pag. 26 N. 8 Italo Calvino come al 1974, come al 1984, e perché no, al settembre 1985, e considerarle un commentario tempestivo e pertinente al dibattito svoltosi al Festival nazionale dell'Unità a Ferrara (che, naturalmente, molti commentatori di oggi hanno salutato come una ventata di aria fresca nel cielo stagnante della politica italiana). * * * Non sono in grado di dire quanto la lettera del 1964 rappresenti il pensiero di Calvino negli anni successivi. Credo però che il suo interesse per la politica si sia andato affievolendo. Com'era prevedibile, egli seguì la sua vera vocazione, che era, come quella dello scrutatore Amerigo, indirizzata a "una vita più raccolta". In una delle sue ultime opere, fra le più perfette e le più rappresentative (scopertamente autobiografica), non una delle infinite domande che il saggio Palomar si pone di fronte al mondo, e sono tutte domande, come le grandi domande filosofiche, senza risposta, dalle più frivole, se i merli con il loro fischio intreccino dialoghi o parlino solo per se stessi, alle più angosciose, se l'universo sia dominato dalla necessità o dal caso, se sia destinato a trovare un ordine finale oppure a precipitare continuamente nel caos, se sia più reale la parola o il silenzio, l'essere o il nulla, non una, dico, di queste domande riguarda le vicende della politica, il "mondo delle nazioni" (dove pure, per ripetere Vico, accanto alla "feccia di Romolo" c'è la Repubblica di Platone). Vedendo una sera sul muro di casa un geco che dando la caccia alle farfalline riduceva il suo fare al minimo sforzo, Palomar osserva che questo modo di comportarsi era proprio l'opposto della morale che lui in gioventù (si badi, in gioventù) aveva voluto far sua: cercare di far qualche cosa un po' al di là dei propri mezzi. Quanto ai modelli, o ai progetti, che dovrebbero ispirare l'azione intelligente, e che di solito si prolungano in modelli di modelli, in progetti di progetti, senza fine e senza scopo, forse è segno di saggezza riuscire a farne a meno. Ma bisognerà pure escogitare rimedi per mettere ordine nel mondo! Prima di inventare rimedi, sentenzia il saggio, occorre sincerarsi che non provochino guasti e abusi maggiori, e se anche predisposti da "riformatori illuminati possano poi essere messi in pratica senza danno dai loro successori, forse inetti, forse prevaricatori, forse inetti e prevaricatori a un tempo". Palomar non dice, ma lascia nel lettore il sospetto che la generazione di questi successori fosse già nata e si fosse messa all'opera col massimo zelo. Il sole e la luna _di Natalia Ginzburg_ L'ultima volta che ho visto Calvino vivo, è stato in una stanza dell'ospedale di Siena, il giorno dopo che l'avevano operato alla testa. Aveva la testa fasciata, le braccia nude fuori dal lenzuolo, abbronzate e forti, ed era assopito. Il suo viso era pieno e calmo, il respiro tranquillo e sano. Non aveva, nel viso, segni di sofferenza. Ho pensato che presto sarebbe guarito, si sarebbe alzato da quel letto. Nei giorni successivi, i giornali riportavano frasi che aveva detto quando s'era svegliato. Aveva guardato i tubi delle sue fleboclisi, e aveva detto: "Sembro un lampadario". Era entrata la figlia e gli aveva chiesto: "Chi sono io?" Aveva detto: "Tu sei la tartaruga". Uno dei medici gli aveva fatto qualche domanda e poi gli aveva chiesto: "Chi sono io?" Aveva detto: "Un commissario di polizia". Per coloro che gli volevano bene, quelle frasi erano un dono prezioso, il segno che era sempre lui, che niente era cambiato nella sua persona, che nella sua mente ruotavano ancora delle tartarughe, dei lampadari, dei commissari di polizia. Mi riesce impossibile pensarlo motto. Non so perché, ma la morte mi sembrava quanto mai lontana dalla sua persona. Quando io l'ho conosciuto, era un ragazzo, aveva ventitré anni. M'accorgo che l'ho sempre visto come un ragazzo. Nemmeno avevo mai pensato che potesse invecchiare, trasformarsi in un vecchio zoppicante e canuto. E in verità non era, a ventitré anni, molto diverso nell'aspetto fisico da quello che divenne più tardi. Il tempo gli portò sulla fronte delle rughe orizzontali, e qualche ciuffo grigio sulle tempie: ma, nel fisico, non molto altro. Aveva, in giovinezza, la persona asciutta, prosciugata, svelta, diritta: e così rimase. Benché fosse così diritto nella persona, usava però, anche in giovinezza, ogni tanto incurvare le spalle, come se volesse raggomitolarsi in se stesso, e difendersi da interrogazioni importune. In giovinezza, spesso balbettava; e balbettava un poco, è vero, anche dopo; da ragazzo, di più. Molte volte sembrava tirar fuori le parole da una sacca segreta, o strapparle a fatica da qualche suo segreto gomitolo: e nel pronunciarle incespicava, aggrottava la fronte e abbassava gli occhi sulle proprie dita intrecciate, con una perplessità ironica e testarda, e come rifacendo il verso a se stesso. Anche se così tante volte tirava fuori le parole con fatica e lentezza, non parevano fatica e lentezza per nulla presenti nel suo pensiero, né in ciò che faceva; fatica, lentezza e balbuzie erano un modo di prendere in giro se stesso, e gli altri, e la propria maniera di stare al mondo. Quando l'ho conosciuto, quella sua balbuzie in parte vera e in parte simulata m'aveva colpito per un'allegria straordinaria che ne emanava: perché vi si nascondeva una meravigliosa facoltà di commentare comicamente la propria persona, e il prossimo, e le code pelose, irsute, squamose e infinite che serpeggiano dietro alle parole. Ho conosciuto Calvino nell'inverno del '46, a Torino, nella sede della casa editrice Einaudi, in un corridoio, davanti a una stufa. Era una mattina di neve, grigia e buia, e in quel corridoio era accesa la luce. La stufa era di quelle stufe di coccio, che vengono da Castellamonte, e che tingono le mani di rosso quando si toccano. Calvino lavorava all'Unità, allora, ed era capitato lì per caso, forse per chie-