei suoi confronti, anche promuovendola e assistendola) come uno degli stmmenti utili alla formazione e conservazione del consenso. Che è d'altronde la ragione politica del grande sviluppo dell'editoria negli anni Trenta, a Est come a Ovest e nelle dittature come nelle democrazie, parallela a quella socio-economica e sua importante causa. All'interno di questa storia andrebbe collocato il lavoro di intellettuali che si sono ostinatamente voluti anche organizzatori di cultura e funzionari editoriali, come appunto Vittorini. Il suo impegno è più "motivato" in senso culturale, alto-culturale, di quello, mettiamo, di uno Zavattini, che negli stessi anni "inventa" settimanali femminili o per ragazzi alla Rizzoli, e di molti altri nelle tre case editrici portanti dell'epoca, la Mondadori e la Rizzoli che hanno anche i periodici e i filmetti, e la Bompiani, mentre le ragioni di altre case, come la tanto raccontata Einaudi, (nel cui catalogo generale non si trova però traccia, è stato notato, di alcuni rari volumi voluti dal regime e stampati per tenerlo buono), erano evidentemente diversi: politicamente Einaudi non era certo un agnostico o un fascista. Non si capisce né è sempre facile giudicare quanto questi intellettuali, a cominciare da Vittorini, avessero coscienza dell'ambiguità insita nel loro ruolo, che va considerato meritorio nel senso di una diffusione di culture "alternative" a quelle del regime e alle stesse della non ricca tradizione italiana, e nel senso di una democratizzazione della cultura toccante infine strati non solo intellettuali e borghesi. L'intreccio tra la necessità della modernizzazione, la necessità e manipolazione del consenso, l'affermazione economica di