N. 8 pag- 37 L'italiana in Europa di Elisabetta Soletti PAOLO Gallarati, Musica e maschera. Il libretto italiano del Settecento, EDT/Musica, Torino 1984, pp. 235, Lit. 20.000. Daniela Goldin, La vera Fenice. Librettisti e libretti tra Sette e Ottocento, Einaudi, Torino 1985, pp. VII-386, Lit. 24.000. La consuetudine con il melodramma ottocentesco finisce sempre col convincere con la forza dell'evidenza che nell'opera per musica è la musica a guidare e a dettare la proporzione e la successione delle arie, dei dialoghi e dei cori, le misure metrico-ritmiche e le qualità lessicali del testo. Una convinzione che non è solo assecondata dall'assoluta prevalenza del repertorio melodrammatico nei cartelloni dei nostri teatri. All'ascolto si unisce la memoria delle notissime sfuriate di Verdi ai suoi librettisti (primo fra tutti Piave), perché il testo si adattasse in tutto e per tutto alle sue esigenze drammaturgiche, perché la parola scenica, breve e lapidaria, condensasse passioni e sentimenti (Sacrifìcio, Virtù, Amore, ecc.) in forma iperbolica. Del testo non fu solo Verdi a tiranneggiare i librettisti. Le cose non andavano meglio ad esempio tra Puccini ed Illica che si lamentava con Giulio Ricordi delle perpetue indecisioni e delle nevrotiche insoddisfazioni del compositore che lo costringevano a "parafrasare della musica". Ma con Puccini siamo alla fine di un viaggio — quello dell'opposizione o dell'integrazione — tra parola e musica, viaggio iniziato sotto tutt' altri segni. I due studi di P. Gallarati e di D. Goldin (sia pure con stmmenti e prospettive diverse) tracciano questo viaggio della parola per musica. La bella rassegna di Gallatati, sempre attenta al momento ultimo, alla fusione dei due elementi, segue nel '700 l'evoluzione dei due generi — opera seria e opera buffa — e ne disegna anche un profilo storico. I ricchi saggi della Goldin — su testi che vanno dalla fine del '700 a Puccini — sono volti a documentare fonti, prelievi, travisamenti e innovazioni in una tradizione, come quella librettistica di consolidata fissità, e del singolo testo pongono in primo piano la varia ossatura che di volta in volta è calata e trasfigurata in immagini acustiche. L'opera seria del '700 si apre con la riforma di Apostolo Zeno. Sfila nel teatro di Zeno una galleria di nobili exempla morali, di figure di eroica grandezza, di sublime e totale abnegazione (Griselda). Spettacolo destinato ad un pubblico aristocratico e di corte, aveva intenti di edificazione e di alta moralità trasmessi e condensati nei recitativi secchi, nella sola forza della parola quindi. La musica invece funzionava da abbellimento e decoro, edonismo ed illusionismo; da ostacolo e limite, in breve, al raggiungimento del sublime e del tragico. Quello della mondanità edonistica della musica del resto era un presupposto neppure discusso da Meta-stasio, che pure porta alla perfezione strutturale e formale il meccanismo dell'opera seria. Pagine entusiastiche dedica Gallarati al poeta cesareo, nelle cui opere si attenua la rigida e meccanica opposizione tra recitativo ed aria, e nelle quali soprattutto il testo si predispone naturalmente ad essere musicato (scriveva Metastasio: "non so scriver cosa ch'abbia ad esser cantata senza (o bene o male) immaginarne la musica"). "Quell'apparente facilità che innamora", che "pare facile, a chi non sa quanto costi" (Goldoni), segna l'incanto, la fortuna, l'enorme importanza storica del linguaggio di Metastasio, e si riconosce nella semplicità del lessico, nella levigata can-tabilità, nella trasparenza delle simmetrie, nella misura ritmica insomma che s'impone sul significato e ne riscatta anche la banalità concettuale. La spontanea naturalezza del suo stile, la temperanza di toni e di registri spiega la profonda influenza di Metastasio sull'opera seria e poi direi più vasta, e non tutta in superficie, di quella che esce dalle commedie" (G. Folena). Rette da trame schematiche e semplicissime (sono storie di amori contrastati sciolte nel lieto finale dopo elementari e ricorrenti percorsi: allontanamenti, inganni, travestimenti, agnizioni), le opere buffe sono calate in schemi di dichiarata artificiosità ludica e giocosa. I libretti comici — neppure quelli di Goldoni — non intendono assolutamente rappresentare una franche de vie o la variopinta varietà del