hhmbhhhhhhhp: n. s r INDICE pas- 7 ■■■■■HH ■■dei libri del meseBH _L 'intervista__ La diplomazia mediorientale di Bruno Kreisky HU VIENNA. Hanno ragione Roberto Livi e Maurizio Matte uzzi, quando segnalano che il libro di Alan Hart è esplicitamente un libro di parte, scritto sulla base di fonti palestinesi (centinaia di ore di intervista con Arafat e con altri dirigenti dell'Olp), anche se l'autore lo dedica ai suoi amici israeliani, amanti della pace, con cui ha conservato forti legami. Eppure proprio perché di parte, quel libro costituisce un documento di straordinario interesse per chiunque voglia documentarsi su uno dei problemi vitali del mondo contemporaneo. Le posizioni di Arafat, la sua storia politica e personale, le sue intenzioni non raggiungono un pubblico occidentale, se non in maniera frammentaria e deformata. Non è un caso che l'edizione originale di questo libro sia stata pubblicata da una piccola casa editrice inglese e che ancora più piccola sia la casa editrice che lo traduce per un pubblico italiano assai disattento ai grandi temi di politica estera. Accanto ad Arafat, abbiamo voluto dare la parola a Bruno Kreisky. L'ex cancelliere austriaco — che è ebreo, resistente e perseguitato dal nazismo — non è stato solo un protagonista della diplomazia mediorientale ma anche il portavoce di coloro che sostengono il diritto dei palestinesi ad una patria indipendente, anche in nome di una coscienza ebraica che trascende gli attuali orientamenti del governo di Gerusalemme. Kreisky mi dice di non conoscere il libro di Hart, ma è disposto a discutere gli stessi argomenti che esso tratta. Dottor Kreisky, lei e l'uomo di stato europeo che meglio conosce Yasser Arafat. Per questo le chiedo una valutazione politica del leader palestinese, nel momento in cui è impegnato nella ricerca di un compromesso in Medio Oriente. Non è semplice rispondere a questa domanda, anche se è vero che, da più di dieci anni, ho avuto frequenti incontri con lui. Le dirò che il mio giudizio è mutato nel tempo. Quando lo incontrai la prima volta ebbi l'impressione di un uomo fortemente condizionato da un compromesso tra gruppi disparati. Non percepii quella forza autonoma che consente ad un uomo di stato di operare al di là degli equilibri precari dei gruppi che lo hanno investito della sua funzione. Successivamente ebbi la netta sensazione di una crescita della statura e potere politico di Arafat. Egli aveva ottenuto dai palestinesi nei campi e in giro per il mondo ciò che gli altri dirigenti palestinesi non potevano e forse non volevano dargli: il ruolo simbolico e reale di elemento unificante della lotta di liberazione palestinese. Anche coloro che gli stavano attorno dovettero prenderne atto e accettare fino in fondo la sua leadership che, a quell'epoca, mi impressionò profondamente. Avevo, insomma, cambiato parere sul suo conto. Poi venne il Libano che mutò di nuovo la sua posizione. La mia sensazione è che la sua permanenza nel Libano fosse una delle componenti della sua forza, malgrado incontrasse non poche difficoltà a tenere a bada alcuni condottieri. [Kreisky usa la parola italiana, pur conducendo la conversazione in lingua inglese (n.d.r.)], che non sempre si lasciavano persuadere dalla sua politica. Quando abbandonò il Libano perse un potere che deve ancora riconquistare. Egli avrebbe dovuto restare tilt the bitter end [fino all'amara conclusione (n.d.r.)] come fece Giacomo Matteotti, quando proseguì la lotta al fascismo, fino alla sua morte. Da quel momento fu assai più difficile per lui giocare il suo molo. Commise quell'errore — perché tale fu — non certo per motivazioni di ordine personale, ma perché si fidò delle promesse degli americani o di alcuni americani. Oggi costoro si vantano di avere salvato la vita ad Arafat, mentre a suo tempo gli promisero che avrebbero salvaguardato quella dell'intera popolazione palestinese nel Libano. Da parte sua Arafat si fidò troppo di queste promesse e ciò che avvenne a Sabra e Chatila ha finito per nuocere anche alla sua reputazione. Ma quale fu il ruolo di Israele in tutta la vicenda libanese? Secondo la concezione di Sharon, che fu il vero teorico dell'invasione israeliana del Libano, l'obiettivo israeliano era quello di eliminare l'Olp, non solo militarmente, ma anche come organizzatore politico della causa palestinese. La strage di Sabra e Chatila doveva servire a terrorizzare il popolo palestinese stroncandone la resistenza. Questo piano di Gian Giacomo Migone fallì perché l'opinione pubblica mondiale — e una parte cospicua della stessa opinione israeliana — reagì con orrore al molo assunto dal governo e dalle tmppe israeliane: di spettatori passivi che consentivano ad altri di compiere il loro sporco lavoro. Fu un disastro sul piano morale e politico per il governo israeliano e la