N.8 L'INDICE ■■dei libri del meseBI pag. 25 Italo Calvino ''Ebbene sìy sono riformista, O più precisamente..." _di Norberto Bobbio_ I miei ricordi di Calvino mi riconducono, tutti, al grande tavolo ovale di via Biancamano, attorno al quale ogni mercoledì, per anni, all'incirca una trentina, stemmo seduti con gli altri collaboratori di Giulio Einaudi, a discutere ore e ore libri da fare o da non fare. Rispetto alle innumerevoli ore trascorse insieme, a parlare o a sentirci parlare, le nostre conversazioni a tu per tu sono sempre state scarse e brevi. Calvino era un uomo di poche parole, e dava l'impressione di essere, con le persone che non gli erano familiari (io poi ero molto più vecchio di lui, e quando entrò a far parte degli einaudiani era poco più che un ragazzo), un po' impacciato. Sui grandi problemi del momento che ci stavano a cuore ci si scambiava qualche battuta all'inizio della riunione. Alla fine (le riunioni terminavano di solito molto tardi) scappavamo, ognuno per la propria strada, quasi senza salutarci. Leggevo sempre con interesse i suoi articoli di politica, allora frequenti. Per tutti coloro che pur non essendo mai stati comunisti, e non avendo quindi avuto quella crisi che lui aveva attraversato, ritenevano che le sorti della democrazia italiana dipendessero in gran parte da ciò che il partito comunista sarebbe diventato, memorabile era stato l'articolo, La grande bonaccia dell'Antìlle, in cui si raccontano di una nave corsara, il cui capitano, dopo gli anni delle grandi vittorie guidate dall'ammiraglio Drake, spiegava con argomenti perentori che "la vera battaglia era di star fermi". Dal partito se n'era andato, con decisione, ma non senza angoscia, dopo i fatti d'Ungheria, come tutti sanno. Del resto, non aveva mai avuto la passione, la vocazione, l'ardore del militante, neppure negli anni in cui era stato iscritto al partito. Per lui, come per tanti giovani intellettuali (e ancora più inspiegabilmente per Pavese), l'adesione a un partito che richiedeva un impegno quasi totale, era stata più l'effetto di una insofferenza morale che di un preciso progetto politico. Che cosa egli pensasse dell'impegno politico si può desumere dal passo certamente autobiografico, in cui Amerigo, il protagonista della Giornata dello scrutatore, assegnato a un seggio elettorale (si tratta delle elezioni politiche del 1963) al Cottolengo, si presenta al lettore: "...c'era sempre la morale che bisogna continuare a fare quanto si può, giorno per giorno; nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo contano quei due principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire". Una morale che dipendeva anche dal fatto che egli "non era quel che si dice un politico né nella vita pubblica né nelle relazioni di lavoro; e, va aggiunto, né nel senso buono né nel senso cattivo della parola... Era iscritto al partito, questo sì, e per quanto non potesse dirsi un attivista perché il suo carattere lo portava verso una vita più raccolta, non si tirava indietro quando c'era da fare qualche cosa che sentiva utile e adatto a lui". . * * * Lettore dei suoi articoli politici, come ho detto, decisi un giorno dell'aprile 1964 — erano i giorni della crisi del primo governo di centro-sinistra, che era stato istituito all'insegna delle riforme, e aveva alimentato qualche cau- ta speranza — di scrivergli una lettera per commentare un suo articolo sul declino dell'antitesi operaia e tirare l'acqua al mio mulino, fra l'altro con queste parole: "Se interpreto bene la tua prospettiva, si dovrebbe dire così: oggi la funzione del movimento operaio non è più di antitesi ma di mediazione tra le due soluzioni catastrofiche opposte, quella conservatrice e quella eversiva". Dopo aver definito riformista una posizione di questo genere, puntavo la mia piccola batteria: "Poiché non bisogna aver paura delle parole, credo che questo modo d'intendere la funzione della classe operaia nel mondo moderno, sia una interpretazione storicamente corretta e legittima del riformismo. Io sono un riformista e perciò dal tuo articolo, magari liberamente interpretato, prendo qualche spunto per tessere la mia tela. Del resto o si è catastrofici o si è riformisti: tertium non datur". Mi rispose a volta di posta (fra la data della mia lettera e quella della sua corrono, incredibile!, soltanto due giorni) con una lunga lettera che cominciava così: "Caro Bobbio, ebbene sì, sono riformista". E continuava: "O più precisamente: credo che oggi (e forse soltanto oggi) si possa cominciare a considerare un riformismo che non cada nella trappola tante volte denunciata dalla polemica rivoluzionaria, cioè nel sistema della classe dominante. Perché si salvi dalla trappola, questo riformismo deve poter contare sulla forza del movimento operaio internazionale, quella forza cioè che potrebbe anche in qualsiasi momento esser gettata nel gioco "catastrofico", pressione rivoluzionaria delle masse e strategia degli Stati a direzione rivoluzionaria. Cioè, in parole povere, il riformismo riuscirà solo se saranno i comunisti a guidarlo. Ancora non ne sono capaci: costretti a muoversi in quella direzione, lo fanno goffamente; e d'altra parte il problema non è solo la scelta d'una linea ma far sì che la scelta d'una linea non implichi la perdita di tutto il resto". Proseguiva dicendosi fra l'altro preoccupato che questa linea facesse dimenticare "il valore universale dell'antitesi operaia quale il marxismo l'ha proposta", ed esprimeva la sua volontà di "salvare la capra dell'universalismo proletario e i cavoli della razionalità storica e tecnica: i due pezzi di un ideale umanesimo che ora sembrano più che mai inconciliabili". Concludeva: "Eccoti fatto il punto sulla mia situazione ideologico-politica a tutt'oggi. Se non è dichia-rabile in termini più perentoriamente rigorosi, non credo che sia solo colpa mia ma anche dei dati oggettivi che tento di mettere in ordine (più che altro per cercare di far chiaro nella mia testa)". Questo scambio di lettere avvenne, come ho detto, quando la fine del debolissimo e forse illusorio slancio riformatore era ormai prossimo e sarebbe dopo poco cominciato il lungo secondo governo Moro, durato più di due anni, che inaugurò quel periodo della nostra storia più recente per designare il quale fu coniata la fortunata espressione "immobilismo". Eppure il 1964 fu un anno cruciale: prime avvisaglie di un colpo di stato, malattia irreversibile del presidente della repubblica, morte di Togliatti, e, per finire, defenestrazione di Krusciov. Come documento di "immobilità" mi pare che queste due nostre lettere siano esemplari. Se esse possono avere ancora un qualche interesse, questo consiste proprio nel rivelare a coloro che sono troppo giovani per saperlo, la monotonia, la ripetitività, e quindi anche la futilità, la vanità, l'enorme spreco di parole, che hanno caratterizzato e tuttora caratterizzano il dibattito politico nel nostro paese. Tutto è già stato detto, ed è stato detto infinite volte sempre con le stesse parole (e, superfluo aggiungere, sempre con lo stesso effetto). Se queste lettere non avessero la data, lo storico futuro potrebbe attribuirle al 1964