mmmammmmmmmn.»rlNDICF p^ 4mmmmmmmm wmmm ■HI dei libri del meseHBI ___1/ Libro del Mese__ "Quando non ci sarò più mi rimpiangerete" Alan Hart, Arafat, terrorista o pacifista?, Frassinella Milano 1985, ed. orig. 1984, trad. dall'inglese di Adriana Crespi Bortolini, pp. 488, Lit. 22.500. Chi è il vero Arafat? Il capo di un "sindacato di assassini"? come lo dipinge la storiografia ufficiale israeliana. Un traditore della causa araba?, come tuona Damasco. L'eroe dedito anima e corpo alla liberazione della Palestina? come lo celebra la maggioranza del popolo palestinese. Oppure, addirittura, il dirigente mediorientale che, nei limiti entro i quali è politicamente possibile, ha fatto di più per preparare il terreno a una soluzione globale del conflitto arabo israeliano? È quest'ultima, appunto, la tesi sostenuta da Alan Hart nel suo libro. Si sa, il Medio Oriente è questione complicata. Un groviglio di interessi di potenze — grandi, medie e persino locali — si sovrappone a conflitti di nazionalità, a problemi di minoranze, a scontri di religione e culture, a traffici di armi e droga. La recente storia mediorientale assomiglia perciò a un gigantesco rasho-mon. Diverse verità vi si intrecciano. A seconda del punto di vista da cui si guarda, luci e ombre si scambiano. O si confondono nel calderone della realpolitik. Per Hart allora, interrogarsi sulla personalità di Arafat significa ricostruire la questione mediorientale partendo dalla "verità" palestinese. Ben venga dunque, in questa tragica recita del rashomon, un libro di parte. Specie se si tratta di un punto di vista che, almeno in Italia, non è stato in precedenza esposto con tale abbondanza di materiale di prima mano: circa duecento ore di colloqui e registrazioni con i principali dirigenti del Al Fatah, il gruppo politico e armato maggioritario nell'Organizzazione per la liberazione, Olp. Corrispondente delle reti televisive britanniche, amico personale dell'ex primo ministro israeliano Golda Meir e di altre personalità di Israele, Alan Hart nel 1979 fu coinvolto in un'iniziativa "ufficiosa ma al massimo livello" relativa alla pace in Medio Oriente. Doveva infatti aprire e mantenere un canale segreto di comunicazione tra alcuni leader israeliani e il capo dell'Olp per di- mostrare che Arafat era disposto a una soluzione politica di compromesso. Nel corso di tale missione — che sarà interrotta al momento della rielezione di Begin nel 1981 — Hart si conquistò la fiducia del presidente dell'Olp, dei fratelli Hassan-Khaled e Hani, consiglieri di Arafat e capo- di Roberto Livi fila della destra di Al Fatah — di Abu Iyad, leader della sinistra del gruppo, e dei capi militari Abu Ji-had e Abu Daud. Sono loro a tracciare — assieme al profilo di Yasser Arafat — le linee tormentate e non sempre univoche della verità palestinese. Partito dall'idea di scrivere una biografia, nel suo libro Hart si avventura con sempre maggior foga nei "campi minati" della complessità della politica palestinese, intera-raba, mediorientale e internazionale. Per uscirne salvo è sostenuto da una passione del tutto insolita per un compassato giornalista britannico. L ' understatement, l'asciutta esposizione dei fatti lascia per gran parte del libro il posto a una scrittura colorita e vivace — e alle volte un po' naif. E soprattutto a una ricostruzione della strategia politica di Arafat attraverso le "confessioni" dei più stretti collaboratori e del presidente dell'Olp tutte "rimontate" secondo le proprie personali intuizioni. La tesi di Hart è che dal 1974 — dopo l'espulsione dell'Olp dalla Giordania e la fine della speranza di una vittoria militare araba su Israele seguita alla guerra del 1973 — Arafat abbia scelto la linea delle trattative e del compromesso. "Non ho diritto di sognare?", domandava il presidente dell'Olp