fine politica di Ariel Sharon. La commissione d'inchiesta israeliana non potè fare a meno di condannarlo. La tragedia di Sabra e Chatila ha determinato una svolta nella posizione mondiale del governo israeliano che perse la sua reputazione. Torniamo ad Arafat. Neanche il rapporto di Arafat con il popolo è uscito indenne da questa vicenda. Egli ha dovuto riconoscere il suo errore e combattere una dura battaglia interna, in primo luogo contro il suo arcinemico, Abu Mussa. Tuttavia, gli altri dirigenti palestinesi hanno dovuto riconoscere che, anche nella nuova situazione, nessun altra personalità palestinese poteva competere con la sua posizione all'interno dei campi di profughi e nelle comunità palestinesi. Essi non ebbero altra scelta che quella di chiedergli di rimanere al suo posto. Per concludere, Arafat resta il presidente dell'Olp, ma deve ancora riconquistare la posizione unica che aveva caratterizzato il suo molo negli anni precedenti. La necessità diplomatica di collaborare con re Hussein di Giordania in questa fase non lo aiuta da questo punto di vista. Quali sono, allora, a suo avviso, le prospettive per la pace di compromesso che Arafat propone in questo momento: un piccolo stato autonomo palestinese, confederato con la Giordania? Manca un riscontro sufficiente dall'altra sponda. Gli israeliani sono contrari non solo ad Arafat, ma a qualsiasi leadership palestinese che non sia una loro emanazione. Lei ha capito che sono molto pessimista, almeno fino al momento in cui gli Stati Uniti non saranno pronti a cambiare politica. Non pensa che, perché ciò avvenga, debba quantomeno cambiare l'amministrazione che attualmente occupa il potere a Washington? Non possiamo continuare a rinviare la soluzione di tutti i problemi in attesa che cambi il governo di Washington. Anche se la presidenza Reagan è particolarmente rigida, non è detto che un presidente democratico sia più indipendente dal governo israeliano di quanto non lo sia quello attuale. Non c'è tempo da perdere. La questione mediorientale non è soltanto un cosiddetto problema regionale, per quanto il più importante, ma costimisce anche un pericolo reale di conflitto nucleare che, se anche non si generalizzasse, non sarebbe uno scherzo per nessuno. Il livello di nuclearizzazione di tutta la zona è preoccupante. Inoltre, bisogna tenere presente che la più recente tecnologia militare ha sfumato la linea di demarcazione tra guerra convenzionale e guerra nucleare. Nel corso della recente guerra nel Libano le stesse superpotenze hanno toccato con mano il rischio che la situazione sfugga al loro controllo con conseguenze incalcolabili. È assolutamente indispensabile che le superpotenze collaborino immediatamente almeno per il conseguimento di uno stato di non belligeranza in tutto il Medio Oriente. Vorrei porle una domanda che, per la sua natura, è anche personale: quale può essere il ruolo di quegli israeliani e di tutti gli ebrei che vogliono la pace in Medio Oriente e che sono disposti a rispettare i diritti del popolo palestinese? L'importanza del loro molo in una prospettiva di pace non è stato riconosciuto a sufficienza. Specie dopo Sabra e Chatila, il numero di israeliani influenti, intellettuali, uomini politici disposti ad una qualsiasi soluzione di compromesso che garantisca una pace duratura in Medio Oriente è cresciuto. Ma, anche da questo punto di vista, il cuore del problema si colloca negli Stati Uniti. Il governo americano ha una paura immotivata del governo israeliano. Inoltre, esso sopravaluta il potere della lobby ebraica che ormai costimisce una minoranza anche dei cittadini americani di estrazione ebraica in posizioni di responsabilità. Di conseguenza la politica mediorientale di Washington assomiglia ad ezh-ter nachechter Springprozession, una sorta di marcia in cui si fa un passo avanti e due indietro; non il modo più efficace per procedere. Il giorno in cui il presidente degli Stati Uniti, avendo a portata di mano una soluzione pacifica del problema mediorientale, trovasse il coraggio di rivolgersi agli ebrei chiedendo loro di scegliere tra i loro doveri di cittadini americani e la loro subordinazione al governo di Israele, constaterebbe che la grande maggioranza di essi sarebbe pronta a confermare la propria lealtà nei suoi confronti. Oggi, la politica americana rischia di porre le fondamenta di un nuovo antisemitismo, consentendo ad una minoranza di ebrei americani, collegata con il governo di Gerusalemme, di sostituirsi alla volontà della maggioranza. È paradossale che Washington ignori la volontà della maggioranza dei suoi cittadini neri nei riguardi del Sud Africa, mentre continua ad essere succube di una minoranza di ebrei che ne determinano la politica mediorientale. □ Ironimus: Bruno Kreisky, tratto dal volume di Viktor Reimann, Vienna 1972