n 8 riNDICFpag 36 ■Idei libri del meseBI Dal neoclassico al post-moderno di Giovanni Agosti Alberto Arbasino, Il meraviglioso, anzi, Garzanti, Milano 1985, pp. 416, Lit. 25.000. Nella presentazione televisiva di questo libro — mi raccontava un amico —, una popolare soubrette chiedeva all'autore quali fossero, a suo parere, i più grandi scrittori del Novecento italiano. Ed Arbasino rispondeva, in ordine decrescente di importanza: Gadda, Longhi, Praz e, dopo una pausa, Contini. Ripercorrere il filo dei rapporti di Arbasino con il più grande storico dell'arte del Novecento, quale emerge dai suoi scritti, sarebbe impresa non peregrina e dovrebbe annoverare almeno una pagina dell'Anonimo Lombardo — dove il protagonista ed il ragazzo da lui amato si incontrano nelle sale della mostra longhiana dei "pittori della realtà", Dal Moroni al Ceruti — ripetute menzioni nei grandiosi Fratelli d'Italia — dove un intero episodio (la visita alla mostra mantovana di Mantegna e a quella veneziana del Crivelli) risultava una efficace trascrizione del longhiano Due mostre interferenti e la cultura artistica del 1961 — la presenza di Roberto Longhi come avventore di un caffè della Versilia nella Bella di Lodi, e, non ultimi, molti passi di questa raccolta di recensioni di esposizioni. Se il nome di Longhi è più volte evocato, in elenchi o per scorcio, in molte pagine del volume (provvisto di un affrettato Indice dei nomi principali ), se movenze della sua prosa si ritrovano sparse qua e là, è solo nella cronaca dell'esposizione disneyana del Museo Whitney di New York che un passo di Longhi viene ad illuminare due pagine di limpida critica. La citazione dell 7»-troduzione del catalogo Arte lombarda dai Visconti agli Sforza (1958), relativa agli interessi naturalistici dei miniatori lombardi, viene rimontata pet gettare luce sugli animali dei cartoni animati, con un effetto di illuminazione, che culmina, in crescendo, con: "La nascita dell'elefantino Dumbo, con quelle assi nella stalla, sarà un Piero della Francesca che dissimula tentazioni di fondi-oro senesi", e con la riaffermazione, indenne da futilità alla moda o da gusto per il paradosso, della grandezza della Regina di Biancaneve e i sette nani, "da collocare ormai come mito illustre accanto alla Bovary, o a Fedra". Reduci da "Repubblica", "L'Espresso", "FMR", alcuni dei testi di questo volume erano già comparsi — diversamente incastrati — tra le pagine di Un paese senza (Milano 1980): questa riproposizione di frammenti di un libro in un altro libro, pratica dagli illustri precedenti, si allinea con la riscrittura a cui quasi tutti i testi di Arbasino sono stati periodicamente sottoposti. La saggia architettura del volume si configura come una specie di storia dell'arte contemporanea, che corra, tradizionalmente, dal neoclassicismo alla pittura di questi ultimi anni, fornendo quindi una specie di corri- spettivo figurativo della Belle Epoque per le scuole (Tosino, 1977), dove, con meno occasionalità, erano ripercorse le vicende della storia letteraria italiana da De Amicis a Gadda. Tuttavia l'apertura con la cronaca della mostra neoclassica di Londra del 1972 corrisponde contemporaneamente ad una cronologia, sia pur approssimativa, di questi scritti che dall'inizio degli anni settanta corrono fino ad oggi, ed al riconoscimento dell'importanza epocale di questa esposizione. Lo sguardo sui prodotti neoclassici è, almeno nei più antichi dei testi di questa raccolta, ancora perplesso: le ombre dei feroci giudizi longhiani rendono dubbioso lo scrittore sulla grandezza, assoluta, di Canova: "Siamo arrivati nel territorio del Canova. E bello? O è orrendo? Il referendum, qui, sembra appena aperto". Non diversamente, la curiosità non ottunde la serenità di giudizio dello storico, pronto a descrivere con divertimento molta della pittura ottocentesca più recentemente risco- perta, ma altrettanto preciso nel tener alto il giudizio di qualità e nel non farsi riorchestratore di onnivore riproposte. L'"ottovolante del gusto" è padroneggiato con felicità e si rimpiange quindi la mancanza di quella Storia del gusto nell'Italia del Novecento, che l'autore doveva realizzare molti anni fa per Feltrinelli. I confronti incongrui (tali dovevano apparire però anche molti dei paragoni longhiani), che vivificano le pagine di Arbasino, trovano una definizione abbastanza pregnante in una pagina del volume: "O forse il cinema e il fumetto e il musical hanno cambiato per sempre il nostro modo di