ai rappresentanti delle nazioni del mondo che ascoltavano il suo famoso discorso all'Onu nel 1974. Il sogno di Arafat era — e forse è tuttora — l'idea-for-za della "sua" Olp: la proposta di uno stato democratico e multicon-fessionale in Palestina, della convi- venza cioè di arabi-palestinesi e ebrei nel medesimo territorio. Ma solo di un sogno si tratta. Per questo, al mondo, Arafat faceva — e fa — intrawedere anche una linea di compromesso: un ministato palestinese da costruirsi nei territori evacuati da Israele, Cisgiordania e Gaza, meno del 30% della Palestina. Nello stesso anno questa "rivoluzione copernicana" della linea fu approvata dal Consiglio nazionale (il parlamento) palestinese. Da allora — sostiene Arafat — l'Olp si è mossa politicamente avendo in mano un ramoscello d'olivo della pace (in cambio di territori) e nell'altra il mitra della resistenza. Ha finora usato il mitra. Innanzi tutto per l'opposizione àt\\'establishment israeliano — sia laburista che della destra di Begin e Shamir. Scrive Hart: "Ogni volta che Arafat compiva un passo politico in direzione del compromesso gli israeliani rispondevano con pallottole". In tal modo è stata messa in movimento la spirale del conflitto mediorientale. "Che cosa ha prodotto la resistenza armata palestinese — si interroga Arafat — se non l'intransigenza israeliana?... L'Olp ha potuto svilupparsi e affermarsi a livello arabo e internazionale solo grazie al rifiuto israeliano". Rifiuto di riconoscere l'esistenza stessa di un popolo. È stata l'insistenza dei dirigenti di Israele a considerare il problema palestinese una questione puramente militare che ha generato violenza e poi ancora violenza. Solo il riconoscimento dei diritti — storici, morali e legali — dei palestinesi può mettervi fine. Ma l'opposizione viene anche da altre parti. Dagli Stati Uniti, la cui politica estera è fortemente condizionata dalla lobby ebraica. (Tanto che Arafat è convinto che lo scandalo del Watergate e la caduta di Nixon siano stati orchestrati per impedire le sue "aperture" all'Olp). E, infine, l'ostilità di alcuni potenti del mondo arabo, specie del presidente siriano Assad, che del controllo del movimento palestinese hanno bisogno per dirigere la politica mediorientale. Date queste premesse, segue nel libro il racconto — fatto spesso dalla voce dei leader di Al Fatah — di una lotta mortale senza esclusione di colpi. Di una politica dominata dagli intrighi e dai complotti. Ogni fatto ha il suo lato oscuro dove manovrano i servizi segnati. Ogni alleanza è intrecciata e violata da moderni principi arabi, israeliani e americani (Hart dimostra grande disprezzo per Kissinger). E insomma una storia fatta dai leaders, le cui personalità spesso fanno aggio sulla forza del movimento e dei popoli. L'Arafat di Hart — e, ritengo, anche quello della realtà quotidiana — non ha nulla del rivoluzionario marxista o romantico e molto dei personaggi della mitologia araba. Grazie alla forte e complessa e istrionica personalità del presidente dell'Olp (e dei suoi più stretti collaboratori) il movimento palestinese si è districato tra mille trappole e complotti. Dice Hani Hassan: "Arafat nelle riunioni non si mette mai a sedere se prima non calcola la più difficile, e di preferenza impossibile, linea di fuoco per un potenziale assassino". Sicari di Israele, della Cia, della Siria, di Abu Nidal — il suo nemico giurato palestinese — hanno tentato di ucciderlo una cinquantina di volte. Uomo assolutamente onesto e incorruttibile; musulmano ma non bigotto; lavoratore indefesso "sposato" al movimento — ma, almeno una volta, capace di innamorarsi di una donna —; sempre in moto su jet messigli a disposizione da re e governi arabi, l'Arafat di Hart è soprattutto un grande capo completamente al servizio della causa palestinese. Che