quotidiano. Domina invece nell'opera buffa una nuova espressività, una nuova forma di aderenza tra parola e musica, perché il contrasto tra i due eie- secondo '700. L'influenza di Goldoni da Venezia tocca Vienna (con l'opera di Casti e di Bertati), ma sopra tutti Da Ponte la fa sua nella suprema trilogia mozartiana con l'espansione nell'opera dei concertati e dei finali "arcistrepitosi". Nei libretti di Da Ponte si ritrova varietà e ricchezza metrica e ritmica, agilità e condensazione verbale e sintattica, mescolanza di stili e intarsio parodico di linguaggi tecnici (come le contraffazioni di Despina medico e notaio), inserti lirici e tragici (sempre da Così fan tutte le arie di Dorabella "Smanie implacabili" 1.9, e di Fiordiligi "Come scoglio immoto resta" 1.11), e tutto questo si tra- Dopo Verdi Il teatro italiano. Il libretto del melodramma dell'Ottocento, a cura di Cesare Dapino, intr. di Folco Portinari, voi. V, t. Ili, Einaudi, Torino 1985, pp. VII-331, Lit. 26.000. Con un'introduzione vivacissima e pungente Folco Portinari ci guida alla lettura del melodramma dopo Verdi. Secondo formule e ricette ormai collaudate e di sicuro successo, si depositano nei libretti di A. Botto, di Ghi-slanzoni, di Illica e di Giacosa ingredienti di diversa ascendenza letteraria, ma in tutti egualmente si rivela un aggiornamento frettoloso e un'adesione sbrigativa alle nuove poetiche letterarie e musicali, un rinnovamento di superficie, non un 'evoluzione formale profonda. Dietro le nuove eroine maliarde e un po' civette, dove si mescolano innocenza e perversione, erotismo e patetismo, s'intravvede — nota Portinari — non già il romanzo storico, ma il romanzo d'appendice, e sullo sfondo si profila l'operetta e la commedia musicale americana. Di tutto un po '. Suggestioni ed echi scapigliati, rarefatte atmosfere liberty, facili concessioni ad un realismo spicciolo, quotidiano, bassomimetico (anche nel linguaggio), sì traducono sempre e comunque nella macchia di colore, nel bozzetto folkloristico o nell'idillio di maniera, tutto poi condito da buoni sentimenti e da moralismo piccolo borghese nei rassicuranti finali. Nel nuovo modello drammaturgico il libretto diventa più che altro un pretesto per incastonare romanze e feste, danze e cori, con un gusto per un esibita spettacolarità. Così le novità tematiche, come i rigurgiti romantici (Loreley di Zanardini e La Wally di Illica, entrambe per Catalani, per esempio), si posano in-superficie, diventano décor, enfatizzazione del gesto e dell'atteggiamento melodrammatico (come nella "fatale disgra- zia drammaturgica " della Gioconda di Borio perPonchielli). La Sicilia turgida e sanguigna della roboante Cavalleria rusticana di Mascagni — che è il prototipo del melodramma verista — vale insomma il Giappone oleografico e lezioso (come sarà l'Oriente della Madama Butterfly) della Iris di lirica sempre per Mascagni. Da un quadro di tanta disarmante elementarità e semplificazione culturale rimane naturalmente un caso del tutto isolato, un unicum, il Falstaff, l'ultimo capolavoro dì Verdi su libretto di Borio, che pure è del 1893. (e.s.) sull'opera buffa (frequentissimi ad esempio sono i precipitati metastasiani in Da Ponte, per citare uno dei massimi), influenza che si prolunga ben oltre il '700. Ma l'opera seria, nonostante l'eccezionale apporto di Metastasio(e di musicisti come Gluck e il giovane Mozart), si contamina e non riesce minimamente a contrastare la dirompente forza e vitalità dell'opera buffa italiana. Da Napoli, Venezia, Vienna dilaga a macchia l'affermazione ed il successo del genere comico. L'opera buffa (germinata a Napoli dal vivacissimo filone della commedeja pe mmuseca e dagli intermezzi, tra i quali eccelle La serva padrona di Per-golesi su libretto di Federico), s'impone con Goldoni. Autore di 15 intermezzi e di 55 drammi giocosi, l'attività librettistica di Goldoni rappresenta "un immenso, ineguale, ma solidale corpus comico che, anche se solo dal punto di vista documentario, ci fornisce per musica una immagine del mondo settecentesco menti gioca ad accentuate effetti di straniamento, di fuga dalla realtà (si pensi solo alla perfezione illusionistica del meccanismo di Così fan tutte); un contrasto esaltato dalla mescolanza e dal contrappunto degli stili e dei linguaggi, dalla parodia quindi. Forma dell'evasione, del