guardare la pittura a soggetto". Le esperienze contempora- nee risultano ineludibili nel rivolgersi intelligente verso il passato ed il cinema, ampiamente amato, è un repertorio inesauribile di rimandi, in questa storia dell'arte dove le vicende vanno avanti e indietro senza sosta e con un effetto finale di stordimento. In mezzo a queste pagine si ritrovano spunti generosi per ricerche da fare. Basti un esempio. Trattando dell'esposizione fiorentina dei costumi e delle scene per il Maggio Musicale, Arbasino nell'estate del '79 scriveva: "e sarebbe del resto interessante seguire la politica culturale di Guarino e Casorati e Gatti anche nell'allestimento della quadreria e delle collezioni, e nella gestione della Lux Film che fece delle cose figurativamente e culturalmente prestigiose ai tempi dei debutti di Soldati e Castellani e Poggioli". Altri si recarono a dissodare, forse dimentichi del suggerimento di Arbasino, quella pista. E infatti Mimita Lamberti rievocava in più d'una occasione la committenza ed il collezionismo di Guarino, fino alle pagine del bellissimo catalogo che accompagnava l'esposizione delle pitture di Casorati all'Accademia Albertina di Torino. La gestione della Lux Film trovava intanto storia in occasione del Festival di Locamo dell'anno passato. Il volume intero presenta le premesse per un tracciato di alcune delle vicende figurative di questi due ultimi secoli, dove non pochi sono i punti fermi: Arbasino è contro la lettura " pariginistica-totalizzante " dell'arte del Novecento, per una rivendicazione, sempre più acquisita, dell'apporto germanico, per la grandezza assoluta di De Chirico ("E insomma, ecco qui, senza più dubbi, il massimo pittore del Novecento. Giù il cappello! E non avendo il cappello: giù la testa! E non avendo neanche testa: giù tutto il resto!"), ripetutamente ribadita ed impiegata per censurare alcune pratiche contemporanee, per la superiorità degli anni dieci sui venti e sui trenta, contro la divulgazione del banale mito viennese ("Sarà per una di quelle arguzie della Storia, o sarà per forza del Destino, se mentre il Tempo diventa Medio Evo, e il Paese diventa Medio Oriente, la cultura e l'animo degli italiani anelano [pare] alla Mit-teleuropa ?")... Il cuore del libro e la sua necessità mi pare che stiano nella riproposta, veramente morale, de I nostri orribili Anni Trenta, (1982) la lunghissima, indimenticabile, recensione alla mostra milanese, comparsa, in più puntate, su "Repubblica". Di fronte all'equivocità fosca dell'operazione, Arbasino, molto più e molto meglio di ogni critico o storico dell'arte italiana, disse alte e chiare come stavano le cose. Di queste venti pagine, se si dovessero riscrivere le longhiane Proposte per una critica d'arte, non se ne dovrebbe trascurare la menzione. Lo sguardo, distaccato ma affranto, si volgeva dal presente al passato prossimo, dagli anni trenta agri anni ottanta: "Basta del resto, ormai, un minimo di buon senso della Storia, per anticipare il futuro; e per esempio, quando taluno ripete ancora "Lotta di classe e Vienna asburgica!", subito rispondere: "Mambo! Samba! Beguin the Beguine!". Usciva severo il biasimo dell'autore per rincorse facili ai temi stagionali della frivolezza; la conclamata dei-deologizzazione risultava una, banalmente cinica, superficialità, dove il senso della storia e quello della qualità andavano perduri: "Piccoli Pentiti: pensatori che un tempo consideravano cicale e non formiche chi andava alle antiche sfilate di Valentino e Ken Scott con la mitica Diana Vreeland... E scoprendo adesso (a rimorchio del pubblico) la Moda della Moda quale vantaggiosa industrietta accademica all'ombra del prèt-à-porter, e occupandosene improvvisamente in mancanza di testi o memorie da consultare, sono portati a confusioni retrospettive tra Galitzine e Barentzen, senza saper mai bene se i rapporti qualitativi tra Lancetti e Schuberth fossero analoghi a un paragone Goethe-Schiller, o non piuttosto Myrna Loy-Marisa Vernati...". Lo splendore morale del discorso si abbinava ad efficaci strumenti espressivi come gli irresistibili commenti che i gerarchi avrebbero fatto uscendo dall'esposizione milanese. La necessità di studiare gli anni trenta si mescolava al fastidio per vederli mal studiati ed equivocamente riproposti: i mezzi di persuasione del presente richiamavano quelli del passato: "Insomma nello spietato volgere delle mode culturali, gli orgasmi e sturbi critici dei nostri vecchi anni Cinquanta pet la sedia