da anni — anche nelle difficili scelte di violenza — si è intersecata con quella della pace. "Fate sapere — dice il presidente dell'Olp — a quegli sciocchi di Gerusalemme che quando non ci sarò più mi rimpiangeranno. Sono il solo uomo che può giungere a un compromesso di pace". Una storia unilaterale di Clelia Riperno "Si vis pacem, para bellum " dicevano i Romani. In nessuna situazione come in quella medio orientale sembra che questo sia l'unico elemento unificante fra tutte le parti in causa. Ognuna adeguatamente giustificata in questo atteggiamento dal susseguirsi degli accadimenti e dal degenerare del panorama generale. Un tentativo per incoraggiare il processo di pace in quell'area tormentata dovrebbe tener conto dell'esistente. Invece Hart sembra mancare almeno in parte l'obiettivo: non riesce a sottrarsi alla regola che vuole facilitato al massimo il compito del lettore, offrendogli una visione della situazione in cui i buoni sono tutti da una parte, la sua, i cattivi dall'altra. L'esperimento di fungere da giudice equanime ci consegna talora una serie di profili così stereotipati da apparire inverosimili. Suddividendo, poi, non solo gli uomini ma anche gli eventi storici in periodi buoni ora per gli uni ora per gli altri, si arriva ad un quadro in cui sembra quasi che mentre gli arabi agivano gli ebrei erano fermi e viceversa. Si perde così l'infinita serie di sfumature che ha caratterizzato lo svolgersi degli avvenimenti e li collega fra di loro in quella disarmonica organicità che costituisce il filo della storia. Non si può dimenticare che per millenni ogni ebreo il giorno del proprio matrimonio, ad ogni cena pasquale, ricordava il proprio legame con la terra d'Israele, nel nome di Gerusalemme. Gli ebrei non si sono svegliati all'improvviso nel 1800, scoprendo il loro diritto ad un "focolare nazionale ". Tanti hanno tentato di ricostruire la storia del sionismo meglio di quanto non si possa fare in queste poche righe (non ultima Rossellina Balbi con Ha Tikwàj. Non è possibile liqui- dare l'iniziativa sionista nei brevi cenni dell'autore. Ma è singolare l'analisi di Hart del mondo arabo, con le sue alleanze e i suoi abbandoni della causa palestinese: altalena interrotta da stragi che non meritano aggettivi meno iperbolici di quelle imputate agli israeliani: Arafat è leader la cui evoluzione politica e ardua da comprendere proprio per i suoi naturali alleati. Egli viene descritto in atmosfere misteriose, più simile ad un eroe da romanzo che all'uomo teso ad un rinnovato dialogo di pace verso un nemico sostenuto, secondo Hart, da una diaspora così potente da "usare il Watergate per distruggere Nixon prima che costringa Israele ad effettuare il ritiro delle sue truppe ". Il testo non rende giustizia a quest'uomo: esaltandone le scelte indiscusse e le rinunce personali in favore della causa palestinese, ci consegna un 'immagine di Arafat più vicina a Formigoni che a Gramsci. L'autore poi sembra dimenticarsi spesso degli uomini che in Israele vogliono aprire un dialogo con i rappresentanti palestinesi che non pongano come condizione alla creazione di un proprio stato la distruzione di Israele. Il libro così manca una preziosa occasione e non arriva a sciogliere l'interrogativo di copertina. Ipalestinesi non raggiungeranno la loro identità nazionale nel contesto di una rivoluzione araba che dissemina stragi, su questa via si è già isolato l'Iran. I morti non hanno bandiere, ma la memoria del loro essere è la bandiera più pesante che la storia possa consegnare a qualsiasi generale. Palestinesi ed Israeliani potranno trovare una soluzione alla questione medio orientale solo trattando direttament ecoscienti ognuno di quanto già pesi la propria bandiera. ISfU^m sfa ■h^ì», à^MWwJjSaSBS itii mai 1 Aw * vi / \1 fi \ ■§§ ti nj^H 1 mH M