gratuito divertimento, dell'abbandonato piacere al gioco, l'opera buffa dettava a Goldoni, nel 1754, un aspro e amare giudizio di diffidenza e quasi di rifiuto, "Disperando dunque di poter far meglio e di ottenere né lode né compatimento, avea risoluto di tralasciare un esercizio così disgustoso, reso anche peggiore dalle fatiche che porta seco l'impegno della direzione del Teatro". Eppure al di là dello scetticismo, della scarsa congenialità con il genere (incommensurabile la distanza evidentemente con la sua rinnovata e feconda commedia), Goldoni consegna ai contemporanei un modello di testo e di lingua in grado di favorite il fortunato sviluppo italiano del genere nel bretti" (Mozart). E il binomio Da Ponte-Mozart pare veramente una rara, irrepetibile "verafenice". Nell'Ottocento si consacra il molo e la funzione egemone della musica, mentre la parola è vincolata sempre più strettamente ad esprimere passioni, sentimenti e sacri doveri monolitici, tendendo quindi — la parola — non alla sfumatura o alla perifrasi, ma alla parola scolpita, memo-rizzabile anche in famosissime, proverbiali sentenze ("questa o quella per me pari sono", "La donna è mobile", "Pari siamo: io la lingua egli ha il pugnale"). Ma non solo nei drammi verdiani della passione monologante la parola è annullata nei suoi valori denotativi e nel suo peso semantico. Lo è anche nell'atmosfera di solidale concordia e simpatia che lega nella Bohème interni ed estemi, voci, cose e sentimenti (ed è uno dei saggi più belli della Gol-din). Genere interdisciplinare per eccellenza, sull'enorme patrimonio della lingua per musica s'incrocia e s'incontra l'interesse di musicologi, di critici letterari, di metricologi, di storici della lingua e del teatro. Come un grande fiume scorre nella tradizione italiana, sempre uguale e sempre diverso, e accoglie e dà in un continuo e vitalissimo scambio con la poesia alta, come succede per tutti i generi di vastissima popolarità, dotato per di più di un repertorio di schemi e di tipi e di un formulario lessicale di eccezionale fissità. E non solo di viaggi e di incroci tra generi e forme diverse si tratta, ma lingua cosmopolita — la lingua per musica — da sempre aperta (più di altri generi, poetici e no) all'Europa. Nel Settecento, mentre in Italia il predominio linguistico del francese dilagava in tutte le sfere della vita sociale e culturale, l'italiano per musica (come ha illustrato il bellissimo Italiano in Europa di G. Folena) si diffonde e s'impone su tutti i palcoscenici d'Europa. Apertura internazionale ancora, ma con un percorso contrario, dall'Europa all'Italia, invece, nella storia del melodramma ottocentesco. Proprio quando l'opera sembra chiudersi in forme nazionalistiche, con punte anche di provincialismo, librettisti e musicisti immettono (talvolta con rara tempestività) ed aprono a vastissima circolazione e popolarità testi stranieri (da Scott a Dumas, da Shakespeare a Voltaire, a Murger). E i librettisti si cimentano in un esercito di traduzione e di invenzione plurima, passando da testi e da parole scritte per essere lette o recitate, alla parola che deve essere dilatata nel canto, dove si deve concentrare il massimo di brevità e di carica drammatica e simbolica. Pregio e merito non ultimo e secondario di librettisti noti e meno noti. duce nei repentini e multiformi cambiamenti di movimenti e colori timbrici e contribuisce alla prodigiosa velocità della scena musicale. Parlare dei libretti di Da Ponte senza far riferimento alla musica che li sostiene è ovviamente limitativo. Ma è pur vero — lo fa notare con sobria eleganza la Goldin — che per primo Da Ponte si accorda e collabora spontaneamente e facilita con la sua spiccata sensibilità teatrale le esigenze del musicista (esemplare in questo senso la sua traduzione-ricreazione della commedia di Beau-marchais per Le nozze di Figaro). Sempre avventura, scontro e incontro di culture e personalità diverse, talvolta tra poeta e compositore si raggiunge la perfezione. "L'ideale è quando si incontrano un buon compositore, che si intende di teatro ed è in grado di dare un suo contributo, e un poeta intelligente, una vera fenice. Se noi compositori volessimo seguire così fedelmente le regole [...] la musica che scriveremmo varrebbe tanto poco quanto i loro li- •ScPuàc- farfalla versamento di L. 10 OOO sui