tubolare e i tacchi di sughero e Violette nei capelli avevano un preciso segno Kitsch e camp di irrisione storiografica, come una rilettura "straniata" delle caramelline più "artistiche" degli Ermetici. Nettamente dopolavoristica, e del tutto analoga a quella delle masse del Trenta, risulta invece la fruizione attuale di massa nei confronti dei medesimi oggetti del Trenta, pigiami da spiaggia o fez col fiocco". L'oscenità mite del postmoderno veniva censurata, e la tensione civile esplodeva in una rista delle mancanze della mostra milanese, dove, al fondo, "mancava, del resto, un brivido d'orrore (o demistificazione )". Nel corso della perorazione, sapientemente retorica, erano ribaditi i valori reali, le qualità di Morandi, De Pisis, Scipione, De Chirico, Sironi, attraverso il consueto espediente dell'elenco, esteso dai pittori al mondo della lirica, del teatro, della letteratura, del cinema. Il livello del linguaggio è felicemente saggistico, e talvolta si innalza come nelle due prose d'arte, redente dai fasti banali di "FMR", dedicate al Vittoriale e al Foro Mussolini. Nel testo sulla dimora di D'Annunzio ritornano frasi intere del Povero immaginifico della Belle Epoque per le scuole, in una sistemazione di giudizioso divertimento. Diverso ed elegiaco, invece, il testo sul Foro italico, dove la descrizione delle statue marmoree dei giovani atleti è condotta, per quasi tre quarti del testo, con sensibili rimandi a Pasolini o a Sandro Penna, per inarcarsi, cambiando di registro, nelle righe finali, dove si ricercano, forse con troppa semplicità, nella pittura accademica (Ingres, i Flandrin, Merson) i precedenti della "sodomia littoria lussureggiante allo Stadio dei Marmi". In questa ennesima rivisitazione da parte dell'autore dei "Giardini di Occidente dopo l'orario di chiusura" brilla, in fondo, viva e altissima, la stella di Mario Schifano. Le mostre di Arbasino di Enrico Castelnuovo Le grandi mostre d'arte, queste attualissime istituzioni, altrettanto eloquenti sul nostro tempo di quanto le esposizioni universali, i grandi magazzini, imitici "passages" furono per altri. Oggi nella nostra cultura la grande mostra ha un ruolo peculiare, propone mappe secondo cui rivisitare il tempo e lo spazio, suggerisce antenati, appronta gli strumenti della distinzione. Sulle mostre Roberto Longhi ha costruito durevoli cattedrali: Officina Ferrarese, Giudizio sul Duecento, Viatico per Cinque Secoli di Pittura Veneta, testi favolosi che hanno sconvolto e dato nuovi assetti all'immagine dell'arte italiana, ma estremamente eloquenti anche sulle vie e le discussioni degli anni tra il '35 e il '50. Oggi il raggio, l'orizzonte delle mostre sono mutati, la cadenza ne e accelerata al massimo, diversa ne è la frequentazione per cui /'outsider di buono e rapido intelletto, specie se di ottima penna, può esserne più lucido esegeta dello specialista, storico dell'arte professionale. Alberto Arbasino, infaticabile grand fla-neur, si fa testimone e cronista delle grandi mostre. Impossibile sorprenderlo non informato. Ha visto tutto, è stato — o sta per andare — dovunque. Ter quindici anni non ha perso una mostra ad Amsterdam o New York, Parigi o Londra, Milano, Monaco o Lisbona. Il suo passo ha echeggiato senza stanchezza nei loro templi, si è inoltrato nei meandri cementizi della Hayward Gallery, è passato tra le colonne e gli architravi di cui un Vitruvio nazi ha adornato l'Haus der Kunst, si è soffermato di fronte alle floride vetrate del Ri/ksmuseum, ha salito le scale di Burlington House, ha fatto scricchiolare i pavi- 1 menti dell'Hotel de Sully. Si e molto divertito — si direbbe — e ricorda ogni cosa, felicemente, senza sforzo. Connette con maestria una fitta ragnatela di nomi propri a una girandola rischiarante di aggettivi e cala il tutto in una selva di accorti sostantivi. Distacco, leggerezza, ironia lo aiutano ma non sostituiscono il giudizio civile e morale che puntualmente interviene quando, per esempio, si trova davanti a un tentativo di legittimazione che intende trasformare un 'epoca tetra, povera e meschina nei Leggendari Anni Trenta. Tout comprendre non implica, necessariamente, tout pardonner. Andar per mostre oggi non è privo di rischi, come nel medioevo non lo era traversare un bosco dove si poteva incontrare di tutto, incanti, ideologie, gerarchie, superstizioni, orrori, meraviglie. Alla fine però appare chiara l'immagine dell'epoca in cui viviamo. Il lungo itinerario permette di delineare una mappa del mondo.